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Uno spettro si aggirava per l'Europa?

Il nazionalismo delle minoranze negli anni Novanta

 


 



Murales

L’attivismo politico delle minoranze nazionali è un fenomeno storicamente controverso, espressione di posizioni politiche molto diverse o addirittura contrapposte. In Europa il nazionalismo è per molto tempo rimasto associato all’eredità delle due guerre mondiali, perciò valutato negativamente. In questo articolo Michel Huysseune ci guida nel frastagliato quadro dei movimenti e delle rivendicazioni indipendentiste degli anni Novanta, periodo segnato dalla dissoluzione del blocco socialista, tra «pacifica» transizione neoliberale e guerra civile. In questo contesto, l’autore si sofferma sulla folgorante ascesa della Lega Nord, esperienza che non ha trovato seguito nel resto dell’Europa occidentale.

 

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L’attivismo politico delle minoranze nazionali è spesso stato un fenomeno controverso. In Europa il nazionalismo è per molto tempo rimasto associato all’eredità delle due guerre mondiali, e perciò valutato negativamente, valutazione estesa ai movimenti di minoranze nazionali per la deriva di molti di loro (ma non tutti) verso l’estrema destra negli anni Trenta. Le stesse scienze sociali confermavano questa visione. Nel dopoguerra, la teoria predominante sulla modernizzazione vedeva nel nazionalismo soltanto uno strumento per mobilitare le popolazioni durante la transizione verso la modernità economica, e che in seguito sarebbe sparito.

Il revival dei nazionalismi sub-statali durante gli anni Sessanta e Settanta, proprio nel cuore dell’Europa economicamente più avanzata, ha tuttavia problematizzato questo modello teorico. Uno dei concetti-chiave di questo revival, ovvero il colonialismo interno del quale queste minoranze sarebbero vittime, venne poi teorizzato e dotato di valenza scientifica da Michael Hechter (1975). Interpretazione contestata: lo storico marxista Eric Hobsbawm rimaneva invece scettico verso questi movimenti (piccolo borghesi secondo lui), esempi delle politiche dell’identità della nuova sinistra che lui non ha mai apprezzato, con progetti di indipendenza irrealistici nel contesto del capitalismo globale dove soltanto grandi stati sarebbero stati in grado di controllare la globalizzazione (Hobsbawm 1990).

Anche in Italia la sinistra è generalmente stata poco attenta verso le rivendicazioni delle minoranze nazionali, ma sarebbe stata disingannata negli anni Novanta. Gli inizi degli anni Novanta corrispondono infatti ai folgoranti successi elettorali della Lega Nord. Le elezioni del 1992 obbligarono la classe politica (già toccata dall’inizio degli scandali di Tangentopoli) a rendersi conto della realtà del fenomeno leghista, fino ad allora considerato un anacronismo folklorico. Il successo della Lega esprimeva in primo luogo la crisi dell’egemonia democristiana nelle zone periferiche del Nord (Lombardia, Veneto, Piemonte, Friuli-Venezia Giulia e Trentino), alla quale offriva un’alternativa localista e sostanzialmente di destra, con la diffidenza nei confronti dello Stato e dell’Altro nella comunità (funzionari statali e immigrati, anche dal Sud) come collante ideologico. Al contrario della controcultura degli anni Settanta, il leghismo – che si profilava come portavoce degli industriali e degli operai del capitalismo diffuso delle piccole imprese nelle periferie del Nord – implicava l’accettazione del capitalismo come normalità (Huysseune 2004).

La Lega ha provato a inserire la propria proposta politica in un contesto più largo. Nel libro Vento del Nord (1992, scritto insieme al giornalista Daniele Vimercati), Umberto Bossi associa la caduta del comunismo al ridisegnarsi delle frontiere sotto la pressione dei popoli. Parafrasando Marx, afferma che il fantasma del federalismo si aggira per l’Europa (Bossi e Vimercati 1992, p. 196). Si riferisce ovviamente ai movimenti nazionalisti nel mondo comunista, ma parla anche della crisi del modello ottocentesco centralista dello Stato e della presunta svolta verso il federalismo in Francia e in Belgio (ivi, p. 203). Il testo si limita alla difesa del federalismo come sistema per gestire la differenza, ma nota comunque che, se i popoli non riescono a convivere, come nel caso della Jugoslavia, l’indipendenza è l’alternativa logica (ivi, p. 198).

Nel suo libro del 1993, La rivoluzione, Bossi amplifica questa panoramica dell’autonomismo, menzionando accanto agli ex-stati comunisti anche l’Europa occidentale, nonché vari esempi dall’Asia, dall’Africa e dall’America Latina (Bossi e Vimercati 1993, pp. 127-130). Notando che alcuni di questi casi di autonomismo sono violenti, Bossi dichiara che anziché di «un improvviso impazzimento della razionalità» (ivi, p. 128) si tratta della fine della spartizione del mondo fra due blocchi imperialisti e della messa in discussione del concetto stesso di Stato (interpretato come Stato centralista). Se motivata da ragioni economiche, la dissoluzione dello Stato può avvenire pacificamente (v. Belgio e Cecoslovacchia). Se invece è caratterizzata da ostilità etniche, la situazione può precipitare verso la guerra civile (v. Jugoslavia e le repubbliche ex sovietiche) (ivi, p. 129).

Le profezie di Bossi si sono avverate solo molto parzialmente. Gli anni Novanta sono effettivamente gli anni delle guerre nell’ex Jugoslavia, mentre nell’ex Unione Sovietica i conflitti etnici sono continuati anche dopo la sua dissoluzione. Tuttavia, la previsione di una possibile crisi dello Stato-nazione nell’Europa Occidentale non si è avverata, almeno non nel breve termine. I referendum e le mobilitazioni indipendentiste in Scozia (2014) e Catalogna (2017) contrastano con gli anni Novanta, quando tali mobilitazioni delle minoranze non erano all’ordine del giorno. La dissoluzione dello Stato belga non si è realizzata, la crisi politica del 1993 (crisi strettamente istituzionale senza significative mobilitazioni popolari) si è risolta con un compromesso e la definitiva accettazione della trasformazione federalista dello Stato.

In quel che segue, proverò ad analizzare queste dinamiche differenziate e a spiegare perché negli anni Novanta l’esperienza della Lega non ha trovato seguito nel resto dell’Europa occidentale.

 

Il nazionalismo come collante ideologico nell’Europa post-comunista

 Il ruolo del nazionalismo nella dissoluzione del comunismo è innegabile, ma il nazionalismo come nuovo collante ideologico ha anche reso più problematica la transizione post-comunista. Le aspirazioni contrastanti di vari gruppi nazionali sono spesso state fonte di conflitto. Se la maggioranza di questi conflitti sono rimasti limitati a confronti politici (l’esempio più lampante è la dissoluzione pacifica della Cecoslovacchia), altri conflitti hanno innescato delle vere e proprie guerre etniche nell’ex Jugoslavia e nell’ex Unione Sovietica.

Nel caso dell’ex Jugoslavia, gli anni Ottanta hanno messo in crisi il sistema federale che fino alla morte di Tito aveva goduto di una reale legittimità (Woodward 1995). Dopo la riforma costituzionale del 1974 le affermazioni identitarie delle repubbliche e le dinamiche competitive fra esse erano diventate più importanti, mentre lo sviluppo ineguale dei territori causava dei risentimenti nelle repubbliche più ricche – Slovenia e Croazia – obbligate alla solidarietà federale. Queste tendenze venivano rafforzate della crisi del debito degli anni Ottanta, con una tensione fra le domande dei creditori per una ricentralizzazione della federazione, e le aspirazioni delle repubbliche, in primo luogo quelle più ricche.

La presa di potere di Slobodan Milosevic in Serbia (1987) e l’affermazione di un nazionalismo serbo più aggressivo (con l’abolizione dell’autonomia della Vojvodina e del Kosovo) contribuirono ulteriormente a indebolire l’unità della Jugoslavia. La conversione al nazionalismo di una parte consistente dell’intellighenzia (e particolarmente degli intellettuali di sinistra collegati alla rivista «Praxis») ha anche contribuito a creare un contesto dove i vari nazionalismi etnici apparivano come un’alternativa plausibile al comunismo. Le conseguenze drammatiche si sono manifestate durante tutto il decennio. Se la Slovenia, etnicamente abbastanza omogena, è riuscita a diventare indipendente senza grossi conflitti, guerre sanguinari hanno colpito Bosnia, Croazia e Kosovo (e anche la Serbia, bombardata durante la guerra del 1999), mentre la pace in Macedonia fra Macedoni e la minoranza albanese rimaneva fragile (e avrebbe conosciuto una breve guerra civile, fortunatamente meno drammatica, nel 2001).

Nel caso dell’Unione Sovietica, la crisi del comunismo può anche essere letta come una crisi del sistema imperiale russo, di fatto continuato durante l’esistenza dell’Unione sovietica. La dimensione nazionale e l’attivismo di alcune minoranze nazionali hanno avuto un ruolo preponderante nella dissoluzione dell’Unione Sovietica. Questo attivismo era particolarmente importante nelle repubbliche baltiche, dove era forte il rifiuto dell’inclusione nell’Unione sovietica, considerata illegittima, e queste repubbliche saranno anche i primi a proclamare la loro indipendenza, seguite dalla Georgia (1990-1991).

La dissoluzione dell’Unione sovietica non ha completamente risolto la questione nazionale. La Russia stessa è stata soggetta a spiccate tendenze centrifughe: le dichiarazioni di sovranità di vari territori e soprattutto la dichiarazione di indipendenza della Cecenia, riconquistata soltanto durante la seconda guerra cecena (1999-2009). Ma pure nelle nuove repubbliche indipendenti, dove spesso il gruppo etnico maggioritario tendeva a voler imporre il proprio dominio, non mancavano conflitti etnici anche armati. Questi erano particolarmente importanti nel Caucaso: fra Armenia e Azerbaigian nel Nagorno-Karabach, e in Georgia fra georgiani e le minoranze di abcasi e osseti (con un intervento militare russo per sostenere la minoranza abcasa). In varie repubbliche, la presenza delle minoranze russofone era percepita come un potenziale pericolo, che si è effettivamente concretizzato nel caso della minoranza russa in Moldova, che tramite una azione militare ha creato la repubblica di Transnistria, tuttora esistente (anche se non internazionalmente riconosciuta).

 

L’Europa occidentale: minoranze in cerca di nuove prospettive

 Se Bossi si augurava una primavera dei popoli anche nell’Europa occidentale, le sue aspettative furono senz’altro deluse durante gli anni Novanta. Contrariamente a quanto accadeva nei paesi ex comunisti, le minoranze nell’Europa occidentale non sembravano essere state toccate da significativi processi di radicalizzazione. Vari fattori possono spiegare la loro evoluzione negli anni Novanta. L’emergere stesso del nazionalismo nei paesi ex comunisti e la violenza di questo nazionalismo hanno chiaramente funzionato come deterrente. Gran parte dei movimenti sub-nazionali nell’Europa occidentale ha rifiutato il violento nazionalismo etnico affermatosi soprattutto nell’ex Jugoslavia. Non è un caso che, nel decennio successivo, la nuova leva di indipendentisti in Sardegna si proclamasse non-nazionalista, per distanziarsi del modello negativo jugoslavo (Pala 2016). In effetti, molti movimenti sub-nazionali nell’Europa occidentale adotteranno in quegli anni in un modo più esplicito una visione inclusiva dell’identità sub-nazionale.

La stessa Lega non ha certo adottato la strategia violenta dei nazionalisti nell’ex Jugoslavia. Negli anni Novanta appare ancora come un partito in cerca di una collocazione ideologica. Benché fin dall’inizio la sua accettazione del capitalismo liberale l’abbia distanziata dalla sinistra, l’attuale profilo di estrema destra del partito si è affermato solo gradualmente. All’inizio degli anni Novanta, la Lega ha provato a unire la sua retorica antimeridionale e anti-immigrati con l’accettazione (soprattutto retorica) dei valori liberali, come l’uguaglianza di genere. Anche nella cosiddetta fase padanista (1995-98), il partito non aveva ancora abbandonato un certo pluralismo ideologico. È soltanto verso la fine degli anni Novanta che la Lega adotta più esplicitamente un discorso simile all’estrema destra, profilandosi come un partito anti-immigrazione e anti-Islam, abbandonando i riferimenti ai valori liberali, proponendo un profilo anche culturalmente più conservatore e affermando allo stesso tempo il suo euroscetticismo.

L’unico partito di minoranza nazionale occidentale paragonabile alle Lega era il Vlaams Blok (Blocco fiammingo) nelle Fiandre. Erede del nazionalismo fiammingo di estrema destra degli anni Trenta e del collaborazionismo durante l’occupazione nazista, la leadership del partito era riuscita a innovare il programma del partito insistendo, oltre che sulla tradizionale ostilità verso lo stato belga e i francofoni, anche sulla lotta contro l’immigrazione, attraendo un elettorato popolare, spesso ex socialista. Gli anni Novanta saranno per il partito – programmaticamente vicino alla Lega Nord, soprattutto dopo la svolta a destra alla fine degli anni Novanta – una serie di successi elettorali anche a scapito dei nazionalisti moderati della Volksunie (Unione popolare).

Il secondo fattore che può spiegare la limitata radicalizzazione delle minoranze nell’Europa occidentale è l’evoluzione della Ue stessa, che dagli anni Ottanta si dimostra più interessata alla dimensione regionale. Il Trattato di Maastricht (1992) instaura una nuova istituzione, il Comitato delle Regioni. Fondato soprattutto sotto pressione delle regioni tedesche, preoccupate dall’indebolimento del loro potere a causa dell’integrazione europea, il Comitato sembrava comunque dare un ruolo più importante alle regioni. Alcuni degli stessi stati-membri avevano conosciuto un processo di regionalizzazione: l’Italia nel 1970, la Francia nel 1982, mentre il Belgio conoscerà una lenta trasformazione da stato unitario a stato federale (transizione provvisoriamente conclusa nel 1993), e la Gran Bretagna accetterà la devoluzione nel 1997.

Un’altra clausola del Trattato di Maastricht concedeva in alcune casi alle autorità regionali la possibilità di partecipare alle riunioni dei Consigli dei Ministri. Anche la presenza crescente di rappresentanze delle regioni a Bruxelles contribuiva a creare l’impressione di istituzioni più aperte verso le realtà regionali (inclusi i diritti delle minoranze). Alcune minoranze (particolarmente le loro componenti moderate) si sono effettivamente investiti nel lobbying a Bruxelles, nel Comitato delle Regioni, o tramite il loro ufficio regionale (particolarmente la Catalogna). Presto avrebbero scoperto il ruolo essenzialmente subordinato attribuito dalle istituzioni europee alle autorità regionali, interlocutori considerati utili quando si trattava di discutere interessi economici, ma ignorati nelle loro rivendicazioni identitarie.

L’evoluzione del clima politico è un altro elemento che ha influenzato i movimenti sub-nazionali nell’Europa occidentale. Negli anni Sessanta e Settanta si era visto uno spostamento a sinistra di questi movimenti, nonché l’emergere di partiti politici che proponevano un nazionalismo di sinistra, anche radicale. Alcuni di questi movimenti, spesso ispirati dai movimenti anticoloniali nel Terzo mondo, erano anche attratti dalla lotta armata, che in alcuni casi (Irlanda del Nord, Paesi Baschi, Corsica) poté anche contare su un sostegno popolare minoritario ma consistente. Il riflusso degli anni Ottanta ha inevitabilmente causato una crisi di questo nazionalismo radicale, rafforzata anche dalla caduta del comunismo. In Catalogna, ad esempio, i gruppi radicali che erano emersi negli anni Settanta vengono marginalizzati, e il partito autonomista e centrista CiU diventerà per molti anni egemonico nella regione (Perri 2023, pp. 171-173).

In altri casi il processo è stato meno netto. Se in Scozia le tendenze più radicali dentro il Scottish National Party (Snp) sono escluse o marginalizzate, il partito (come anche Plaid Cymru – Pc – nel Galles) conosce un’evoluzione dal suo tradizionale centrismo verso posizioni più social-democratiche, per poter meglio competere con il Labour (egemonico nelle due regioni), scelta motivata anche dal forte rifiuto del thatcherismo in Scozia (Perri 2023, pp. 163-170). Nel 1987, il Snp introduce lo slogan «indipendenza in Europa», profilandosi non solo come socialdemocratico ma considerando anche l’Europa meno capitalista e più progressista (anche su tematiche ecologiste e di genere) del Regno Unito di Thatcher (Tarditi 2013, pp. 47-48). Negli anni Novanta, Snp e Pc approfitteranno della finestra di opportunità offerta dalla vittoria elettorale del Labour nel 1997, e otterranno tramite la devoluzione una misura di autogoverno regionale (più estesa in Scozia che in Galles). Nelle prime elezioni per le assemblee regionali, nel 1999, Snp e Pc risultavano essere il secondo partito della loro rispettiva regione.

È peraltro notevole che due partiti rappresentanti le minoranze nazionali siano riusciti negli anni Ottanta a unire un profilo radicale e risultati elettorali significativi: Herri Batasuna nei Paesi Baschi, e Sinn Féin nell’Irlanda del Nord. Questi partiti, eccezioni in quel contesto di riflusso che ha marginalizzato la sinistra radicale europea, si sono radicati nelle loro rispettive regioni e hanno costituito un’alternativa reale ai rispettivi partiti nazionalisti moderati dominanti (il Pnv nei Paesi Baschi, Il Sdlp nell’Irlanda del Nord). Negli anni Novanta questi due partiti si trovano tuttavia ad affrontare nuove sfide.

La sinistra abertzale rappresentata da Herri Batasuna (ovvero gli indipendentisti che non accettavano i compromessi post-franchisti e simpatizzavano con la lotta armata condotta dall’Eta) deve confrontarsi col fallimento dei negoziati governo-Eta nel 1989. Dentro la sinistra abertzale due strategie si fronteggiano durante gli anni Novanta. Una consiste nell’apertura verso le mobilitazioni della società civile basca, i movimenti ambientalisti e femministi, o quello degli obiettori di coscienza contro la leva. Seguendo questa linea, l’organizzazione giovanile Jarrai riformava nel quinto congresso (1993) la propria struttura altamente centralista e optava per una maggiore pluralità interna e apertura verso altre esperienze. L’altra strategia consisteva nella radicalizzazione della lotta armata, con azioni contro presunti «collaborazionisti», e la «kale borroka» (guerriglia urbana di bassa intensità), una scelta strategica dell’Eta contestata per la prima volta anche dentro la sinistra abertzale (Cirulli 2018, pp. 114-120).

Nell’Irlanda del Nord il Sinn Féin aveva già negli anni Ottanta iniziato una graduale trasformazione da un movimento essenzialmente nazionalista e militarista a un movimento politico repubblicano-socialista, con delle aperture anche verso il femminismo. Questa trasformazione continua negli anni Novanta. La leadership di Gerry Adams spinge in questi anni all’abbandono della lotta armata, raggiunto con i Good Friday Agreements del 1998. Questa scelta viene contestata da una minoranza militante ma è gradita dalla popolazione stanca di violenza, e permetterà peraltro l’affermazione del partito anche nell’Irlanda del Sud (Perri 2018, pp. 48-49).

Anche i nazionalisti radicali in Bretagna e Corsica avevano adottato la lotta armata negli anni Settanta. Fenomeno marginale in Bretagna, dove persino il nazionalismo moderato rimaneva debole nonostante il vivace attivismo in difesa della lingua bretone, la lotta armata era molto più consistente in Corsica. Tuttavia, i conflitti interni nel Flnc (Fronte nazionale di liberazione della Corsica) causano una scissione nel 1990, che sarà seguita da una lotta fratricida fra le diverse fazioni, indebolendo e screditando l’indipendentismo radicale. Diversamente dalla Bretagna, l’autonomismo e l’indipendentismo rimarranno presenze radicate in Corsica anche dopo gli anni Novanta (Perri 2023, pp. 216-219).

In Galizia (Spagna), al contrario, gli anni Novanta vedono il consolidamento e successi elettorali importanti per il Bng (Bloque nacionalista galego). Egemonico nel campo nazionalista, il partito incarnava una tradizione di radicalismo e di euroscetticismo antimperialista (benché non-violento). Verso la metà degli anni Novanta il partito conosce un’evoluzione verso un nazionalismo più inclusivo. Non abbandona completamente le critiche verso la Ue, ma sceglie una strategia per migliorare le istituzioni europee, avvicinandosi allo stesso tempo anche a politiche ambientaliste e di genere (Tarditi 2013, pp. 50-51). In Catalogna, il nazionalismo rimane dominato dai centristi moderati della CiU, ma si vedono anche le prime incrinature in questa egemonia, con una rinascita della sinistra repubblicana (Erc) (Perri 2023, pp. 192-193). 

 

Conclusione

 L’attivismo delle minoranze nazionali è certamente una prova che gli anni Novanta non hanno incarnato soltanto la fine della storia e il trionfo del liberalismo auspicato da Francis Fukuyama. Come in periodi precedenti, questo attivismo era caratterizzato da una grande varietà ideologica. Il nazionalismo etnico violento nel ex Jugoslavia, la sua versione meno violenta, ma comunque razzista, nelle Fiandre e, verso la fine degli anni Novanta, anche più esplicitamente razzista nel caso della Lega Nord sono in netto contrasto con il nazionalismo ispirato dalla tradizione marxista in Irlanda del Nord, nei paesi Baschi e Galizia.

Nei paesi ex comunisti il nazionalismo ha indubbiamente rappresentato un collante ideologico dopo la caduta del comunismo, e la competizione fra nazionalismi opposti è stata fonte di conflitti, alcuni violenti. La maggior parte di questi conflitti si sono presto congelati, ma negli ultimi anni si è visto che possono facilmente essere riattivati, come nel caso del Nagorno-Karabach. L’Ucraina dimostra invece la continuità del nazionalismo russo, e come possa venire sfruttata la presenza di minoranze russe negli Stati ex sovietici.

Nell’Europa occidentale prevale negli anni Novanta un posizionamento europeista che, seppur con qualche critica, viene accettato anche da partiti collocati verso la sinistra radicale (Bng, Sinn Féin). Questo europeismo non viene abbandonato nei decenni successivi, anche se molti partiti diventeranno gradualmente più scettici sull’Europa come luogo di affermazione regionale – uno scetticismo che indubbiamente nutrirà tendenze indipendentiste. Gli anni Novanta vedono anche la crisi dell’interesse per la lotta armata. Sinn Féin sarà il primo ad accettare la sua cessazione, seguito nei decenni seguenti dall’Eta (negli anni Novanta ancora impegnata a indurire il confronto armato) e dal Flnc. Paragonabili ad altri partiti radicali come il Bng in Galizia, Sinn Féin e Herri Batasuna cercheranno come alternativa alla lotta armata di stabilire contatti con i nuovi movimenti sociali che stavano emergendo, una strategia portata avanti negli anni Duemila con alleanze con l’altermondialismo.

Gli anni Novanta saranno per molti partiti di minoranze nazionali in Europa occidentale un decennio di riallineamento ideologico e strategico, ma non di una conversione al liberismo dominante. Negli anni Duemila, la crescente consapevolezza della natura essenzialmente stato-centrica della Ue, le conseguenze della crisi economica del 2008, nonché il ritorno di un nazionalismo statale aggressivo (particolarmente in Spagna) stimoleranno prese di posizione pro-indipendenza (Cirulli et al. 2018).

Il referendum scozzese del 2014 e quello catalano del 2017 sono conseguenze di questa evoluzione. Come momenti eccezionali che hanno messo in difficoltà la stabilità dei rispettivi sistemi politici, dimostrano che le mobilitazioni delle minoranze possono diventare importanti momenti di politicizzazione e di messa in discussione dello status quo.

 


Riferimenti bibliografici:

 U. Bossi – D. Vimercati, Vento dal Nord, Milano, Sperling & Kupfer, Milano 1992.

U. Bossi – D. Vimercati, La rivoluzione, Sperling & Kupfer, Milano 1993.

A. Cirulli, Independentzia eta Socialismoa. Conflitti sociali ed evoluzioni ideologico-strategiche della sinistra abertzale, in F. Zantedeschi – P. Perri – A. Geniola, a cura di, Nazionalismo, socialismo e conflitti sociali nell’Europa del XX secolo, Aracne Editrice, Roma 2018, pp. 103-127.

A. Cirulli – M. Huysseune – C. Pala, Indipendentismi e nazionalismi nell’Europa contemporanea. Persistenze, trasformazioni e le sfide concettuali per la scienza politica, in A. Campi – S. De Luca – F. Tuccari, a cura di, Nazione e nazionalismi. Teorie, interpretazioni, sfide attuali, Roma, Historica Edizioni, vol. 2, 2018, 265-280.

M. Hechter, Internal Colonialism. The Celtic Fringe in British National Development, 1536-1966, Routledge & Kegan Paul, London 1975.

E.J. Hobsbawm, Nations and Nationalism since 1780. Programme, Myth, Reality, Cambridge University Press, Cambridge 1990.

M. Huysseune, Modernità e secessione. Le scienze sociali e il discorso politico della Lega Nord, Carocci, Roma 2004.

C. Pala, Idee di Sardegna. Autonomisti, sovranisti, indipendentisti oggi, Carocci Editore, Roma 2016.

P. Perri, Un filo rosso tra le verdi brughiere. Socialismo e nazionalismo nella questione irlandese, in F. Zantedeschi – P. Perri – A. Geniola, a cura di, Nazionalismo, socialismo e conflitti sociali nell’Europa del XX secolo, Aracne Editrice, Roma 2018, pp. 27-52.

P. Perri, Nazioni in cerca di Stato. Indipendentismi, autonomismi e conflitti sociali in Europa occidentale, Donzelli editore, Roma 2023.

V. Tarditi, Tra Europeismo ed Euroscetticismo. I casi del Scottish National Party, del Bloque Nacionalista Galego e della Lega Nord, Editoriale Scientifica, Napoli 2013.

S. Woodward, Balkan Tragedy. Chaos and Dissolution after the Cold War, The Brookings Institute, Washington DC 1995.


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Michel Huysseune insegna Scienze politiche all’Università Libera di Bruxelles. Ha pubblicato numerosi articoli sulla Lega Nord e sul nazionalismo su riviste scientifiche e in volumi internazionali. È autore di Modernità e secessione. Le scienze sociali e il discorso politico della Lega Nord (Carocci, 2004) e curatore del volume Contemporary Centrifugal Regionalism: Comparing Flanders and Northern Italy (The Royal Flemish Academy of Belgium for Science and the Arts, 2011).

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