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Valorizzazione urbana e pratiche partecipative: il conflitto evidente

Il regime urbano di Roma negli anni Novanta


Roma anni Novanta neoliberismo
Immagine: Roberto Gelini

Pubblichiamo un articolo di Barbara Brollo che rientra nella cartografia dei decenni smarriti che stiamo costruendo. Le pratiche istituzionali di partecipazione cittadina nei processi di valorizzazione urbana sono parte del discorso socialmente inclusivo con cui il neoliberismo si espande e si consolida durante le giunte di centrosinistra che governano Roma a partire dagli anni Novanta. La loro scarsa incisività è facilmente comprensibile considerando il regime urbano collusivo e la «macchina della crescita» che caratterizzano il potere urbano.

 

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Con questo contributo invito a porre l’attenzione su alcune pratiche di sviluppo urbano date dal consolidamento neoliberista nel corso degli anni Novanta. I temi sono quelli della valorizzazione territoriale e dei processi partecipati, rilevanti sia separatamente che nella loro intersezione. Questa unione è interessante perché rivela la dimensione meramente discorsiva e propagandistica della partecipazione cittadina istituzionalizzata, data la posta in gioco per gli altri portatori di interesse coinvolti nel processo, cioè i proprietari dei terreni e gli sviluppatori immobiliari.

Gli anni Novanta iniziano, a livello urbano, con un contesto economico sfavorevole per l’aumento del debito e la conseguente diminuzione della spesa pubblica. Inoltre, il processo di integrazione europea a cui l’Italia aderisce porta a maggiori vincoli per la fiscalità nazionale e locale. In ambito di politica parlamentare finisce la cosiddetta «prima repubblica». Il nuovo, e instabile, assetto è caratterizzato da un appiattimento delle posizioni verso il centro. A Roma il decennio inizia con una giunta socialista-democristiana, col sindaco Franco Carraro, soprannominato «il poltronissimo», implicato in diverse controversie per i molti ruoli politici e incarichi dirigenziali ricoperti, oltre alla vicinanza col mondo bancario, indagini giudiziarie, incriminazioni e sfiducia dei suoi consiglieri. Dopo qualche mese di commissariamento gli succede Rutelli che, seguito da Veltroni, inaugura un lungo periodo di potere del centrosinistra nella capitale. È in questo contesto economico e politico che si espande e consolida il neoliberismo, in Italia e a Roma. Alla contrazione della spesa pubblica e all’abbandono di politiche keynesiane conseguono privatizzazioni di imprese pubbliche e il passaggio dal welfare al workfare. La nuova rappresentanza politica da una parte rinnova la fiducia nel settore del business, che viene coinvolto nella progettazione e realizzazione dell’agenda urbana; dall’altra promuove una maggiore partecipazione sociale, realizzando alcune istanze portate avanti dai movimenti sociali e attraverso la predisposizione di processi partecipativi nella progettazione. La narrativa sottostante al discorso politico di questa fase riprende i topoi di sviluppo urbano neoliberista che caratterizzano le modalità di accumulazione di questa fase dello sviluppo capitalistico. La dimensione discorsiva assume una relazione positiva tra il successo economico nella competizione con altre città e la coesione sociale interna, relazione che in realtà è lungi dall’essere automatica. Anzi, si dimostrerà poi come questo modello – fatto di un sistema economico orientato su servizi in cui sono richieste competenze elevate non disponibili a tutti, la flessibilizzazione del lavoro e il restringimento dello stato sociale – porterà ad un aumento delle disuguaglianze, tra chi è messo nelle condizioni di coglierne i benefici e chi no.

 

Il regime collusivo dell’Urbe

Un concetto utile per comprendere il contesto socioeconomico è quello di regime urbano, presentato dai sociologi Ernesto D’Albergo e Giulio Moini come un sistema di relazioni fra élite economica e politica, locale e nazionale, capace di riprodursi anche in presenza di alternanze politiche delle amministrazioni comunali. Una delle caratteristiche di questa configurazione è che sopravvive ai cambiamenti elettorali. Dato il bipartisan appoggio al neoliberismo, nonostante il cambio di giunta, c’è una continuità nel trend generale di relazioni tra politica ed economia e quindi promuovendo la logica della concorrenza a livello globale, tramite la «valorizzazione urbana» quale principale, se non unica, fonte di sviluppo possibile. La declinazione operativa è infatti quella del «blocco della crescita» che consiste in uno specifico tipo di regime urbano basato sullo sviluppo immobiliare. L’economia romana moderna, infatti, si è sempre basata su questo settore, data la proclamazione come capitale in una città arretrata e quindi (quasi) tutta da costruire. Un’ulteriore specificazione ha a che fare con le modalità organizzative dei gruppi di potere all’interno di questo sistema. Il caso di Roma – non certo l’unico – è di tipo collusivo. Sempre secondo D’Albergo e Moini, ciò consiste in un insieme di relazioni politico-egemoniche che instaurano una coerenza contingente tra i loro interessi e obiettivi e, allo stesso tempo, consente loro di perseguire strategie specifiche di massimo vantaggio dal processo generale di produzione di ricchezza. Questa configurazione descrive bene Roma, in cui grandi proprietari terrieri e sviluppatori immobiliari condividono interessi e obiettivi, allo stesso tempo competendo e coordinandosi per spartirsi le risorse in campo e acquisire influenza nello spazio urbano.Questo orizzonte di crescita si concretizza con un orientamento dell’azione pubblica volto a liberalizzare per lasciar spazio all’azione privata, semmai svolgendo azioni che incrementano il valore dei terreni, ad esempio creando infrastrutture pubbliche, come i trasporti. Questa modalità mostra una difficoltà (per mancanza di volontà alla base) nel garantire al pubblico un ritorno nei propri investimenti, tanto rispetto alle infrastrutture che realizza quanto, alla base, nel concedere diritti edificatori, moneta di scambio che potrebbe portare grandi ricchezze all’amministrazione e alla città intera.

 

Chi acquisisce il valore della valorizzazione?

La tendenza a non saper far valere le giuste ragioni di scambio nella concessione di diritti edificatori è ben rappresentata dal principale strumento di gestione della crescita urbana, cioè il Piano Regolatore Generale. Teoricamente si tratta di uno strumento di concertazione generale, ma nella pratica, soprattutto a Roma, è rappresentazione della cooptazione del valore producibile da parte di proprietari terrieri. Il Piano vigente è stato redatto e approvato proprio durante le giunte di centrosinistra, con un processo che si snoda praticamente lungo tutti i quattro mandati di Rutelli e Veltroni, dalla «variante delle certezze» del 1997 all’approvazione nel 2008. Secondo alcuni, fu proprio la scontentezza per la spartizione della torta di alcuni dei blocchi del potere fondiario romani che determinò la caduta di Veltroni nel 2008.Senza entrare troppo nello specifico, il Piano prevede un sistema di perequazioni e compensazioni che lascia ampio margine alla speculazione. Inoltre, gli studiosi denunciano come sia un Piano che più che programmare si limita a ratificare, secondo una malsana tendenza di lunga data dell’urbanistica romana.Un esempio tangibile è offerto dalla realizzazione delle cosiddette «nuove centralità», una delle principali strategie operative proposte dal Piano. Il fine è quello di scaricare il centro storico della forte pressione funzionale che subisce, data la struttura monocentrica della città. Questa operazione ha una sua valenza a livello di teoria dello sviluppo urbano, ma la sua declinazione nella realtà romana è problematica. Ad esempio, i progetti previsti ricadono spesso in terreni di proprietà di famiglie del «blocco della crescita».

Ma la questione più problematica è il margine che viene dato per aumentare le cubature residenziali e commerciali senza garantire che prima, o quantomeno contemporaneamente, vengano costruiti anche servizi pubblici, come mezzi di trasporto adeguati e spazi pubblici di qualità. I frutti di questo tipo di sviluppo sono riscontrabili in diversi casi, come la costruzione, a nord-est, del grande complesso residenziale e commerciale di Porta di Roma, a cui non si è affiancato il previsto prolungamento della metro B (Rebibbia-Casal Monastero). Un altro caso riguarda l’aumento di cubatura di Romanina, a cui non è seguito il prolungamento della metro A, contribuendo alla serie di incompiuti di cui si caratterizza l’area, come l’iconica (e abbandonata ancor prima dell’inaugurazione) «vela di Calatrava». Sul completamento di questi incompiuti si è basata parte della strategia con cui Roma si è proposta per la candidatura della capitale ad ospitare Expo 2030. Fallita la candidatura pare sarà il Giubileo 2025 a mettere delle toppe. Si vedrà. I grandi eventi, infatti, sono un altro degli ambiti prediletti dal blocco della crescita, per la capacità di attrarre ingenti finanziamenti e la compartecipazione pubblica. La capacità di questi eventi di creare sviluppo – inteso come miglioramento della qualità dello spazio urbano e della vita nelle città e nei quartieri coinvolti – resta spesso uno slogan sulla carta, come dimostrato da diversi casi, in cui quello che è rimasto è molto cemento, riuso problematico delle strutture e debito pubblico. Nella narrazione generale spiccano i casi positivi – come quello delle olimpiadi di Barcellona 1992 – perché rari. Lo scandaloso caso dei lavori incompiuti per i mondiali di nuovo del 2009, cioè l’irrealizzata città dello sport di Tor Vergata (la citata Vela di Calatrava) e le piscine abbandonate nell’area di Valco San Paolo, sono una dimostrazione plastica della dimensione particolarmente grottesca che assume il fenomeno nel contesto romano.

 

E la partecipazione?

L’interpretazione del discorso neoliberista proposto dal centrosinistra degli anni Novanta insisteva molto sul tema della partecipazione dei cittadini alle scelte urbanistiche, tanto che nel 2006 il Consiglio Comunale approva il Regolamento sulla partecipazione dei cittadini alle trasformazioni urbanistiche. Questo programma avrà più la funzione di sostenere il discorso sul coinvolgimento cittadino che una sua reale attuazione. Gli strumenti proposti, infatti, sono esplicitamente di tipo informativo, riguardo progetti già decisi, o marginalmente consultivo, ma senza possibilità di modificare sostanzialmente l’idea progettuale. Un esempio è il Progetto Urbano San Lorenzo in cui la partecipazione, oltre che sottoporre un progetto complesso in tempi ristretti, ha portato all’elaborazione di documenti che non sono poi stati assunti dall’amministrazione. È particolarmente grave, e indicativo del personalismo che affligge la politica rappresentativa, il fatto che questo processo sia stato ripetuto più volte, da giunte diverse, affinché ognuno potesse dichiarare di aver agito in questo senso, ma se senza mai portare ad applicazioni dirette. Un altro esempio lampante del carattere programmaticamente effimero di questi progetti è quello del Bilancio Partecipato promosso in alcuni Municipi. L’idea è interessante, perché permette alla cittadinanza di decidere come allocare parte delle risorse municipali, ma il risultato è tradito dalla minima autonomia economica e decisionale che ha questo ente, costituito in ottica di decentramento e avvicinamento dei livelli decisionali ai cittadini, ma che non ha un effettivo potere né concreta autonomia di bilancio.  La questione del potere è l’elemento centrale di una seria analisi sui processi partecipativi, soprattutto in ambito urbanistico e in una città che vive di rendita fondiaria. Mentre il tessuto associativo e i movimenti (quando va tutto bene…) vengono coinvolti dalla politica per discutere di singole questioni, più con l’intento di assorbire pressioni che per modificare sostanzialmente l’azione politica, la sensazione diffusa è che il coinvolgimento degli operatori privati rilevanti nell’agenda istituzionale avvenga su altri piani, in altre stanze, senza passare per arene pubbliche controllabili.

La stanchezza e disillusione che si creano in seguito a processi partecipativi falliti delegittimano il potere politico e allontanano i cittadini dagli inviti di partecipazione istituzionale. Un risvolto positivo che si può innescare da questi processi falliti, nei casi in cui riescono quanto meno ad attivare gruppi di cittadini, è quello della presa in carico in prima persona delle aree in trasformazione. Un esempio sono le occupazioni. Restando nell’ambito territoriale del quartiere San Lorenzo – travolto dall’attuale meccanismo di estrazione di rendita, come l’abitare temporaneo, e poc’anzi nominato per le esperienze fallimentari di partecipazione istituzionalizzata – si possono nominare l’esperienza di Communia e dell’ex Cinema Palazzo. Al di là delle pratiche istituzionali fallite, associazioni e movimenti si auto-organizzano e agiscono per liberare spazi non commerciali dove socializzare, fare politica e mostrare che un’altra città è possibile. Questo, oltre al risultato immediato di riappropriazione, costituisce esperienze che ridefiniscono gli equilibri nei rapporti di forza nell’immaginare e progettare gli spazi urbani. Resta la necessità di controllare e poter influire sulle trasformazioni a livello metropolitano, perché lo sviluppo di grandi complessi a puro scopo speculativo intacca la qualità della vita non solo di chi ci vive ma di tutta la città, su cui gravano varie conseguenze, dall’inquinamento di una città che appesantisce la propria impronta ecologica, all’inefficienza generale della città diffusa e alle disuguaglianze sociali ed economiche della popolazione.

 


Per approfondire:

 L. Angeloni, D. Festa, A. Giangrande., A.  Goni Mazzitelli, R. Troisi, Democrazia emergente. La stagione dei Bilanci Partecipativi a Roma e nel Lazio, Gangemi editore, Roma 2013.

P. Berdini, D. Nalbone, Le mani sulla città, Edizioni Alegre, Roma 2011.

L. Bobbio, G. Pomatto, Il coinvolgimento dei cittadini nelle scelte pubbliche, «Meridiana», n. 58, 2007.

L. Casini, Perequazione e compensazioni nel piano regolatore di Roma, «Giornale di diritto amministrativo», n. 2, 2009.

E. D’Albergo, G. Moini, Il regime dell’Urbe. Politica, economia e potere a Roma, Carocci, Roma 2015.

 

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Barbara Brollo è assegnista di ricerca e docente a contratto di geografia economico-politica presso l’università Sapienza di Roma. Ha una preparazione multidisciplinare, che unisce scienze politiche, economia, urbanistica e geografia. È autrice di diversi articoli scientifici e, insieme ad Alessandro Barile, Sarah Gainsforth e Rossella Marchini, del libro Dopo la gentrificazione. Un quartiere economico dalla crisi economica all’abitare temporaneo, DeriveApprodi 2023.

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