Sull’opera d’arte come merce [1]
In questo ricco contributo, Stefano Suozzi s'interroga sulla reale natura del rapporto tra arte e mercato, tra la valutazione estetica e quella economica dell'opera d'arte, per cercare di comprendere se, riconoscendola nel suo carattere di merce, l'opera d'arte possa dirci qualcosa in più su se stessa, sull'arte e sul mondo che abitiamo.
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Un quadro di San Girolamo in penitenza
Io lo vendetti per necessità a Gian Battista Erizio
Per quattordici ducati e mezzo;
un puttino in forma di Gesù
per Girolamo Morena,
rinfrescato di colore ad olio, tutto nudo,
e doratura quanto abbisognava: li rammento,
fra gli altri, dal peso dei miei secoli,
dal male della polvere,
dal buio della borsa,
dal costante segnar numeri e nomi
d’un conto che non torna.
Francesco Scarabicchi[2]
1. In una nota dell’ottobre 1548 del Libro di spese diverse, il libro mastro in partita doppia su cui annotava entrate e uscite della sua attività di artista, Lorenzo Lotto registra che Tommaso Costanzo ha rifiutato il ritratto che gli ha commissionato «perché il quadro non se li somigliava né se conosea per sua efige». Lotto, tuttavia, più che dalla giustificazione pretestuosa del rifiuto, è contrariato dal fatto che «tal opera non è vendarescha», ovvero è un ritratto talmente fedele del committente che non può in alcun modo essere modificato affinché possa essere venduto ad altri[3]. In altri termini: fallito il sistema della committenza, Lotto non può rivolgersi al libero mercato per rientrare della perdita.
L’episodio mette bene in luce il processo di «emancipazione dell’artista»[4] che è già in corso alla metà del XVI secolo e che presenta due caratteristiche complementari: se, da un lato, l’artista diventa sempre più libero e indipendente dal sistema delle committenze, fino ad allora pressoché esclusivo, dall’altro lato, la libertà acquisita si rivela immediatamente come una nuova forma di dipendenza, quella dalle regole del nascente mercato dell’arte. In questo senso, arte e mercato dell’arte nascono contemporaneamente e sarebbe impossibile immaginare un artista libero di esprimere il proprio talento e indipendente dal sistema delle committenze se non potesse esercitare la propria libertà e indipendenza nel mercato, anche se ciò comporta l’accettazione di regole nuove e diverse dalle precedenti. Si pensi, per esempio, al problema della definizione del prezzo dell’opera d’arte che il libro mastro di Lotto illustra ad uno stadio ancora intermedio: il prezzo non veniva fissato dall’artista, ma dall’acquirente, anche sulla base di una valutazione imparziale espressa da altri artisti riconosciuti. Nella maggior parte dei casi, Lotto non è deluso dal sistema; in altri si lamenta della bassa valutazione espressa da esperti che considera anche amici o rifiuta di vendere le opere a un prezzo che considera inadeguato rispetto al «saper et diligentia»[5] con cui le ha realizzate. In particolare, con queste parole Lotto non si sta riferendo in modo generico al proprio lavoro, ma si sta servendo di una terminologia specifica che illustra le qualità del lavoro artistico che dovrebbero concorrere alla formazione del giusto prezzo dell’opera: le sue competenze artistiche, la sua capacità di invenzione, la maestria con cui è in grado di realizzare un’opera, il tempo doverosamente impiegato nella sua realizzazione e, non ultimo, il valore dei materiali utilizzati.[6]
Tuttavia, ciò che qui ci interessa è che le pagine di Lotto sono la testimonianza, tra le tante dell’epoca, del contemporaneo e complementare svilupparsi del processo di emancipazione dell’artista e della sua trasformazione in «mercante di se stesso e della propria opera». Ciò dovrebbe farci riflettere sulla reale natura del rapporto tra arte e mercato, tra la valutazione estetica e la valutazione economica dell’opera d’arte, in altri termini, sull’opera d’arte come merce. Ovviamente, non si tratta di svilire il valore dell’opera d’arte riducendola a merce, ma di cercare di comprendere se, riconoscendola finalmente nel suo carattere di merce, l’opera d’arte possa dirci qualcosa di più su se stessa, sull’arte e, perché no, sul mondo che abitiamo.
2. Il rapporto tra arte e mercato è sempre stato rappresentato come estremamente conflittuale. Per l’artista, il mercato è un male necessario, un aspetto del mondo dell’arte con cui è costretto a convivere per conquistare una stabilità economica sufficiente a consentirgli di dedicarsi a tempo pieno al proprio lavoro, ben sapendo che il prezzo di questa convivenza è il compromesso artistico, l’accondiscendenza nei confronti delle mode e degli interessi di mercanti, galleristi e collezionisti, e il sospetto che la sua opera non sia più l’autentica espressione del proprio talento, ma soltanto una mera soddisfazione del mercato stesso. Il valore estetico dell’opera d’arte, realmente compreso e apprezzato solamente da pochi e veri esperti, viene così immancabilmente misconosciuto da un mercato e da un grande pubblico che, succubi delle mode e portatori di incompetenza diffusa, soprattutto nel caso dell’arte contemporanea, favoriscono una parossistica produzione di opere di dubbia qualità a discapito di quelle davvero importanti. In altri termini, il mercato non è che una forma di pervertimento della purezza dell’arte, dell’artista e dell’opera d’arte che è necessario contrastare e di cui ci si dovrebbe poter liberare.
In realtà, dal punto di vista storico, il conflitto tra arte e mercato è la manifestazione di quella che Paolo Pullega definisce come la «falsa coscienza dell’arte creativa»[7]. Infatti, «la presunta separazione di estetica ed economia è artificiosa e maschera un dato essenziale: l’arte ha sempre presupposto un’economia dell’arte senza la quale non sarebbe neppure esistita e senza la quale, di certo, non si sarebbe data come si è data»[8]. La concezione dell’arte che ancora oggi è alla base dell’opinione comune e delle pratiche artistiche è stata «inventata» nel corso di un processo storico, attentamente ricostruito da Larry Shiner[9], che giunge a maturazione tra XVIII e XIX secolo e che conta diversi aspetti: la nascita dell’Estetica come disciplina autonoma con Alexander Gottlieb Baumgarten[10]; la formazione di uno specifico rapporto tra opera d’arte e grande pubblico, che si traduce anche nella definizione dell’atteggiamento che è necessario adottare di fronte all’opera d’arte e durante la sua fruizione (silenzio assorto, attenta osservazione, riflessività, ecc.); la fine della committenza come motore esclusivo della produzione artistica e la nascita delle gallerie e di un libero mercato dell’arte; la conseguente produzione di opere come libera espressione dell’artista e svincolate dalle richieste del committente, ovvero prive di una destinazione specifica e disponibili per essere vendute a qualsiasi acquirente ed esposte in un luogo qualsiasi. Si tratta di processi complessi e simultanei che si determinano e influenzano a vicenda e l’arte non sarebbe quello che è se ne mancasse anche uno soltanto. E contemporaneamente alla nascita dell’arte con, per e nel mercato, nasce anche la rappresentazione di un artista vittima del mercato e delle istituzioni, dell’incompetenza del pubblico e dei critici, costantemente in lotta con un mondo che non lo comprende e non lo merita.
Questa rappresentazione dell’arte e dell’artista si fonda, tuttavia, sul falso presupposto di un’epoca in cui l’arte è stata libera dal mercato. Ciò non è mai accaduto. Come ha accuratamente ricostruito Hans Belting, la storia ha innanzitutto conosciuto un’era dell’immagine[11], durante la quale le immagini avevano una funzione benjaminamente cultuale, di cui l’esempio più evidente è l’icona. In queste immagini il soggetto è presente, vivo e attivo. L’immagine religiosa, per esempio, non è soltanto uno strumento attraverso il quale potersi rivolgere alla divinità, ma è essa stessa degna di devozione e culto, salvifica e miracolosa. A partire dal Rinascimento, l’era dell’immagine viene progressivamente sostituita dall’era dell’arte[12], in cui le immagini perdono la propria funzione cultuale e assumono una funzione prettamente espositiva. Si tratta di un processo di lunga durata, in cui i due generi di immagini per lungo tempo convivono e durante il quale l’artista afferma gradualmente la propria indipendenza inserendosi in un sistema di mercato che lentamente diventa sempre più libero. Tuttavia, come abbiamo visto nel caso esemplare di Lotto, l’emancipazione dell’artista dal precedente sistema delle committenze, oltre a incentivarne l’indipendenza e l’autonomia, ne evidenzia la solitudine di fronte al mercato e la necessità di sottomettersi alle sue nuove regole, cosa che l’artista fa legittimando la propria opera attraverso un’ulteriore rivendicazione della propria indipendenza. Si tratta di un processo che, come osserva Larry Shiner, giunge a compimento nel corso del XIX secolo:
La moderna figura dell’«artista», con le relative nozioni di geniale libertà e di immaginazione creativa, contribuisce ovviamente a convincere questo pubblico frammentato che gli artisti, i critici, e gli esperti siano, meglio degli altri, in grado di riconoscere le cose di valore e di sapere quanto sia opportuno pagarle. D’altra parte, non si deve esagerare il dato della libertà dell’artista nel nuovo sistema del mercato. Gli artisti che vogliono guadagnarsi da vivere con il proprio lavoro dovranno offrire opere che stiano entro determinati parametri accettati dai critici e da un certo pubblico, oppure, in alternativa, dovranno unirsi ad altri artisti e critici per imporre nuove direzioni. L’insistenza sull’indipendenza e sulla libertà artistica, un tema ricorrente fin dall’Ottocento, costituisce in parte una reazione a un nuovo tipo di dipendenza[13].
Aggiunge Shiner: «la dialettica dell’arte e del denaro aveva già assunto la forma che mantiene ancora oggi e che si può riassumere nella necessità per l’artista di manifestare la propria indipendenza esattamente da coloro la cui approvazione è necessaria per il successo»[14], ovvero quello stesso pubblico ormai considerato insufficientemente preparato per comprendere il reale valore dell’opera stessa. Inoltre, la rivendicazione della propria indipendenza deve passare, come sottolinea Hans Belting, attraverso una rivendicazione dell’indipendenza dell’arte stessa:
la concezione dell’opera in quanto opera autonoma [è] un’invenzione moderna. A causa di una crisi originatasi a partire da una nuova valutazione dell’arte, ci si cominciò ad aspettare che un’opera di un pittore rappresentasse un ideale elevato, che fino ad allora si era sottratto a ogni definizione stabile. […] Un nuovo tipo di discorso sull’arte guidava non solo la ricezione, ma anche la produzione artistica. Ci si aspettava che ogni singola opera compensasse la perdita di una definizione affidabile e considerata generalmente valida. Così la lotta dell’artista moderno non fu soltanto la continuazione dello sforzo eterno per esprimere se stesso, ma ebbe anche il compito di dimostrare una concezione dell’arte che avesse una validità generale. Da questo momento in poi ogni nuova opera divenne per definizione una sorta di programma da giudicare come un’argomentazione per una teoria generale dell’arte. Questo è il lato più oscuro dell’alba luminosa dell’arte autonoma: la nuova libertà impose agli artisti l’onere di produrre risultati per giustificare l’arte[15].
Rinvenendo una sostanziale omogeneità nell’opera d’arte moderna e contemporanea, per distinguerla dall’immagine di culto precedente all’era dell’arte, Hans Belting usa la definizione comprensiva di opera autonoma[16] e osserva come, prima ancora che la rappresentazione di un soggetto qualsiasi, così come anche nel caso di un’opera astratta priva di un soggetto realistico, ogni opera d’arte è innanzitutto un discorso sull’arte, ogni capolavoro è una realizzazione parziale e imperfetta che asintoticamente si avvicina alla manifestazione di un’Arte ideale, qualunque essa sia, che caratterizza un’epoca, uno stile o il lavoro di un singolo artista.
Anziché insistere nel sostenere che l’arte autonoma non è che la continuazione degli ideali dell’arte del passato (il che presuppone che l’arte del passato fosse già arte secondo i criteri che utilizziamo oggi), dalla quale si distinguerebbe per la «lotta» che, nel passaggio d’epoca, avrebbe dovuto ingaggiare per preservare se stessa dal male necessario del mercato, occorre invece riconoscere che l’opera d’arte autonoma nasce come merce e la separazione tra arte e mercato è un racconto volto a definire una nuova idea dell’artista e dell’arte. In altri termini, da un lato, nell’era dell’arte la rivendicazione di autonomia e indipendenza artistica permette all’artista di legittimarsi come estraneo a quello stesso mercato che è all’origine delle nuove condizioni del mestiere dell’arte. Dall’altro lato, questa rivendicazione di autonomia trova fondamento in una idea di arte che, pur mutando e trasformandosi nel corso del tempo senza mai raggiungere una definizione unanimemente accettata, rappresenta la giustificazione e la legittimazione di ogni opera d’arte che, in questo modo, è innanzitutto un discorso su una specifica idea di Arte e un tentativo, inevitabilmente imperfetto, di realizzarla[17]. Anche in questo senso reattivo, e non solo in quanto tale, il mercato è parte di quell’articolato sistema di cause concomitanti e relazioni molteplici che contribuiscono alla nascita dell’arte autonoma: il mercato non è un agente esterno che interferisce con il processo creativo e inquina la realizzazione dell’opera, ma si può ragionevolmente affermare che è l’ambiente di coltura in cui l’arte autonoma può sorgere.
Ora, questa ricostruzione storica del rapporto tra arte e mercato consente di approfondire una delle questioni che Walter Benjamin discute nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica[18], quella della sostituzione dell’aura dell’opera d’arte classica con l’aura dell’opera d’arte tecnicamente riproducibile.
3. Smarcandosi dalla lettura critica più consolidata, Paolo Pullega pone in evidenza una particolare conseguenza dell’analisi benjaminiana della trasformazione dell’aura:
L’idea di originale nasce propriamente con la riproducibilità tecnica […] per separare l’opera d’arte irriducibile in sé al processo di riproduzione da quella predisposta per la riproduzione tecnica, e che anzi in tale processo trova la propria identità. La distinzione separa due modi produttivi e, in quanto tale, ha valore epocale. In questo Benjamin ha ragione quando richiama un concetto di diversità sostanziale cui dà il nome di «aura»[19].
In altri termini, la trasformazione dell’aura è il segno di una trasformazione dei modi di produzione dell’opera d’arte e, di conseguenza, dovremmo chiederci se sia necessario presupporre l’esistenza di forme diverse di aura per ogni diverso metodo di produzione dell’opera d’arte come, per esempio, il readymade, le performance effimere, le installazioni site specific, ecc. Senonché, andare alla ricerca della definizione di aura appropriata per ogni più recente sviluppo dell’arte probabilmente comporterebbe un’inutile proliferazione degli enti e delle definizioni. Proprio i readymade, che Marcel Duchamp inizia a realizzare dal 1914, consentono di cogliere una possibile incongruenza in questa ipotesi.
Negli stessi anni in cui Benjamin sottolinea la trasformazione dell’aura e lo sviluppo rivoluzionario dell’opera d’arte tecnicamente riproducibile, Duchamp realizza i suoi celebri readymade, oggetti tecnicamente riproducibili che attraverso un processo di risignificazione abbandonano il loro status di simulacro – ovvero di copie prive di un originale[20] – per riguadagnare quello di opera d’arte originale. Per realizzare i readymade, Duchamp si attiene a poche regole. Innanzitutto, la scelta dell’oggetto da trasformare in readymade non deve mai essere dettata da eventuali qualità estetiche, ma deve essere «fondata su una reazione d’indifferenza visiva, unita a una totale assenza di buono o cattivo gusto… dunque un’anestesia completa»[21]. Inoltre, poiché «questa forma di espressione»[22] si può prestare a una proliferazione indiscriminata dell’offerta tale da risultare estremamente dannosa, è necessario «limitare la produzione di readymade a un piccolo numero ogni anno».[23] Inutile aggiungere che in più di un secolo di storia del readymade, schiere di epigoni hanno dimostrato di non aver mai compreso e applicato tali regole. Ma l’aspetto più significativo dell’invenzione dei readymade è la radicale trasformazione del processo di produzione dell’opera. Come osserva Franco Vaccari, proprio a partire da Duchamp, il lavoro e l’abilità dell’artista non sono più spesi nella realizzazione dell’opera, ma nella sua successiva difesa e giustificazione:
Duchamp, invece di esibire abilità-lavoro per ricevere attenzione, punta sulle contraddizioni e ottiene il massimo risultato, apparentemente con il minimo sforzo, poi passa tutta la vita a difendere quei gesti; quel lavoro che di solito precede la comunicazione e traspare nella forma dell’abilità, questa volta la segue e si manifesta nella forma della coerenza e della lucidità critica[24].
In questo modo Vaccari non evidenzia una invenzione artistica, ma un’inversione nel rapporto tra il tempo e il lavoro della realizzazione dell’opera, da un lato, e il tempo dedicato a spiegarne il senso e a giustificarne il valore artistico, dall’altro lato; non riconosce una differenza di natura tra il readymade e le opere d’arte precedenti, ma una differenza di grado. In altri termini, se è vero che nell’era dell’arte l’opera d’arte è, innanzitutto, un discorso di autolegittimazione e di realizzazione di una determinata idea di arte, non importa quale, allora Duchamp con i readymade afferma che l’opera d’arte in quanto oggetto non è strettamente necessaria; ciò che importa è solamente il discorso sull’Arte che l’opera cerca di realizzare. Come sottolinea Hans Belting, Duchamp libera «l’arte dalla contraddizione per la quale l’opera rappresenta un’idea senza essere un’idea»[25] e così facendo porta in primo piano il fatto che l’opera d’arte è una finzione che possiede «un immaginario valore di scambio derivato da una grande idea».[26]
L’osservazione di Belting su un «immaginario valore di scambio» dell’opera d’arte che viene rivelato nel momento in cui Duchamp disarticola la relazione tra opera d’arte in quanto oggetto e l’idea di arte di cui dovrebbe essere la realizzazione, apre un ulteriore orizzonte di analisi. Innanzitutto, è possibile riconoscere alla trasformazione dell’aura diagnosticata da Benjamin e alla sua relazione con le forme di produzione dell’opera d’arte un significato diverso e più ampio[27]. Non occorre infatti ipotizzare forme diverse di aura per ogni diversa forma di produzione dell’opera d’arte contemporanea, ma occorre riconoscere che l’aura solitamente associata all’opera d’arte tecnicamente riproducibile riguarda l’opera d’arte autonoma nel suo complesso. Pertanto, non è la riproducibilità tecnica che costituisce un nuovo modo di produzione dell’opera d’arte, ma lo sono l’ingresso dell’immagine nell’era dell’arte e la nascita dell’opera d’arte secondo il modo di produzione richiesto dal mercato: l’opera d’arte tecnicamente riproducibile non è che un caso esemplare di questo processo, che è condiviso anche da tutte le altre forme di arte. Inoltre, l’osservazione di Belting consente di riconsiderare il rapporto tra arte e mercato e di comprendere che l’opera d’arte, per quanto specifica ne sia la natura, è anche, e forse soprattutto, una merce del tutto particolare, in cui il valore di scambio sembra avere un ruolo molto maggiore che nelle merci comuni. Comprendere cosa sia l’opera d’arte significa perciò comprendere che tipo di merce essa sia e l’analisi dell’opera d’arte riproducibile tecnicamente diventa paradigmatica e può mettere in evidenza le caratteristiche costitutive dell’opera autonoma, appunto, come merce.
4. Il mercato delle opere d’arte tecnicamente riproducibili presenta le medesime contraddizioni di altre forme particolari di mercato, come quelle dei prodotti firmati, della moda o di design.[28] Le principali, secondo Pullega, sono quattro:
a) contraddittorietà fra antagonismo e riconoscimento sociali
b) negazione della tecnica della riproducibilità
c) uso improprio della tecnica della riproducibilità
d) negazione dell’economia della riproducibilità[29]
Ovvero, (a) l’artista si presenta come sovvertitore dell’ordine costituito, ma per farlo si serve di istituzioni pubbliche e private (musei, gallerie e, soprattutto, mercato) che sono parte integrante di tale ordine. Inoltre, anche quando si serve di tecniche che consentono la riproduzione in serie, (b) l’artista non rinuncia alla sua figura autoriale e alla rivendicazione dell’unicità della propria opera. A tal fine, (c) assistiamo all’uso improprio delle tecniche di riproduzione, come nel caso di serie limitate di stampe garantite dalla biffatura della lastra matrice e alla conseguente (d) formazione del prezzo dell’opera sulla base della limitazione della serie, anziché della sua riproducibilità.[30] Questi processi contraddittori conducono verso un risultato specifico: «nella determinazione del prezzo, anche nella condizione ideale di trasparenza del mercato, i fattori non direttamente economici sono ben più influenti di quelli propriamente economici. Ne deriva un intrinseco strapotere dell’arbitrarietà del commercio»[31].
Ciò che secondo Pullega costituisce l’arbitrarietà del commercio dell’opera d’arte è, a ben guardare, un caso particolare di quella che Marx aveva riconosciuto come l’inversione tra «valore d’uso» e «valore di scambio» nella formazione del prezzo della merce. Nel passaggio dall’era dell’immagine all’era dell’arte, le immagini e gli oggetti che si trasformano in opere d’arte perdono la loro funzione originaria, lo scopo per cui erano stati realizzati, e il benjaminiano valore cultuale che li caratterizzava diventa privo di fondamento. Ma l’opera d’arte non rinuncia all’antico valore e avendo perduto la funzione a cui questo valore era associato e su cui si fondava, cerca di associarlo alla nuova funzione di essere opere d’arte, o più banalmente essere belle, acquistabili e collezionabili. Il paradosso è palese:
Le proprietà che portano a definire un’opera come opera d’arte sono le stesse che qualificano il medesimo oggetto come altro rispetto all’arte. Se è il valore cultuale a rafforzare il carattere d’arte di un’opera, per cui l’arte vive storicamente fino a quando non viene vissuta come arte fine a se stessa, allora è arte proprio ciò che non nasce come tale[32].
Ed è sulla base di questo paradosso che le opere d’arte pretendono di trasformare il valore cultuale in valore estetico, e il valore estetico in valore economico. Le forme di contraddizione, caratteristiche del modo di produzione dell’opera d’arte e risultato dello sviluppo storico dell’arte stessa, ci consentono perciò di evidenziare il peccato originale dell’opera d’arte autonoma, quello che Pullega definisce come il «paradosso estetico»:
Sulla base del concetto di valore d’uso e del suo contraltare, il «valore di scambio», è possibile scrivere una «storia»[33] dell’estetica che inizia con oggetti che non sono opere d’arte, in quanto carichi di valore d’uso, e finisce con altri, le cosiddette «opere d’arte» che «non servono a niente» ma possono contenere un elevato valore di scambio se viene attribuito loro un elevato valore estetico – se si pone cioè in primo piano la loro bellezza, vera o presunta che sia. [...] Esiste dunque un’«equivalenza» (non un’identità o un’uguaglianza) tra estetica ed economia, una corrispondenza di valori, una relazione simmetrica, un rapporto proporzionale per cui oggetti che non «servono a niente» ma possono essere belli hanno un costo, cioè possono valere molto in termini economici. L’apoteosi della bellezza è anche l’apoteosi del denaro[34].
Note
[1] Alla redazione del presente saggio ha contribuito in modo estremamente prezioso la discussione che si è sviluppata nel corso del seminario Attualità e inattualità dell’immagine e della scrittura, dedicato al volume S. Suozzi, L’arte della fuga. Attualità e inattualità dell’immagine e della scrittura, ETS, Pisa 2021. Compreso nel programma di seminari dell’Archivio storico-giuridico «Anselmo Cassani» istituito presso il CRID - Centro di Ricerca Interdipartimentale su Discriminazioni e vulnerabilità (Dipartimento di Giurisprudenza, Università di Modena e Reggio Emilia), l’incontro è stato coordinato dal Prof. Thomas Casadei e introdotto dal Prof. Fabio Corigliano: a loro e al Prof. Gianfrancesco Zanetti va il mio più sincero ringraziamento. Ringraziamento che è più che doveroso estendere a tutti i partecipanti, e in particolare a Silvia Bartoli, Giovanni Cerro, Casimiro Coniglione, Gianluca Gasparini, Massimo Gelardi, Francesco Ori, Leonardo Pierini, Rosaria Pirosa, Benedetta Rossi e Ivan Valia.
[2] F. Scarabicchi, Necessità, in Id., con ogni mio saper e diligentia. Stanze per Lorenzo Lotto, Liberilibri, Macerata 2013, p. 86.
[3] L. Lotto, Il libro di spese diverse, EUT Edizioni Università di Trieste, Trieste 2017, p. 246. Il Libro riporta in più occasioni la riuscita di questa pratica. Uno degli episodi più noti è la trasformazione di un ritratto di Giovanni Maria Pizone, da questi rifiutato, in un San Bartolomeo poi dato all’amico Bartolomeo Carpan (ivi, p. 180).
[4] L. Lotto, Libro di spese diverse, cit., p. 180; cfr. anche F. De Carolis, Introduzione, in L. Lotto, Libro di spese diverse, cit., p. 80.
[5] All’epoca, la questione del «giusto prezzo» è ancora una questione di natura anche morale, relativa al tema dell’onestà e della legittimità del guadagno; cfr. F. De Carolis, Introduzione, cit. pp. 35ss. Per il significato della terminologia artistica rinascimentale in Lotto cfr. ivi, pp. 32ss (fortuna, ragione) e pp. 77ss (sapere, diligentia, invenzione). Sebbene relativo al XV secolo, resta fondamentale il catalogo di concetti artistici ricostruito in M. Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, Einaudi, Torino 1978.
[6] Per una descrizione del mercato dell’arte nell’Italia del XV secolo, e di come la maestria dell’artista divenga man mano più importante dei materiali impiegati, cfr. M. Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell'Italia del Quattrocento, cit., pp. 4-46.
[7] P. Pullega, Sull’arte che non è, in Id., L’equivalenza estetica, con altri scritti di arte e di economia, Solfanelli, Chieti 2016, p. 43.
[8] Ivi, p. 40.
[9] Cfr. L. Shiner, L’invenzione dell’arte. Una storia culturale [2001], Einaudi, Torino 2010.
[10] Cfr. A.G. Baumgarten, L’estetica [1750-1758], Aesthetica, Palermo 2000.
[11] Cfr. H. Belting, Immagine e culto. Una storia dell'immagine prima dell'età dell'arte [1990], Carocci, Roma 2022, p. 53.
[12] H. Belting, Prefazione all’edizione originale, in Id., Immagine e culto, cit., p. 39: «L’“arte” […] presuppone la crisi dell’immagine antica e la sua nuova valorizzazione nel Rinascimento come opera d’arte, legata a una rappresentazione dell’artista nella sua autonomia e a una discussione sul carattere artistico della sua invenzione. Contestualmente alla distruzione delle immagini di vecchio tipo da parte degli iconoclasti, si ha la nascita d’immagini di tipo nuovo, destinate al collezionismo: è da quel momento che si può parlare di un’era dell’arte, che dura tutt’oggi».
[13] L. Shiner, L’invenzione dell’arte, cit., pp. 169-170.
[14] Ivi, p. 171.
[15] H. Belting, Il capolavoro invisibile. Il mito moderno dell’arte [2001], Carocci, Roma 2018, pp. 27-28.
[16] Accogliendo la lezione di Belting, d’ora in poi ci riferiremo alle opere appartenenti all’era dell’arte, ovvero alle opere d’arte moderne e contemporanee, come opere autonome.
[17] Senza dimenticare che l’artista è probabilmente molto più cosciente di questo processo di quanto non voglia apparire; il giudizio di Jean Dubuffet è spietato: «Gli intellettuali vengono reclutati nei ranghi della casta dominante o di coloro che aspirano a inserirsi in essa. L’intellettuale, l’artista, assume in effetti una dignità che lo rende pari ai membri della casta dominante. Molière pranza con il re. L’artista riceve inviti dalle duchesse, come l’abate. Mi chiedo in quale disastrosa proporzione si abbasserebbe di colpo il numero degli artisti se tali prerogative venissero soppresse. Basta osservare con quanta cura gli artisti cerchino (con il loro modo simulato di vestirsi e con la stravaganza del comportamento) di farsi riconoscere come tali e di differenziarsi dalle persone comuni» (J. Dubuffet, Asfissiante cultura [1968], Abscondita, Milano 2006, p. 12).
[18] Cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica [1935-1940], Donzelli, Roma 2019 (edizione integrale comprensiva delle cinque stesure).
[19] P. Pullega, Sulla riproducibilità dell’opera d’arte, in Id., L’equivalenza estetica, cit., p. 85.
[20] Sul concetto di simulacro cfr. J. Baudrillard, Simulacres et simulations, Galilée, Paris 1981; per la presenza del simulacro in ambito artistico cfr. M. Corgnati, L’opera replicante. La strategia dei simulacri nell’arte contemporanea, Editrice Compositori, Bologna 2009.
[21] M. Duchamp, A proposito dei readymade [1961], in Id., Scritti, Abscondita, Milano 2005, p. 165.
[22] Ivi.
[23] Ivi, pp. 165-166.
[24] F. Vaccari, Fotografia e ready-made, in Id., Fotografia e inconscio tecnologico, Einaudi, Torino 2011, p. 63.
[25] H. Belting, Il capolavoro invisibile, cit., p. 364.
[26] Ivi, p. 365.
[27] La critica implicita in queste constatazioni non è ovviamente rivolta a Benjamin, senza il quale sarebbe stato molto più difficile rendersi conto di questa trasformazione storica, ma verso un uso acritico dei concetti benjaminiani ormai divenuti formule di rito. Per Benjamin la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte doveva rappresentare un’occasione di emancipazione delle masse che, attraverso la diffusione pervasiva della fotografia e, soprattutto, del cinema avrebbero avuto accesso a una nuova comprensione della realtà politica del proprio mondo. Sappiamo tutti come le cose siano andate ben diversamente. L’estetizzazione della politica ha obnubilato il potere emancipatorio della politicizzazione dell’estetica e la disponibilità di opere d’arte riproducibili si è tradotta in una produzione di massa sostanzialmente priva di reali effetti politici, una forma diversa di oppio dei popoli in senso propriamente marxiano: consolatoria e funzionale all’oblio delle difficoltà della vita quotidiana.
[28] Come osserva Paolo Pullega, il valore degli oggetti firmati, di design o della moda, sebbene siano prodotti in migliaia di esemplari, «è il contrassegno dell’unicità, non l’unicità in sé» e in essi «la rappresentazione del valore […] prende il posto del valore stesso» (P. Pullega, L’equivalenza estetica, in Id., L’equivalenza estetica, cit., pp. 20-21).
[29] P. Pullega, Sull’arte che non è, cit., p. 42.
[30] Ovvero il prezzo aumenta anziché diminuire come invece accade per tutti gli oggetti prodotti in serie e su tutti il libro, la prima forma di arte tecnicamente riproducibile. Il libro evita le contraddizioni economiche dell’arte segnalate da Pullega e sfrutta al massimo le possibilità offerte dalla riproducibilità tecnica: bassi costi di produzione, grandi quantità, bassi prezzi di vendita e, soprattutto, nessuna differenza di prezzo sulla base della qualità dell’opera o dell’autore, ma solamente sulla base del numero di pagine e dell’eventuale pregio materiale dell’edizione che, ovviamente, nulla aggiunge e nulla toglie al valore letterario dell’opera.
[31] P. Pullega, L’equivalenza estetica, cit., p. 17. Pullega parla di commercio anziché di mercato perché nel mercato la formazione del prezzo risponde anche a criteri di trasparenza, oggettività e correttezza sostanzialmente assenti nel commercio dell’arte (cfr. ivi).
[32] P. Pullega, Sull’arte che non è mai stata, in Id., L’equivalenza estetica, cit., p. 48.
[33] Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, questa «storia» è rinvenibile almeno in L. Shiner, L’invenzione dell’arte; H. Belting, Immagini e culto; H. Belting, Il capolavoro invisibile; e con particolare riferimento al XV secolo in M. Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell'Italia del Quattrocento.
[34] P. Pullega, Presentazione, in Id., L’equivalenza estetica, cit., pp. 6-7.
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Stefano Suozzi è collaboratore dei Centri Culturali e tutor della Scuola di Alti Studi della Fondazione Collegio San Carlo di Modena. All’intersezione tra filosofia, arte e letteratura, ha pubblicato: Voce: «assolta simmetria», in R. Deidier (a cura di), L’avventura di restare. Le scritture di Elio Pecora (Genova 2009); La volontà di fare la cosa giusta. Il futuro distopico di Philip K. Dick, in C. Altini (a cura di), Utopia. Storia e teoria di un’esperienza filosofica e politica (Bologna 2013); Un'invincibile solitudine. Mondo proprio e mondo comune in Philip K. Dick, in «Intersezioni» (2/2015); Ritratto di un paradosso. Sulla pittura di Gabriele Grones, in G. Grones, Paintings (2018) e L’arte della fuga. Attualità e inattualità dell’immagine e della scrittura, (Pisa 2021).
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