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Un disegno per domarli: i fumetti cambiano la percezione sulla malattia mentale?


fumetti malattia mentale
Immagine: Herbert Bayer, Self Portrait, 1937

In un'epoca in cui l'arte visiva e la narrativa intrecciano assiduamente le loro trame, il fumetto emerge come un potente mediatore tra la malattia mentale e la sua percezione sociale. Attraverso le pagine di «Un disegno per domarli», si esplora come questa forma d'arte, spesso trascurata e sminuita intellettualmente, possa sfidare le convenzioni sociali e le rappresentazioni stigmatizzate della follia. Affondando le radici in un determinato contesto storico e culturale, il testo di Sander Gilman, Immagini della malattia, funge da punto di partenza per un itinerario interdisciplinare che connette arte, salute e storia della medicina. La presente narrazione si immerge dunque nelle complessità delle rappresentazioni visive della malattia mentale, esaminando come queste influenzino e modellino le politiche sanitarie e le risposte sociali alle patologie nel corso del tempo. L'articolo coglie l'opportunità del centenario della nascita di Franco Basaglia per riflettere su come il fumetto possa continuare il suo lavoro di deistituzionalizzazione e umanizzazione della psichiatria, offrendo nuove prospettive e stimolando un dibattito critico sulla salute mentale.

 

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Qualche tempo fa, curiosando in una libreria di Torino, mi sono imbattuta in un libro ingiallito e dalla copertina stropicciata tipica delle vecchie edizioni de Il Mulino. Si trattava del testo Immagini della malattia. Dalla follia all'Aids di Sander Gilman, pubblicato in italiano nel 1993. A colpirmi è stato il titolo della Collana: «Le occasioni». Scrutando le prime pagine – ci è voluto pochissimo per convincermi a comprarlo – si capisce immediatamente l’approccio interdisciplinare con cui è stato pensato. Il collegamento, ponderato e mai forzato, tra la storia dell'arte, la storia della medicina e la sociologia apre fin da subito uno spazio di riflessione su come la malattia sia stata visualizzata e interpretata in diversi contesti storici e culturali. In sostanza, le parole e le immagini utilizzate ci offrono quella famosa «occasione» (collegamento puramente immaginato da chi scrive) per capire quanto le rappresentazioni visuali possano riflettere e contribuire a modellare le politiche sanitarie e le risposte sociali alle malattie, evidenziando il potere delle immagini di informare, persuadere o addirittura discriminare.

Gilman racconta come la percezione dell’identità personale, in quanto entità fissa e immutabile, sia profondamente radicata nella cultura occidentale, una visione che si estende anche al nostro approccio verso la malattia mentale, spesso vista come una minaccia di dissoluzione dell’io. Pensiamo a noi stessi e alle nostre personalità come se fossero fisse e salde, coltivando, in questa prospettiva, la paura del crollo e della perdita di sé. È in queste strutture artificiali che troviamo conforto nell’affrontare la nostra paura e nel rimarcare ciò che Mary Douglas ha definito come il desiderio di rigidità presente in tutti noi.

Come ci ricorda Gilman, l’atto di visualizzare la malattia è stato nel tempo socialmente codificato in due modelli di funzionamento diversi: in primo luogo, il livello della costruzione sociale delle categorie di malattia e, in secondo luogo, il livello dell’interiorizzazione delle immagini all’interno di gruppi etichettati come «a rischio». In entrambi i modelli l’arte ha sempre avuto un ruolo centrale. Da un lato modellando le percezioni pubbliche rispetto alla malattia – pensiamo alle rappresentazioni della lebbra o della peste, fortemente cariche di simbolismi religiosi e moralistici, o alle più recenti iconografie dell’AIDS. Dall’altro lato, l’arte non solo documenta visivamente le esperienze della malattia ma costituisce anche un mezzo tramite cui i soggetti e i gruppi a rischio possono affrontare e metabolizzare la propria situazione riproducendola, spesso, attraverso i canoni artistici imposti dalla «società dei sani».

Da qui l’assunto che le espressioni convenzionali dell’arte funzionano come meccanismi per mitigare le nostre paure, fungendo da simboli del nostro dominio sul mondo. Attraverso l’arte, cerchiamo infatti di antropomorfizzare la malattia, personificando la sofferenza nel tentativo di renderla meno minacciosa. Le modalità artistiche tradizionali (dalla pittura alla scultura) ci permettono di immergerci in una sorta di carnevale immaginativo, dove esploriamo la liberazione temporanea dal controllo.

  Emerge dunque una tensione fondamentale tra l’arte, che raffigura disturbi, malattie e follia, e le nostre ansie intrinseche legate alla necessità di autocontrollo. Detta in altri termini, ciò che normalmente ci spaventa viene reso inoffensivo trasformandolo in farsesco.

Questa tensione intrinseca tra rappresentazione artistica e ansia per il controllo emerge chiaramente nell’evoluzione storica delle immagini della follia. Non è con originalità che, a questo proposito, cito uno dei dipinti simbolo realizzato dal pittore Bosch attorno al 1490-1500: La nave dei folli. Quest’opera può essere vista come un’incisiva allegoria della follia umana e offre numerosi spunti per esplorare la connessione tra arte e malattia mentale. Il quadro rappresenta una nave, un classico simbolo del destino umano, piena di personaggi che sembrano agire in modi irrazionali e auto-distruttivi. Questi personaggi possono essere interpretati come metafore della follia umana, ognuno assorbito dalle proprie manie e vizi. In un’epoca in cui la malattia mentale era spesso vista attraverso il prisma della moralità piuttosto che della medicina, Bosch utilizza l’immagine della nave per rappresentare una sorta di viaggio senza meta, un peregrinare senza scopo che riflette lo stato mentale disturbato dei suoi occupanti. Che è un po’ la stessa allegoria utilizzata da Conrad nel suo racconto del 1897 Il Negro del Narciso, in cui il microcosmo della nave raffigura l’isolamento della malattia (che colpisce uno dei passeggeri) dalla società dei «sani».

Muovendosi nel tempo, e precisamente nel XVIII secolo, la serie La carriera di un libertino di William Hogarth[1], considerato il precursore del fumetto moderno, mostra «i matti» rinchiusi nei manicomi evidenziando la similarità tra la loro condizione e altre forme di reclusione, riflettendo la società che cercava di confinare le forze minacciose per mantenere l’ordine sociale. Nell’ottava e ultima scena della serie, intitolata The Madhouse (Il manicomio), Tom Rakewell, il giovane protagonista che eredita una grande fortuna dal suo ricco padre e poi la spreca attraverso una serie di scelte sbagliate, è raffigurato durante il suo internamento nel famoso ospedale per malati di mente di Bedlam (Bethlem Royal Hospital). Questa scena è particolarmente significativa per il modo in cui Hogarth ritrae i pazienti mentali e il loro trattamento, offrendo un commento critico sulla società del tempo. I pazienti sono mostrati in vari stati di turbamento e delirio, e rappresentano ciascuno differenti tipi di follia. Hogarth critica la mancanza di umanità e l’inefficacia delle istituzioni psichiatriche del tempo, che più che curare sembrano esporre i malati quali attrazioni per il pubblico pagante. L’uso di figure contorte ed espressive intensifica l’impatto emotivo della scena, rappresentando il manicomio come uno specchio deformante della società.

  Nelle raffigurazioni artistiche della malattia mentale, un ulteriore passo cruciale è compiuto quando Philippe Pinel pubblica il Traité médico-philosophique sur l’aliénation mentale ou la manie (1801), segnando una demarcazione importante: per la prima volta, viene introdotta una tavola che illustra l’aspetto della patologia in due pazienti, un idiota e un maniaco.

Questa visualizzazione marca un netto cambiamento nella filosofia della descrizione scientifica della malattia mentale: le illustrazioni dello studio di Pinel sulla pazzia permettono al lettore di osservare i casi descritti. Il confronto tra l’osservatore scientifico e il fatto osservabile viene reso più vivo dall’immediatezza del mezzo dell’illustrazione. Tuttavia, nonostante la pretesa di obiettività del metodo di Pinel, si manifestano ancora intrinseche tendenziosità rese manifeste dall’esaltazione della struttura anatomica della testa del paziente[2].

Dal 1800 Charles Bell uno dei pionieri nella descrizione della fisiologia dell’espressione delle emozioni inizia ad occuparsi delle espressioni delle emozioni nell’arte con la pubblicazione Essay on the Anatomy of the Expression. Il «matto» è qui raffigurato come immagine passiva della follia (maschile) con un aspetto umano, svuotato di espressione e ridotto a uno stato di brutalità. E dunque ancora la costruzione dell’immagine del paziente non è altro che l’esito di questo desiderio di demarcazione tra «noi» e il caso rappresentato culturalmente dalla malattia.

L’immagine visiva, dunque, costituisce un canale potente per la comprensione delle condizioni mentali, ma allo stesso tempo perpetua stereotipi che la società «sana» utilizza per identificare, localizzare ed emarginare il «matto». Questa concezione ha preso avvio attorno al 1850, quando l’illustrazione psichiatrica comincia ad avvalersi dell’introduzione di un’importante innovazione: l’arte fotografica nella rappresentazione del malato di mente. Tra il 1877 e il 1880 Desiré Magloire Bourneville e Paul Regnard, entrambi nello staff del manicomio della Salpetriere, pubblicano Iconographicque de la Selpetriere, una raccolta di studi illustrati che si affida alla riproduzione diretta delle fotografie mediche sulla follia. E quindi spaccati e specchi reali della follia.

Possiamo però controbattere che se l’immagine visiva costituisce un potente canale nel far comprendere certe condizioni, è vero anche che lo stereotipo visuale possiede una forza immediata. La società che si autodefinisce sana, infatti, deve essere in grado di localizzare ed emarginare il matto, anche solo visivamente, per poter creare una separazione tra sano e patologico. In un certo senso, quello che Canguilhem ben descrive nel suo influente lavoro Il normale e il patologico (pubblicato nel 1943 e ampliato nel 1966), in cui vengono esplorate le complessità della salute e di ciò che è patologico. Secondo Canguilhem, la normalità non è semplicemente una condizione biostatica o un insieme di parametri fissi, ma piuttosto una capacità di adattamento. In altre parole, ciò che è normale dipende dalla capacità di un organismo di adattarsi al suo ambiente e alle sue condizioni. Allo stesso modo, il patologico non è un mero scostamento da una norma statistica, ma una nuova forma di norma che si è adattata in modo meno efficace. Ed è a partire da questo passaggio che inizierò a raccontare del rapporto tra la malattia mentale e la forma più comica (almeno in una sua accezione superficiale, sia chiaro) dell’arte: il fumetto.

  La questione se il fumetto possa servire da strumento capace di superare il binomio normale/patologico resta un punto aperto in questo breve articolo. Se la nostra tendenza è quella di costruire barriere tra noi e quelle categorie di persone che ai nostri occhi sono già crollate, può il fumetto abbattere queste barriere?

L’arte tradizionale ha affrontato e riprodotto la follia seguendo parametri e canoni che spesso hanno posto l’osservatore in una posizione di distacco rispetto al soggetto rappresentato; diverso è il caso del fumetto. Definito come Nona Arte da Claude Beylie, che ha ampliato la tassonomia di Ricciotto Canudo, il fumetto è stato spesso considerato una forma espressiva e un campo intellettuale minore in termini di capacità di impatto culturale, soprattutto tra gli adulti. Ancora poco ovvie le ragioni dietro a questa condizione. Sarà per l’assenza di un personaggio cruciale –  il fumetto non ha avuto il suo il suo Albert Einstein o la sua Marie Curie –  sarà perché per molto tempo alcune questioni storiche e teoriche sono rimaste inesplorate. Tuttavia, solamente di recente il fumetto è stato considerato una forma d’arte visiva e narrativa moderna in grado di perpetuare la sua affinità con l’arte attraverso uno scambio reciproco di dispositivi retorici. In sostanza il fumetto ha ereditato e trasformato il retaggio dell’arte tradizionale con lo scopo di esplorare visivamente diversi temi (tra cui la salute mentale) in modo innovativo e particolarmente efficace per comunicare sfumature complesse e dialoghi interni, che non sono mai statici ma cambiano a seconda del coinvolgimento del lettore. Le immagini del fumetto permettono di dare all’informazione veicolata qualità uniche: brevità, immediatezza, chiarezza ed espressività; caratteristiche fondamentali per uscire dalla camicia di forza spesso imposta dalla prosa accademica e trasformare un’informazione settoriale ed ermetica in qualcosa di universalmente comprensibile.

I fumetti, come forma d’arte visiva e narrativa, offrono modalità uniche per esplorare e rappresentare la complessità dell’esperienza umana, inclusi i temi della salute mentale e fisica. La struttura narrativa dei fumetti permette una grande fluidità, che può essere utilizzata per sfidare le idee convenzionali di normalità e patologia. Ad esempio, le storie possono mostrare come le persone con disturbi mentali trovino modi creativi e adattivi per vivere le loro vite, suggerendo che ciò che è «normale» è spesso una questione di contesto e percezione. Attraverso l’uso dell’umorismo e la giustapposizione di diversi registri linguistici e dimensioni del linguaggio, i fumetti possono documentare come il contesto sociale renda anormale la menomazione, sfidando la rappresentazione neutra e oggettiva del paziente, tipica del modello medico, e dando spazio all’esperienza soggettiva della malattia e della sofferenza. I fumetti offrono inoltre ingranaggi narrativi in grado di rappresentare anche luoghi di potenziale liberazione o alienazione, riflettendo le tensioni tra identità personale e collettiva, tra sano e malato. Le tavole presentano anche un potenziale unico per rappresentare corpi diversi e difformi in modi più liberi e aperti, espandendo e sfidando le normative tradizionali.

All’interno dell’ambito della salute il fumetto aiuta così a disvelare l’invisibile, che comprende condizioni di malattia senza manifestazioni fisiche evidenti, come i disturbi mentali o le malattie psichiatriche. Questi stati, spesso nascosti per paura del giudizio sociale, provocano nel lettore una gamma di reazioni emotive che includono tristezza, solitudine, pena, ma anche rabbia e paura. La mancanza di segni visibili rende queste malattie particolarmente difficili da rappresentare e comprendere, sfidando l’artista a trovare modi per visualizzare ciò che non è osservabile.

  Un ulteriore aggiunta del fumetto è la possibilità di lasciare che la rappresentazione venga generata direttamente dal paziente che è molto spesso anche l’artista. Cosa accade quando allora è l’artista a poter decidere cosa rappresentare della sua condizione alla società dei sani? Le costruzioni sociali della malattia attraverso le immagini del malato, che provengono dalle credenze popolari, forniscono al malato la matrice esterna per la rappresentazione della sua follia. E allora nei fumetti troviamo battaglie a colpi di matite contro la medicalizzazione dei disturbi mentali, simboli propri ed esplicativi delle condizioni di malattia che, tuttavia, devono piegarsi ad esigenze editoriali, diventando quindi comprensibili alla società dei sani.

  Prendo ad esempio il memoir grafico Marbles: Mania, Depression, Michelangelo, and Me, in cui Ellen Forney illustra la sua battaglia contro il disturbo bipolare. Attraverso le sue pagine, è possibile vivere le montagne russe emotive dell’autrice, dai picchi di euforia agli abissi della disperazione, in modi che il testo da solo non potrebbe mai cogliere completamente. Le immagini presentate nelle tavole (vedi figura 1) costituiscono metonimie del disturbo dell’umore rappresentato, di cui forniscono una traccia emotiva, che invita il lettore a immedesimarsi con l’autrice: le spirali che fuoriescono dalla testa della protagonista segnalano il pensiero confuso, così come le frecce che emergono dalla sua bocca indicano la pressione della voce incalzante, tipici del disturbo bipolare. Potremmo dire, scomodando Wittgenstein, che il mezzo grafico aiuta a esprimere ciò che è indicibile con il linguaggio verbale e può essere reso solo attraverso il linguaggio non verbale e metaforico delle immagini.

 


Marbles: Mania, Depression, Michelangelo, and Me di Ellen Forney
Immagine tratta da Marbles: Mania, Depression, Michelangelo, and Me di Ellen Forney

 Le immagini, in questo contesto, funzionano non solo in quanto arricchiscono la narrazione, ma anche perché evocano empatia e comprensione, diminuendo le distanze tra chi soffre di disturbi mentali e chi non ne ha esperienza diretta. Questo approccio visivo dimostra il potenziale del fumetto nell’agire come un ponte comunicativo, rendendo tangibili e comprensibili stati emotivi altrimenti difficili da trasmettere. Marbles fornisce anche una rappresentazione accurata delle visite periodiche con lo psichiatra, durante le quali si valutano le varie terapie psicofarmacologiche. Forney presenta queste interazioni con precisione scientifica, inclusi i benefici e gli effetti collaterali dei trattamenti. Un esempio particolare è la descrizione dettagliata della rara, ma grave, necrosi cutanea, o sindrome di Steven-Johnson, indotta dallo stabilizzatore dell’umore lamotrigina.

Tra un «La mania mi fa paura, ma è comunque una figata» e l’idea singolare, subito abbandonata, che «la parte maniacale si prenda cura della parte depressiva» (vedi figura 2), la narrazione dell’opera articola con precisione la complessa ricerca di equilibrio dell’autrice, un processo nel quale si intrecciano fattori biologici e modifiche comportamentali. Dal lungo ed estenuante tentativo di bilanciare i farmaci alla ricerca di un miglioramento del proprio stile di vita (evitando di consumare droghe o praticando yoga), il fumetto diventa lo specchio di quel desiderio di stabilità che passa attraverso un processo di auto-osservazione e presa di coscienza delle proprie reazioni psichiche di fronte a certi stimoli.

 

Marbles: Mania, Depression, Michelangelo, and Me di Ellen Forney
Immagine tratta da Marbles: Mania, Depression, Michelangelo, and Me di Ellen Forney

I fumetti possono portarci altresì dentro gli spazi fisici della cura, quelli che Foucault definiva[3] come i contro-spazi della società: le eterotopie. I luoghi dell'internamento psichiatrico sono degli spazi di deviazione, realtà in cui collocare tutti coloro che hanno un comportamento deviante rispetto alla media, alla norma richiesta (ritorna ancora una volta Canguilhem), come le cliniche psichiatriche e le prigioni. Luoghi in cui si cerca di applicare una disciplina di recupero laddove le istituzioni esterne hanno fallito. Questo discorso Foucault lo riprenderà anche nel 1975 all’interno del suo corso di Storia dei sistemi di pensiero, trattando il tema degli «anormali» e analizzando la colonizzazione dei discorsi giuridico e psichiatrico da parte del «potere di normalizzazione» che «ha esteso la sua sovranità nella nostra società». Curiosamente, nello stesso anno esce in Italia progetto collettivo di Agosti, Bellocchio, Petraglia e Rulli, Nessuno o tutti – da cui verrà ricavata la versione ridotta Matti da slegare – in cui i pazienti dei manicomi si raccontano e avanzano proposte che la stessa Legge Basaglia (1978) dichiarerà da superare.

  Un fumetto che ci accompagna dentro lo spazio eterotopico è Psychiatric Tales, un’opera scritta e illustrata da Darryl Cunningham, ex infermiere psichiatrico alle prese con i suoi stessi problemi di salute mentale. Il libro illustrato, che in un articolo scritto con la collega Scavarda nel 2021 avevamo già descritto, si compone di undici racconti che esplorano le vite di individui affetti da diverse condizioni psichiatriche, tra cui schizofrenia, depressione e disturbo antisociale della personalità. Attraverso queste storie, Cunningham mette in luce la realtà di incomprensione e discriminazione che i protagonisti vivono quotidianamente, con reazioni esterne che spesso oscillano tra sottovalutazione, negazione e rifiuto.

Nel delineare lo stigma legato alla malattia mentale, l’autore lo descrive come un giano bifronte: da un lato, questo stigma tende a negare la realtà patologica della condizione, visibile principalmente attraverso il dolore che essa provoca nel soggetto; dall’altro, lo dipinge come una condizione permanentemente invalidante e irreversibile. D’altra parte, l’opera mira a descrivere la sofferenza psichica come una condizione disabilitante e definitiva, che ostacola una vita appagante. La collezione di narrazioni psichiatriche si propone quindi di valorizzare la sofferenza e di rendere tangibili le patologie e le loro gravi conseguenze, tra cui il suicidio, per coloro che ne sono affetti. Come evidenziato nell’immagine 3, le rappresentazioni metaforiche iniziali visualizzano lo stato emotivo degli individui affetti da disturbi mentali, mentre le vignette conclusive mettono in luce le difficoltà di riconoscere e accettare questa sofferenza, spesso scambiata per pigrizia o mancanza di volontà.


Psychiatric Tales di Darryl Cunningham
Immagine tratta da Psychiatric Tales di Darryl Cunningham

L’autore utilizza spiegazioni biologiche, caratteristiche della psichiatria moderna, per conferire legittimità e credibilità alla malattia mentale, interpretandola come una disfunzione dei meccanismi biochimici cerebrali, similmente ad altre condizioni neurologiche. L’associazione del male mentale ad altre patologie cerebrali, efficacemente rappresentata dalla figura del cervello, locus dove sono contenute tutte le forme di sofferenza considerate, ha una funzione de-stigmatizzante: in modo non dissimile dal tumore al cervello o dall’ictus, il male mentale è una malattia e come tale può essere curata.

 

Psychiatric Tales di Darryl Cunningham
Immagine tratta da Psychiatric Tales di Darryl Cunningham

La rappresentazione e la percezione del malato di mente non si sono esaurite e continueranno di pari passo con l’esigenza della società di fare i conti con coloro che ha designato come malati di mente.

Il fumetto edito da BeccoGiallo Basaglia. Il dottore dei matti, disegnato e sceneggiato a quattro mani da Andrea Laprovitera e Armando «Miron» Polacco, rende omaggio allo psichiatra e neurologo veneziano, fondatore del movimento Psichiatria Democratica e direttore degli ospedali psichiatrici di Gorizia e Trieste dal 1961 – anno in cui, peraltro, escono la Storia della follia di Foucault, Asylums di Goffman e I dannati della terra di Fanon – e ci riporta uno scenario non dissimile a quanto già analizzato.

Il manicomio storicamente fungeva da luogo di segregazione per individui considerati disadattati: incapaci, indigenti e persone marginalizzate dalla società, prive di difese, sostegni, lavoro, casa e affetti familiari. Tra i reclusi si contavano anche bambini, internati per disturbi comportamentali e dell’apprendimento, ritardi psicomotori o iperattività, spesso provenienti da orfanotrofi o contesti di grave degrado. Attraverso la lettura della terapia dello psichiatra François Leuret, Foucault rintraccia e analizza alcuni elementi strategici di quest’operatore di realtà. Innanzitutto, si osserva l’esistenza di uno squilibrio di potere tra il paziente e il personale; si tratta di una delimitazione, per il malato, di uno spazio dove non esistono simmetrie e reciprocità (vedi fig. 5).

 

Basaglia. Il dottore dei matti di Andrea Laprovitera e Armando «Miron» Polacco
Immagine tratta da Basaglia. Il dottore dei matti di Andrea Laprovitera e Armando «Miron» Polacco

Il manicomio e i suoi internati spesso si confondevano e normalizzavano diventando tra loro quasi indistinguibili, sia nella forma sia nella sostanza, agli occhi del mondo esterno. Riporto qui un’altra tavola (figura 6) che richiama l’opera il Narciso di Michelangelo Merisi da Caravaggio, raffigurando un uomo in pigiama a righe, rasato, con lo sguardo fisso sul proprio riflesso in uno specchio d’acqua. Questa immagine riproduce una profonda spersonalizzazione rispetto a quelli che sono ricordi, proiezioni o forse sogni del soggetto riflesso.


Basaglia. Il dottore dei matti di Andrea Laprovitera e Armando «Miron» Polacco
Immagine tratta da Basaglia. Il dottore dei matti di Andrea Laprovitera e Armando «Miron» Polacco

Concludendo, perché lo spazio è oramai terminato, l'arte, attraverso il mezzo espressivo del fumetto, funge da catalizzatore sia per la costruzione sociale sia per l'interiorizzazione delle malattie, offrendo un mezzo per visualizzare, interpretare e, infine, trasformare la comprensione della malattia nella società. Questo rende l'arte non solo un riflesso della realtà medica ma anche un soggetto attivo nel dare forma al modo in cui la malattia è concepita e vissuta.

I fumetti svolgono un ruolo cruciale nella demistificazione delle condizioni di salute mentale. Umanizzando gli individui che affrontano queste sfide, infrangono stereotipi e idee contorte. Fanno uscire la salute mentale dall'ombra e la portano nel regno del dialogo aperto, creando uno spazio sicuro di confronto e dibattito.

All’interno del fumetto, come nella società, il potere «proviene da ogni parte»: secondo Michel Foucault, trova espressione nella lotta tra eroi e antagonisti, nelle strutture oppressive e nelle rivolte contro l'autorità. Questo medium visivo non solo riflette le dinamiche di potere della nostra realtà, ma offre anche uno spazio unico per sfidarle, per visualizzare la resistenza e per sperimentare utopie temporanee. I fumetti, così come le eterotopie descritte da Foucault, possono quindi essere visti come spazi dove le norme vengono capovolte e dove il potere può essere esaminato, criticato e, talvolta, riconfigurato.



Note

[1] Nonostante Hogarth non fosse un creatore di fumetti nel senso moderno del termine, la sua arte ha diverse affinità con il medium del fumetto, specialmente per quanto riguarda la narrazione visiva e la satira sociale. Hogarth, secondo Smolderns (2020), è l’artista che ha portato l’arte dell’incisione nella modernità combinando, in modo disincantato, la precedente tradizione della costruzione narrativa attraverso le immagini con la letteratura umoristica che stava emergendo in Inghilterra in quel periodo

[2] Pinel sostiene che il maniaco, soggetto soltanto a sporadici attacchi di pazzia, ha un cranio meglio proporzionato alla stazza corporea rispetto all’idiota

[3] Durante una conferenza presso il Cercle d’études architecturales il 14 marzo 1967, Foucault delineò il concetto secondo cui, in ogni civiltà, sono presenti spazi che si collocano a cavallo tra il reale e l'utopico, che possono essere identificati con il termine di eterotopie.


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Veronica Moretti è Ricercatrice in Sociologia e membro del Comitato di Bioetica presso l’Università di Bologna. Il suo campo di formazione è la sociologia della salute, da cui ricava una grande passione nell’utilizzo di tecniche creative (tra cui i diari e i fumetti) per la formazione di futuri professionisti sanitari e la comunicazione di tematiche sensibili. È una delle fondatrici e Vice-Presidente dell’Associazione culturale Graphic Medicine Italia, che promuove l’interazione tra il mezzo espressivo del fumetto e il dibattito sulla salute. Con altre/i colleghi/i ha recentemente pubblicato per Tunuè il graphic novel Il Primo Paziente e collabora con BeccoGiallo per la collana Graphic Anatomy.


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