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Un fuoco in perenne movimento: microfisica della banlieue



Nell’articolo che pubblichiamo oggi Vincenzo Di Mino discute Rosso Banlieue. Etnografia della nuova composizione di classe nelle periferie francesi (2022) e La Santa Canaglia. Etnografia di militanti politici di banlieue (2023) entrambi editi da ombrecorte.


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Un articolo uscito il dodici settembre su Liberation, popolare quotidiano francese, riportava i risultati di una inchiesta\sondaggio del Ministero dell’Interno francese (a sua volta rilanciato da Le Figaro, altro popolare quotidiano), per cui il 92% dei manifestanti scesi in strada in seguito al brutale omicidio di Nahel non lo aveva fatto per motivi politici e\o di solidarietà, ma animati solamente da uno spirito distruttivo e vandalico. Nonostante la svolta securitaria impressa al dicastero dal macronista Darmanin, è chiara, senza ulteriori specificazioni, la linea comune scelta dai governanti francesi di tutte le estrazioni politiche, ovvero di caratterizzare come vandalismo la protesta sociale che arriva dalla composizione sociale razzializzata e periferica. Le banlieue, infatti, erano e sono dei campi di battaglia reali: campi di battaglia per le politiche governative, tese a neutralizzare le spinte conflittuali e riassorbire nell’alveo politico istituzionale alcuni segmenti della composizione sociale; campi di battaglia per le forze conflittuali e antagoniste che vogliono intervenire in quelle realtà così frammentata. Allo stesso tempo, queste sono campi di battaglia per verificare sul campo tanto il razzismo sociale ed istituzionale quanto le differenti sfumature dell’idea di antirazzismo: si può affermare, senza alcun patema d’animo, come per qualcuna di queste idee incarnate dell’antirazzismo, la banlieue è un effetto di una postura ideologica di stampo orientalista, un elemento mitologico su cui proiettare velleitari progetti animati dalla ragione umanitaria, svuotata della sua contraddittoria materialità e ricondotta ad una sua forma immaginaria e ideale. D’altro canto, bisogna rifuggire all’idea romantica tardo terzomondista della banlieue come spazio oggettivamente rivoluzionario, come esternalità a cui portare in dono una non meglio specificata coscienza di classe, senza aver immerso la propria elaborazione nelle acque torbide e caotiche della soggettività.

L’inchiesta di Atanasio Bugliari Goggia, sostanziata nei due corposi volumi editi da Ombre Corte e titolati rispettivamente Rosso Banlieue. Etnografia della nuova composizione di classe nelle periferie francesi e La Santa Canaglia. Etnografia di militanti politici di banlieue entra a gamba tesa nel dibattito politico e teorico su queste specifiche realtà, e lo fa in maniera coraggiosa, senza peli sulla lingua e senza icone ideologiche rassicuranti alle spalle. L’autore squaderna la realtà socio-politica delle periferie francesi, indagandone le dimensioni strutturali e le infrastrutture micropolitiche del quotidiano, fotografandone la realtà effettuale. Il valore politico del testo, contestuale a quello teorico, è definito dalla scelta metodologica. Mettendo da parte il mito dell’avalutatività di stampo weberiano, Bugliari Goggia produce un’ analisi situata, in senso materiale: la scelta del metodo dell’etnografia, infatti, gli permette di posizionarsi nel cuore della composizione sociale, dentro la vita quotidiana della soggettività analizzata. Di conseguenza, come l’autore esplica con molta chiarezza nelle differenti notazioni metodologiche, il suo posizionamento è frutto di un percorso di militanza nelle realtà politiche della periferia parigina e francese, di una sua progressiva accettazione all’interno del milieu militante. Rivivono in queste note, più volte citate anche nel testo, le pratiche della conricerca militante più che della ricerca partecipata di stampo accademico: Montaldi e Alquati sono i modelli che guidano l’autore a scoprire i differenti nodi della soggettività e a leggere le differenti pratiche di conflitto e le modalità di organizzazione delle stesse. L’autore non sciorina dati e statistiche, ma lascia parlare i banlieusard stessi; non ricerca una presunta autenticità, ma espone in media res interviste, incontri, dibattiti, critiche e progetti prodotti e discussi dagli stessi soggetti. Salta la differenza tra soggetto e oggetto dell’inchiesta, giacchè lo stesso oggetto vive nelle parole del ricercatore, più propenso ad incarnare la figura diretta del militante di base e non quella dell’osservatore distante. Così, questa è una inchiesta forgiata con il martello dell’antagonismo, per parafrasare l’introduzione di Emilio Quadrelli al secondo volume, perché scompagina tanto i saperi docili dell’accademia quanto le inossidabili tradizioni teoriche di certe chiese di sinistra, sempre alla ricerca del soggetto ideale e dell’organizzazione necessaria, ma fuori dal rumore sordo e prolungato della battaglia. Questa postura conduce direttamente al primo pilastro analitico del libro: Bugliari-Goggia parla di «composizione di classe», dunque di soggettività politica, così da inquadrare i problemi delle periferie come dislocazioni spaziali del conflitto capitale-lavoro. L’insistenza su questo punto marca la differenza con le altre letture delle emergenze sociali nelle periferie (che l’autore elenca e analizza, come si vedrà in seguito): la periferia non è uno spazio dell’anima e neanche un oggetto da leggere con le lenti del culturalismo (quantomeno non solo attraverso esso), ma un elemento che produce e riproduce la crisi e le differenze di classe dentro la società. Questo elemento può essere espresso in altri termini: se la metropoli da forma spaziale al piano del capitale, la periferia è l’elemento su cui sperimentare gli elementi di crisi per poi riprodurli sull’intero tessuto sociale. Quando l’autore parla della differenza che rappresenta la periferia non lo fa in termini puramente spaziali e culturali, ma attraverso le voci degli abitanti che la percepiscono come vera e propria materializzazione delle gerarchie di classe che governano attualmente la società. A partire da questo nodo, scorrono agevolmente gli altri due che saranno usati di seguito per proporre alcune linee di lettura del libro: quella dei movimenti che si muovono nelle periferie, nell’osmosi di razza e classe, e quella che prova a evidenziare i conflitti che da essa emergono, ovvero dei processi di soggettivazione di classe e dei tentativi di ricomposizione che provano a darsi prima durante e dopo le émeutes.


Fratture sociali: lavoro, citta’, societa’.

L’analisi dell’autore copre il decennio 2005-2015, e si muove nel vortice della crisi infinita scatenatasi nel 2007 e dei suoi effetti concreti sulla dimensione del lavoro. La progressiva marginalizzazione sociale, economica e politica della forza-lavoro trova nella periferia la sua dimensione spaziale e nella discriminazione diretta e indiretta il suo braccio operativo. In un romanzo-cult della stagione del lungo ’68 globale, in questo caso specifico di quello francese, che è L’établ’ di Robert Linhart, narrando l’esperienza diretta alla catena di montaggio della Citroën di Choisy, metteva in evidenza sia la dimensione multinazionale della forza-lavoro impiegata nella grande fabbrica, che la sottile ma operante divisione razziale tra operai bianchi e operai immigrati, che veniva neutralizzata dalla ricerca dell’unità della soggettività dentro e oltre gli stabilimenti industriali. Se questa era la realtà di fabbrica, diversa è la mitologia fattane dal Partito Comunista Francese e dai suoi apparati ideologici, che vedeva nelle periferie le cosiddette «cinture rosse» in grado di guidare la marcia verso il governo. L’inchiesta invece smonta questa mitologia: se è vero che la presenza nelle periferie di alcuni segmenti della classe operaia bianca garantiva la presenza di servizi, la presenza di crescenti quote di classe composta da black e da beur rendeva più problematica la ricerca dell’unità da parte di partito e sindacato, focalizzati invece sulle esigenze e sulla forza elettorale dei primi. Quindi non è stato il voltagabbana ideologico degli abitanti delle periferie a favorire l’impetuosa crescita trentennale del Front National (ora RN) e la debacle politica della sinistra, ma il peccato originale di quest’ultima, colpevole di vedere la periferia come semplice serbatoio di voti. La pauperizzazione della forza-lavoro ha avuto la sua sorgente ed i suoi esiti più drammatici proprio nelle periferie, andando a colpire le differenti generazioni di immigrati che in essa abitano e vivono. Molti degli intervistati da Buglieri-Goggia, infatti, parlano della separazione spaziale tra centri metropolitani e periferie come scelta precisa con cui marcare la divisione razziale del lavoro e della governance, così da trasformare le periferie in laboratori preferenziali su cui sperimentare le politiche neoliberali: la produzione della marginalità sociale va di pari passo con l’affinamento delle tecniche di estrazione di plusvalore nel capitalismo globale. Le periferie, dunque, non rivestono solo il classico ruolo di «Coree» così come immaginato da Montaldi e Alasia, ovvero di dormitori in cui confinare i subalterni, ma costituiscono luoghi in cui potere disciplinare e tecnologie di controllo si distribuiscono omnes e singulatim, attraverso la degradazione del lavoro e la militarizzazione dello spazio. In senso bourdieusiano, la distinzione tra i differenti segmenti della forza-lavoro passa attraverso la distribuzione del reddito ed il livello di esclusione e repressione subito dai banlieusard, sia dalle prime generazioni che dai petits. In questo senso, la sussunzione totale è stata sperimentata prima in periferia per poi essere esportata nei centri cittadini, generando due risposte differenti alla stessa. Facendo ricorso al concetto alquatiano di iperfordismo, l’autore ha voluto evidenziare la diffusione proteiforme e molecolare dei dispositivi di accumulazione, che in periferia assumono il volto feroce dell’accumulazione originaria, frammentando e approfondendo una composizione sociale già marginalizzata. La frattura sociale, dunque, passa attraverso la riproduzione del legame inscindibile tra razza e lavoro, che viene ulteriormente canalizzata dalle politiche governative attraverso la separazione spaziale. È sempre più evidente, infatti, la separazione tra la città revanchista dei ricchi e quella dei poveri, di cui la gentrificazione non è che uno degli effetti principali. Attraverso queste modalità di separazione spaziale tra la classe media e la composizione sociale operaia, la periferia riproduce degli specifici rapporti sociali, improntati certo all’esclusione e alla riproduzione del dominio (come forma di controllo o come forma di etichettamento sociale predefinito). Allo stesso tempo, questa composizione operaia è in grado di inventare ex novo infrastrutture di sopravvivenza in una situazione di costante disoccupazione. Per questa soggettività vale sia la definizione marxiana di «esercito industriale di riserva», perché esiste nel mercato capitalista come quota di forza-lavoro a buon mercato e ricattabile, sia quella di lumpenproletariat, ovvero come strato sociale scientificamente sfruttato e pauperizzato, trattato alla stregua della manodopera e poi scaricato, come carne da salario. Di conseguenza, l’appendice ideale e la prospettiva degli abitanti delle banlieues è il carcere: l’autore interroga questo modello sociologico, emendandone e criticandone alcune teorizzazioni (come quella importante di Wacquant o quella di Mucchielli e della Scuola di Versailles), accettando invece l’analisi portata avanti da Kokoreff della banlieue come spazio di vita e di relazioni sociali antagoniste. La presenza di una forte gerarchia sociale «esterna», che opera come proiezione della struttura sociale capitalista, incide con forza nelle dinamiche della periferia, ça va sans dire, spingendo molti giovani nelle braccia della criminalità o in quelle delle organizzazioni religiose. Queste ultime, in particolare, canalizzano la disaffezione sociale in altre strutture sociali basate sull’obbedienza in cambio della sicurezza sociale ed economica negata dallo stato. Se esiste un rapporto storico tra Islam e capitalismo, come ha sottolineato Maxime Rodinson, cionondimeno nell’attualità esso può essere ridotto a mera forza di controllo: come ribadiscono con forza i militanti intervistati, il credo religioso non è un limite o un discrimine nella costruzione del soggetto politico, ma è parte integrante, seppur problematico di essa. Dall’altro lato, questo legame che si sviluppa tra le soggettività marginali facilita quel processo di stigmatizzazione banalmente costruito sull’equazione «abitante della periferia-fondamentalista islamico-potenziale terrorista», aprendo la strada alle strette securitarie e alla sociologia a buon mercato dell’opinione pubblica. Ma è anche attraverso il fattore religioso che passano le linee di composizione di quella che l’autore chiama, senza mezzi termini, nuova classe operaia delle banlieue: nuova perché nuovi sono sia i soggetti che le modalità dello sfruttamento, ma uguale nella dizione nominalistica di stampo marxiano, in quanto soggettività che produce plusvalore. Se queste prime linee analitiche dell’inchiesta hanno fino ad ora mostrato come siano le dinamiche legate al mercato del lavoro la causa delle fratture sociali nella banlieue, e come esse mostrino in filigrana l’esistenza di una classe antagonista, il passaggio successivo sarà quello di mostrare come l’autore descriva il passaggio dall’esistenza in sé di questa soggettività all’esistenza per sé, ovvero dall’esistenza informale alla sua presenza nell’agire politico collettivo.


Movimenti tra razza e classe: solidarietà, reti, radicamento

Un vecchio assunto marxiano afferma che la soggettività antagonista costituisce l’elemento di crisi perenne nel capitalismo. Nell’ambito della sua ricerca, Bugliari-Goggia trasla questo dictum sul piano materiale, leggendo i vari cicli di conflitto sotto il segno della classe. Come già accennato nell’introduzione, la scelta della conricerca permette all’autore di immergersi nei diversi mondi della classe operaia, di fare esperienza della miseria del mondo che è lo scenario quotidiano delle periferie e di partecipare alla costruzione del movimento attraverso i momenti di conflitto e le micropolitiche del quotidiano. La prima evidenza è lo stretto legame che intercorre tra classe e razza, ovvero tra i due strati inferiori (per non parlare del genere) della divisione sociale del lavoro, che si distribuisce attraverso le differenti generazioni che attraversano e vivono la composizione di classe; il secondo è il radicamento territoriale della composizione di classe, che nelle periferie trova la propria acqua e costruisce i propri legami. Di conseguenza, è vero che i movimenti di classe hanno memoria lunga e radici solide, ma è altrettanto vero che riescono a mutare forma e pratiche in base alla composizione soggettiva. Elemento centrale delle interviste, infatti, è la trasversalità generazionale degli appartenenti ai movimenti, che sono in grado di tracciare una linea tra le mobilitazioni anticoloniali degli anni Sessanta, le mobilitazioni di classe degli anni Settanta, quelle antirazziste degli anni Ottanta e quelle dell’ultimo ventennio. In questo senso, il modello di riferimento non può che essere quello di Malcom X e delle Black Panthers, come esempio di slittamento della lotta dalla questione identitaria a quella anticapitalista, e come forza radicata nei quartieri, in grado di rispondere ai bisogni immediati e, soprattutto, in grado di organizzare questi bisogni come elementi di un programma di trasformazione radicale. Ulteriormente, pur muovendosi in un milieu sociale disincantato dalla sfera della politica statale e dunque fortemente post o anti-ideologico, i e le militanti attingono a piene mani dalla cassetta degli attrezzi del marxismo nero e anticoloniale, Fanon in primis. Proprio le analisi dell’intellettuale martinicano hanno contribuito al rafforzamento della solidarietà tra le soggettività appartenenti alla stessa composizione sociale, illuminando il razzismo presente nella società francese, e hanno permesso ai movimenti di produrre i propri spazi di autonomia. Facendo riferimento agli importanti studi di Cloward e Fox-Piven sui poor movements, Bugliari-Goggia mette in luce la stretta interdipendenza tra dimensione orizzontale delle dinamiche associative ed organizzative, sostanziate nelle reti informali che mettono in connessione gli abitanti e le soggettività politiche, e dimensione verticale, ossia di lotta per l’implementazione politica delle richieste provenienti dal basso.

La ricerca dell’autonomia politica e sociale dei petits e dei banlieusard ha in odio la sinistra in tutte le sue varie declinazioni, detto senza mezzi termini. La politica della banlieue, attraverso le voci delle soggettività intervistate, è specularmente opposta a quella dei movimenti, dei partiti e delle sette cittadine: tanto è fumosa, ideologica e astratta quest’ultima quanto concreta, immediata e vicina ai bisogni della composizione la prima. E’ storica, infatti, la separazione tra banlieusard e sinistra organizzata, e risale agli eventi che hanno proceduto e seguito la guerra e l’indipendenza dell’Algeria: un capitolo centrale dell’ultimo libro di H.Bouteldja Beauf et barbares è dedicato al fallimento dell’anticolonialismo di francese e al razzismo (diretto ed indiretto) del PCF, alla ricerca di una grandeur per la classe operaia bianca francese a scapito delle quote sempre maggiori di migranti presenti all’interno della stessa classe. Non da ultimo, le manifestazioni antirazziste culminate nella «Marche pour l’égalité» del 1983 ricevute all’Eliseo da Mitterand, con il discrimine verso i pregiudicati, frammentarono ancora di più il movimento antirazzista nelle periferie, consegnando i conflitti al recupero istituzionale nell’ottica della costruzione e della pubblicizzazione dei risultati raggiunti come modello della società multiculturale, e isolando le frange più radicali. In questo senso, la politica dell’autonomia perseguita dai petits è una politica che rifiuta la recuperazione e l’assimilazione forzata, preferendo la costruzione di un contropotere locale in grado di compattare i banlieusard e di allargarne, di volta in volta, gli spazi di agibilità. Le soggettività intervistate, infatti, ritengono la banlieue come spazio proprio della loro azione politica, e rifiutano qualunque tipo di politica di apparentamento istituzionale con i militanti e le situazioni politiche parigine. L’esperienza della politica in periferia è una esperienza di movimento per il movimento, di militanza di parte che si traduce nella costruzione di servizi e nella soggettivazione degli abitanti, con un approccio decisamente anti-umanitaristico e volto alla presa di coscienza dei problemi reali. L’intermittenza degli eventi (cortei e momenti conflittuali) non deve fare pensare alla presenza contingente dei militanti, che è un elemento che caratterizzano i movimenti cittadini, legati in special modo alle dinamiche generate dalla «politica dell’evento» che appiattiscono sia gli sforzi soggettivi che la reale comprensione dei rapporti di forza. Al contrario, deve ricondurre al lavoro di tessitura di reti sociali in grado di garantire quella thompsoniana opacità, di visibilità parziale dall’esterno delle dinamiche sociali presenti all’interno della banlieue, propedeutica alla costruzione di quei nodi di solidarietà che caratterizzano tanto le dinamiche informali quanto quelle organizzative. Pur esistendo delle realtà organizzate presenti all’interno dei movimenti, come il Parti des indigènes o il Mouvement de l’immigration et des banlieues, il movimento riesce a mantenere la propria indipendenza nella costruzione della linea politica, attraverso la continua interazioni con le specificità soggettive dei luoghi in cui opera la soggettività militante. La solidarietà che si viene a costruire in questi luoghi spezza le catene della società multiculturale imposta attraverso l’assimilazione e la violenza disciplinare delle istituzioni, che infatti vengono viste come elementi esterni al tessuto sociale, fomentando l’odio per le attuali forme della democrazia in quanto messa in forma del governo del capitale sui poveri. L’alternativa alle sirene della mixitè diviene proprio la ricomposizione tra i diversi frammenti della composizione, che attraverso l’attività quotidiana che viene svolta nei quartieri rivendica la propria specificità politica e sociale. Il dispositivo della razza, che è usato da Bugliari-Goggia per spazzolare a contropelo le ambiguità della teoria postcoloniale, in banlieue diventa il vessillo di una conflittualità endemica che rompe le compatibilità sociali e vuole affermare, con forza, la propria voce e rivendicare la propria politica. Di conseguenza, il vivere sulla propria pelle gli effetti della divisione razziale del lavoro e del politico rende naturale, per i petits, l’allargare lo sguardo ai conflitti internazionali che essi vivono come propri, anche a miglia di distanza: l’Intifada palestinese, le lotte della Blackness negli Stati Uniti, il sostegno militante (come affermato in più interviste) alle Primavere Arabe, vuoi per una comune genealogia coloniale, vuoi per allargare concretamente il respiro delle lotte stesse. Con il paragrafo successivo si proverà a dimostrare, attraverso le parole dell’autore e delle soggettività politiche, l’esistenza di un rapporto diretto ma non deterministico tra le mobilitazioni quotidiane e gli eventi conflittuali, e di come questi ultimi fungono da collante per la ricomposizione tra le soggettività che appartengono alla classe.


Conflitti, affinita’ e ricomposizione

Se la forza di un movimento si misura sul grado di inimicizia che esso riesce a suscitare nello schieramento avversario, quello che parte dalle banlieue ogni volta scatena delle reazioni di concreto allarme per la tenuta e per la stabilità dell’ordine repubblicano. Esso, in primo luogo, fa emergere la dimensione di guerra civile latente che pervade la storia politica della Francia del ‘900, in cui ogni émeute diventa una nuova Diên Biên Phu, e ogni insorgenza politica che nasce sulla linea del colore viene rubricata al rango di politica criminale da reprimere con ogni mezzo necessario. È evidente la sproporzione tra i mezzi utilizzati: come sottolineano molti intervistati, la polizia in banlieue agisce attraverso soprusi, istituzionalizzando il clima di violenza, materializzando il razzismo nell’uso emergenziale della forza, trasformando il suono delle pallottole in una macabra litania a cadenza regolare: dal generale Salan ai battaglioni ipertecnologici dei CRS (espressioni fedeli dell’eredità coloniale irrisolta dello Stato), non sono cambiati né i metodi né le ragioni sociali della violenza razziale e razzista dello Stato francese. D’altra parte, e mai come in questi casi, il culturalismo, stadio supremo della sinistra bianca, interpreta queste ultime come violenze isolate e stigmatizza le rivolte come espressioni della sterilità dei petit. Queste forme di tumulti, seppure nella loro sporadicità, invece sono l’immagine-movimento della lotta di classe e delle modalità con cui essa viene praticata dalle nuove soggettività operaie e proletarie. Le émeutes esprimono il grado di contropotere che consapevolmente la composizione soggettiva sceglie di rivendicare, attraverso una grammatica, quella dello scontro, più congeniale alle nuove generazioni rispetto a quelle proposte dai partitini e dalle sette che provano ad inquadrarli a qualche ortodossia marxista. Ma non bisogna sottovalutare il rischio speculare che proviene dall’esaltazione dei movimenti cittadini delle rivolte, volta a creare una estetica surrettizia dei conflitti che li riduce a espressioni esistenziali in grado di materializzare sul piano immanente delle idee astratte di rivolta. Le voci raccolte dall’autore, invece, sottolineano la continuità storica di queste manifestazioni di indisponibilità sociale, radicate come si è accennato nel precedente paragrafo tanto nella coscienza anticoloniale quanto nei fermenti giovanili. A differenza delle mobilitazioni conflittuali metropolitane, che coinvolgono i settori più radicali dei movimenti, e che hanno la fortuna di trovare alcune sponde nel mondo politico e in quello mediatico-comunicativo, le rivolte delle banlieues possono contare sulle loro forze e su quelle dei solidali, seppur con le dovute differenze, e trovano negli stessi quartieri forme di solidarietà diffusa e di complicità concreta. Le soggettività intervistate tendono a sottolineare questa capacità del quartiere di stringersi a riccio per difendere i petits e le organizzazioni che praticano queste forme di conflitto, così da rafforzare i legami di appartenenza e solidarietà. Interessante è l’analisi che Bugliari-Goggia porta avanti sulle dimensioni organizzative di questa conflittualità. Egli, infatti, sottolinea l’imprevedibilità delle émeutes stesse, il loro essere esplosioni autonome che prendono corpo in seguito a specifici eventi che turbano gli equilibri del quartiere, e allo stesso tempo fa emergere il lavoro di organizzazione di questi stessi eventi. Lavoro di organizzazione, in questo specifico contesto, è quel prezioso lavoro che i e le militanti portano avanti nel tentativo di generare processi di soggettivazione antagonisti, ovvero di costituire coscienza di classe dentro la composizione sociale. Non solo: è un lavoro che precede e soprattutto segue l’evento della rivolta in sé, che dunque non implode in sé stessa o viene condannata all’implosione dall’impossibilità di andare oltre le proprie premesse, ma che continua giorno dopo giorno a tessere legami e a generare nuovi obbiettivi politici. L’evidente differenza tra le organizzazioni storiche di movimento delle metropoli è quella delle periferie, per l’autore e le strutture militanti, sta proprio nella flessibilità organizzativa: tanto le prime vogliono imporre la propria grammatica politico-organizzativa, neutralizzando le differenti sfumature soggettive della composizione, quanto le seconde si pongono al loro interno e al fianco di esse, mettendo in comune le loro conoscenze e i loro mezzi per dare forma ai bisogni che dalla stessa soggettività emergono. E ciò è determinato non solo dalla fiducia che i militanti politici hanno acquisito nel corso del tempo grazie alla loro presenza attiva dentro la banlieue, ma anche dalla comune percezione della natura razziale e razzista dei rapporti di forza. Bugliari-Goggia sottolinea, sulla scorta dell’importante studio di Richard Day, come sia l’affinità la chiave di lettura della struttura e delle pratiche di movimento: disancorandosi dalle pretese egemoniche dei movimenti cittadini, i movimenti delle periferie si strutturano a partire dalla fiducia e dall’affinità ideologica e pratica tra i membri, che trova nel riot la forma con cui essi danno visibilità al contropotere latente radicato nello spazio della banlieue. Di conseguenza il riot\émeute è pratica di organizzazione e elemento che costituisce una coscienza di classe diretta, senza la mediazione dell’apparato teorico. L’apparente distanza della composizione sociale della banlieue dal mondo politico e soprattutto da quello ideologico viene smentita non solo dalla partecipazione attiva dei petits alle mobilitazioni territoriali che li riguardano, ma dalle loro forme di socializzazione e dai loro pratiche quotidiane che parlano di internazionalismo, di solidarietà, di antifascismo militante, di lotte per salario e reddito, ovvero di lotte contro la governance liberale necrocapitalista e razzista, per cui le condizioni di vita nel quartiere diventano le condizioni di vita globali degli sfruttati.

Lo sviluppo di una coscienza pratica antirazzista è sinonimo dello sviluppo di una coscienza anticapitalista, di un processo di soggettivazione che individua i propri nemici e li sanziona sia durante i tumulti, in cui i sabotaggi sono praticati in maniera «consapevole» contro imprese razziste, banche e razzisti del quartiere, che nelle pratiche quotidiana di aggregazione di mobilitazione a «bassa intensità». Queste forme di soggettivazione antirazziste e anticoloniali prefigurano quella che nel precedente paragrafo è stata definita come la ricerca primaria di autonomia culturale e politica dei banlieusard e delle loro organizzazioni. In questo senso, l’uso della forza da parte dei petit rafforza l’immaginazione decoloniale delle soggettività e, per dirla con Fanon, prefigura la liberazione delle soggettività stesse dai fardelli del razzismo e dello sfruttamento politico ed economico: da forza puramente negativa, che esprime attraverso la forza il proprio livello di coscienza, essa progressivamente diventa forza consapevole in grado di esercitare un potere tanto più legittimo perché diffuso e condiviso dai e tra le soggettività. Tanto sono barbare agli occhi dell’opinione pubblica questa politica del conflitto ad alta e bassa intensità costante, quanto i barbari stessi trovano in esse il mezzo per rafforzare la propria autonomia e manifestare agli apparati statali la loro presenza critica e negatrice dell’ordine costituito. La banlieue, a questa altezza, da spazio concentrazionario dei margini sociali, diventa la punta di diamante delle lotte di classe globali.


Per finirla con l’ideologia: il corpo vivo della classe

Il preziosissimo lavoro di Bugliari-Goggia, in conclusione, è fondamentale per la teoria politica militante per due ordini di motivi. Il primo è quello di cui si è sommariamente discusso fino ad ora (non ce ne voglia l’autore, ma racchiudere e riassumere la ricchezza di una tale mole di analisi e di interviste ne avrebbe limitato la potenza!), ovvero la costruzione di un punto di vista parziale e politicamente situato della situazione delle banlieues francesi, e più in generale delle periferie e dei luoghi della classe operaia, sia quella «vecchia» che quella «nuova». Lo stare dentro le pieghe degli eventi, infatti, gli ha permesso di fotografare in tempo reale le dinamiche della composizione di classe e le difficoltà operative nel trasformare una soggettività storicamente conflittuale in una forza politica organizzata antagonista. Cionondimeno, dando voce diretta ai militanti politici, egli ha allo stesso tempo restituito il senso di un agire politico dentro la crisi, senza fughe in avanti, che non segue i cicli e le modalità del mercato dell’indignazione a buon mercato, ma che vuole radicare la propria dimensione operativa dentro le contraddizioni tra i bisogni delle soggettività e la loro soddisfazione immediata. Le voci militanti, infatti, demoliscono qualunque utopia di ‘interesse universale’ per dare feroce concretezza alla realizzazione di interessi di parte, espressione diretta della composizione di classe. Il secondo punto è di ordine analitico-teorico, e permette di mettere in discussione le certezze acquisite dell’universo politico antagonista: sospendendo la propria immaginazione teorica davanti alla realtà effettuale della composizione di classe, l’autore indica la strada da (ri)percorrere, ovvero quella di camminare insieme alla classe per poter marciare un giorno sulle teste dei re, costruendo spazi reali di autonomia e di decisione collettiva. Tra le opzioni siamesi del ritiro nella torre di avorio della teoria e del ritorno fiducioso al popolo visto come collettore della potenza politica, vi è l’ammonimento leniniano della interdipendenza circolare e produttiva tra teoria e pratica: niente pratica rivoluzionaria senza teoria rivoluzionaria. Ma, allo stesso tempo, niente concretezza teorica fuori dalla composizione di classe esistente.

Questo ci porta al nodo interrogativo che apre ulteriormente questa ricerca, ovvero quello della ricomposizione: in termini pratici, il legame tra le conflittualità dei movimenti metropolitani e quelli dei movimenti delle banlieues. È possibile unire lotte sul reddito, lotte femministe e lotte per la sopravvivenza nelle periferie? Su questo nodo gordiano passa la definizione attuale di una politica di classe all’altezza della catastrofe. Una cooperazione tra queste due frazioni della più generale composizione sociale è possibile ricercando obbiettivi comuni e mobilitazioni in grado di avvicinarle quanto più possibile, geograficamente e politicamente. È possibile portare la banlieue nel cuore della metropoli e, viceversa, la composizione metropolitana nel cuore della banlieue. Chi scrive non può che non avere una risposta ad un quesito di importanza capitale quale è la ricomposizione di classe. Ma, allo stesso tempo è convinto che l’orizzonte dell’autonomia deve necessariamente unire le pratiche di decolonizzazione dell’esistente con quelle di rifiuto del lavoro e di riappropriazione economica e politica di tempi e spazi. Stare nel reale, in questo senso, significa immergere le mani nel turbinio della composizione soggettiva senza avere la paura di bruciarsele, e immaginare la costituzione un processo di contropotere in grado di ridurre gli spazi di agibilità del nemico, in tutte le forme con cui esso si presenta. «The Fire next time» scriveva James Baldwin agli albori delle sommosse anticoloniali e antirazziste: tocca ai movimenti e ai militanti costruire le condizioni di una nuova fase della conflittualità sociale, e attendere, con fiducia operativa, i risultati di questo lavoro più che mai necessario.



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Vincenzo Di Mino (1987), laureato in Scienze della Politica, è ricercatore indipendente in teoria politica e sociale.


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