Tre tesi sulla vittoria di Trump e sull’inadeguatezza del Partito Democratico a stelle e strisce
Dopo l'articolo di Alberto Toscano pubblicato ieri, continuano i commenti sulle elezioni americane e, più in generale, sul «Caos U.S.A». L'articolo di oggi, firmato da Romeo Orlandi, riflette sulle implicazioni della vittoria di Trump, sottolineando tre aspetti: il tycoon, che è stato capace di ricreare una solida base elettorale ma anche di approfittare delle debolezze democratiche nei settori tradizionalmente più vicini al partito dell'Asinello, non rappresenta più un voto di mera protesta ma si appresta a diventare Stato; la trasformazione del Partito repubblicano; gli errori del Partito Democratico americano.
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Per comprendere il voto del 5 novembre – e farlo dopo meno di 24 ore – è opportuno evitare due errori di impostazione. Il primo è interpretare la complessità statunitense con la sola lente uscita dalle urne; la seconda è ricalcare la litania democratica, l'esercizio di un'arroganza culturale verso l'avversario. Sembra quindi adeguato concentrarsi sulle variazioni elettorali e non sul sistema, sugli spostamenti sociali invece che sull'intera struttura federale. Un'analisi più complessa rimanderebbe a un altro stile d'analisi, di metodo prima ancora che di merito. In sintesi: non può cambiare il giudizio sugli Stati Uniti – disuguaglianze, contraddizioni, ricchezza, limiti, dinamismo – solo perchè il 10% dell'elettorato ha cambiato segno sulla scheda.
Inoltre, non è necessario esporre le consuete argomentazioni. La separazione tra voto popolare e voto elettorale questa volta non esiste. Trump – a differenza degli ultimi presidenti repubblicani, lui compreso – ha vinto in entrambi i versanti. In aggiunta, il tradizionale rapporto tra istituzioni e poteri dello stato – il check and balance – è indebolito. Il GOP ha conquistato la Casa Bianca e controlla ora Camera e Senato. La Corte Costituzionale è da anni la sua espressione ideologica. Trump ha le mani libere. Con queste premesse e dentro questi recinti, è possibile analizzare l'esito elettorale da tre punti di vista.
Primo punto
Questa vittoria è clamorosa e indiscutibile. Soprattutto, è differente da quella del 2016. Allora sembrava un incidente di percorso, l'intrusione di un leader nuovo che irrompe su un tessuto consolidato, come se fosse un corpo fino ad allora estraneo alla società. Invece Trump aveva prima intercettato e poi incarnato l'insoddisfazione. La crisi – non solo economica ma valoriale e identitaria – aveva colpito molti strati sociali: chi aveva perso il lavoro per la deindustrializzazione, chi non aveva tratto vantaggio dalla globalizzazione, chi rimpiangeva l'epoca d'oro dell'eccezionalità statunitense. L'altezzosa campagna elettorale di Hillary Clinton ha fatto il resto.
Questa volta il trionfo di Trump è maggiormente spalleggiato dall'establishment, allineato a settori delle istituzioni oltre ovviamente al versante finanziario e delle grandi corporation. Le fedeli fondamenta – la tradizionale base d'acciaio dei repubblicani – sono ancora sorrette dagli stati del sud, dai messaggi delle chiese evangeliche, dalle comunità rurali. Oggi, tra le novità emerse, tre sono state clamorose: la disaffezione di ispanici e neri verso i Democratici, lo spettacolare sostegno di Elon Musk, l'astensione degli arabo-musulmani nello stato chiave del Michigan. Tradizionalmente quell'elettorato sostiene i Democratici, anche se questa volta – per l'indiscusso sostegno di Biden e Harris a Israele – si è sostanzialmente astenuto. Trump dunque non solo rappresenta la protesta ma si appresta a «diventare stato», obbligato a governare fuori dalla campagna elettorale, a presentare un conto finale ai suoi elettori.
Secondo punto
Nel cielo della politica, la trasformazione del Partito repubblicano è probabilmente l'evento più importante. Siamo in terreni diversi da Lincoln ma anche da Nixon e Reagan. L'Elefante continua ad essere il partito del primato dell'industria, dell'individualismo, della pursuit of happines. Tuttavia, anche nei periodi di maggiore disimpegno dello stato sociale, o di intervento militare – ad esempio in Vietnam e nel Medio Oriente – nessuno aveva considerato le istituzioni al servizio di soggetti intraprendenti, in cerca sempre del nemico e della frontiera per affermare i propri diritti e ambizioni. Lo stato non è un nemico dei cittadini, semmai va alleggerito, questo il credo repubblicano. Ora potrebbe trasformarsi in apparato di controllo e di intervento, al servizio di un'inedita concentrazione di poteri.
Terzo punto
La campagna elettorale dei Democratici è stata disastrosa, Kamala Harris un candidato debole. Il suo messaggio è risultato confuso, mai incisivo, contraddittorio, capace di suscitare paure e non speranze. Dietro i suoi slogan stereotipati è emerso subito un inquietante vuoto politico. Ha fatto una campagna elettorale contro Trump, paradossalmente compattando non il suo elettorato, ma quello del rivale. Il sostegno di stelle dello spettacolo le è stato inutile, probabilmente dannoso. Le sue responsabilità sono tuttavia da condividere con il suo partito. La sostituzione di Biden è stata tardiva, a quel punto la scelta di Harris era inevitabile perché ineludibile. La strada dell'errore sembrava tracciata. L'Asinello si sta trasformando in un partito di minoranze, come se fosse un collante di aspirazioni diverse. Ma esse sono inconciliabili e tentare di raggrupparle ha bisogno di un capolavoro politico come quello di Obama. Invece Harris ha denigrato gli avversari - white trash, hilly billy, garbage – irridendoli per il loro sostegno a Trump, invece di provare a conquistarli. Inoltre, ha disatteso le speranze di chi lavora. Il patto tra lavoratori, sindacato e Partito democratico è saltato. Con poche eccezioni, il Midwest – una volta l'inespugnabile Blue Wall – ha votato per Trump.
Infine, la derivata prima è stata forse ancora più grave dell'errore originale. Aver ritenuto che le minoranze votassero compatte per il Partito Democratico è stato – ad essere benevoli nel giudizio – uno scambio tra sogni e realtà. Alla fine, l'amaro commento di Bernie Sanders – in grado di far parte del partito e di prenderne con coscienza le distanze – sintetizza al meglio quanto è successo: «Non dovrebbe sorprendere che un Partito Democratico che ha abbandonato la classe operaia scopra che la classe operaia lo abbia abbandonato. Prima si trattava di operai bianchi, ora anche di lavoratori latinos e neri. Mentre la dirigenza democratica difende lo status qui, il popolo americano protesta e vuole un cambiamento. Ed ha ragione».
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Romeo Orlandi, Presidente del think tank Osservatorio Asia, Vice Presidente dell’Associazione Italia-ASEAN, economista e sinologo. Ha insegnato Globalizzazione ed Estremo Oriente all’Università di Bologna e ha incarichi di docenza sull’economia dell’Asia Orientale in diversi Master post universitari. Per l’Istituto Nazionale per il Commercio Estero ha lavorato a Los Angeles, Singapore, Shanghai e Pechino. Relatore a conferenze internazionali, è autore di numerosi libri e pubblicazioni sull’Asia. È stato Special Ambassador per la candidatura di Roma per l’Expo 2030.
L'ultimo suo lavoro per DeriveApprodi è: Fabbrica e ring. Sei racconti dal Michigan (2024).
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