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Trump, o della bancarotta globale del progressismo neoliberale


Trump, o della bancarotta globale del progressimo neoliberale
Opera di Ivan Bedeschi, Totalitarianism, Neverending Story, 2024

La clamorosa disfatta dei Democratici e la reincorazione di Trump sanciscono l’impossibilità di archiviare l’ascesa planetaria della politica reazionaria come un fenomeno transitorio. Al contempo, sollecitano l’urgenza di un’analisi approfondita, che non si limiti all’invettiva ma permetta di comprendere il perché siamo arrivati a questo punto, e dunque come sia possibile invertire la rotta. Alberto Toscano – autore dell’illuminante Tardo fascismo, dal 29 novembre nelle librerie – individua le origini del trumpismo nel fallimento del «progressismo neoliberale», politica che va da Macron a Harris. Una politica antifascista, conclude l’autore, non può perciò limitarsi a declamare continuamente il fascismo dell’avversario, ma necessita la costruzione di una logica diversa da quella del solo calcolo elettorale [1].


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La clamorosa sconfitta di Kamala Harris, quella che Benjamin Netanyahu e Viktor Orbán hanno salutato come una storica rimonta politica[2], spegne ogni speranza sull’idea che l’ascesa planetaria della politica reazionaria sia un fenomeno passeggero. Una campagna elettorale che celebrava la sua continuità incondizionata con il Partito democratico dei Clinton, di Obama e di Biden si è sgretolata di fronte a un candidato che ha sguazzato nelle accuse di fascismo con un’allegria ancora maggiore rispetto alle sue precedenti campagne elettorali, invocando la fucilazione dei rivali, giocando con la dittatura e soprattutto annunciando deportazioni di massa degli immigrati come suo principale obiettivo politico. L’imminente falò dei diritti e dei benefici sociali delineato dal Project 2025 non ha scatenato nelle urne una resistenza sufficiente. E nemmeno la dichiarata simpatia di Trump per i generali di Hitler o il carnevale di volgarità razziste al Madison Square Garden.

Cosa dobbiamo pensare del fatto che il processo democratico abbia certificato e favorito quella che molti hanno diagnosticato come una minaccia senza precedenti per la democrazia americana?

Come al solito, gli opinionisti attribuiscono la causa e la colpa a particolari gruppi demografici. In questo inveterato tic c’è molta malafede e un errore di valutazione. Mentre le tendenze evidenziate nel voto rispetto alle categorie di genere, razza, classe, reddito o istruzione sono certamente meritevoli di uno studio attento (ad esempio la predominanza di Trump tra gli elettori a basso reddito e il successo di Harris tra i benestanti), è sconcertante la rapidità con cui ci viene chiesto di fissarci su caricature bidimensionali della soggettività: «uomini latinos», «uomini neri», «donne bianche in età universitaria» ecc. Il processo elettorale è intrinsecamente atomizzante. Diversamente da altre forme di pratica politica – manifestare, legiferare, rivoltarsi o persino fare campagna elettorale – non votiamo come gruppi. Come ha osservato il filosofo francese Jean-Paul Sartre, l’atto stesso del voto non costituisce un’istanza di prassi collettiva, ma si inserisce in una dimensione «seriale»: da qui la profonda affinità del processo elettorale con le statistiche e il marketing.

Non vi è dubbio che intorno al voto si sviluppino forme di azione collettiva e di costituzione di gruppi. Il MAGA (Make America Great Again) è un universo di fan e di spettatori passivi, ma è anche un movimento organizzato e complesso che comprende una serie di istituzioni, dalle parrocchie ai podcast, dalle fondazioni ai consigli di amministrazione. Come suggerisce l’implosione del sostegno democratico tra gli elettori arabo-americani e palestinesi-americani, all’ombra di un genocidio sostenuto dagli Stati Uniti a Gaza queste non sono solo categorie di censo ma anche identità politiche, e la loro defezione elettorale è una sorta di prassi. Lo stesso si può ipotizzare per i giovani elettori politicizzati dal movimento degli accampamenti pro-Palestina nelle università statunitensi. Dall’esclusione del movimento Uncommitted dal Comitato nazione democratico all’invio di Bill Clinton in Michigan per spacciare menzogne sugli «scudi umani» e per blaterare sulle antiche radici di Israele in Giudea e Samaria, è lecito affermare che si trattava di identità e preoccupazioni politiche collettive con le quali i Democratici non volevano avere nulla a che fare, anche quando le analisi indicavano che ciò avrebbe potuto far perdere loro gli swing states[3]. Hannah Arendt una volta disse che «coloro che scelgono il male minore dimenticano molto rapidamente di aver scelto il male». Per molti oggi dimenticare non è così facile, quindi si rivela molto più difficile fare quella scelta.

Tuttavia, per quanto critica e dannosa sia stata l’incrollabile complicità dei Democratici con l’aggressione israeliana, la vastità della sconfitta parla di un fallimento più ampio. Non è solo una questione di strategia – chi pensava davvero che ci fossero abbastanza elettori bianchi di periferia per i quali l’appoggio di Cheney fosse un affare? –, ma della visione politica (o della sua mancanza) che Harris rappresenta. È particolarmente sintomatico che, come riporta «The Intercept», nonostante abbia fatto dei diritti riproduttivi uno dei punti chiave della campagna elettorale, «le misure sull’aborto hanno superato Harris in tutti gli Stati in cui l’autonomia dei corpi era in discussione»[4]. Uno schema simile si è verificato per le iniziative sui diritti dei lavoratori[5], nonostante i democratici avessero mostrato il sostegno dello UAW (United Auto Workers) nelle prime settimane della campagna. La sensazione che di fronte alla controrivoluzione da incubo del Project 2025 ci fosse un progetto altrettanto coraggioso era scarsa, se non addirittura una ripetizione del programma più progressista della campagna di Biden per il 2020, spinto in questa direzione dalla necessità di radunare il movimento attorno a Bernie Sanders. Quando Harris è stata interrogata su Gaza e ha fatto leva sull’affermazione che gli elettori si preoccupano anche del prezzo dei generi alimentari, non si è trattata solo di un’osservazione moralmente oscena, ma ha anche fallito completamente nel tentativo di placare quelle ansie economiche molto reali che hanno giocato un ruolo così saliente nella sconfitta dei Democratici. Avendo dichiarato che da lei bisognava aspettarsi pochi o nessun cambiamento rispetto all’amministrazione Biden (a parte un membro del gabinetto repubblicano!), era difficile immaginare come avrebbe potuto tracciare un percorso più promettente per quanto riguarda i generi alimentari o il genocidio.

Naturalmente, per avere successo Trump non ha nemmeno bisogno di concepire un piano. Non è una sorpresa che abbia ripudiato il Project 2025. Non perché non verrà attuato, anzi probabilmente lo faranno. Ma perché la sua forza è una sorta di incoerenza strutturata (una «trama» fascista[6]?). Così come l’incompiutezza del muro di confine non ha intaccato l’efficacia di quel grido d’allarme xenofobo, non è affatto detto che il fallimento della «più grande operazione di deportazione della storia americana»[7] alienerebbe le simpatie dei suoi sostenitori. Non è nemmeno detto che uno sforzo serio in questa direzione non verrà compiuto e che il macabro Steven Miller non ne sarà al timone. In ogni caso, possiamo essere certi che il terrore quotidiano che perseguita le vite dei senza documenti, dei senza casa, dei razzializzati e dei precari sarà intensificato.

In una società profondamente diseguale, in cui la vita quotidiana della maggior parte delle persone è tormentata dalla precarietà, dall’ansia, dal debito o dall’inflazione, le forze del populismo autoritario hanno sempre un vantaggio. I vulnerabili sono resi responsabili delle difficoltà dei molti, alcune élite sono stigmatizzate per sancire una disuguaglianza sempre maggiore: questo è un vecchio gioco, a cui Trump ha aggiunto il suo tocco – in parte da favola del wrestling, in parte da telepromozione, in parte da reality show. Negli Stati Uniti e altrove – si pensi alle disastrose macchinazioni elettorali del presidente francese Emmanuel Macron[8] – il centrismo liberale (o «neoliberalismo progressista»[9]), che si dipinge come baluardo contro il fascismo, si sta dimostrando tutt’altro. Non solo ha contribuito alle miserie sociali di cui si nutre la politica reazionaria (l’incarcerazione di massa, la finanza predatoria, la guerra imperialista e il ridimensionamento del welfare sociale sono stati tutti progetti bipartisan dell'ultimo mezzo secolo), ma si rivela un marchio fallito, tenuto in piedi dalle sue profonde radici nell’infrastruttura delle istituzioni statali e private di élite, ma anche da quello che Adam Tooze ha definito il suo profondo narcisismo[10].

Questa illusoria autostima – la convinzione di essere una forza storica per il progresso, la sanità mentale e il bene – è anche ciò che fa sì che il politico liberale di élite scivoli facilmente nel paternalismo e nella condiscendenza[11], una posizione che gli elettori potrebbero trovare più offensiva del ricevere insulti. Pur presentandosi come l’antidoto alla marea montante del fascismo, il liberalismo di élite nega i molteplici modi in cui ne è stato la causa o l’elemento che lo ha favorito. Il suo ruolo nell’alimentare le condizioni per l’ascesa dell’estrema destra è una vecchia storia, ma purtroppo si sta ripetendo: parlare di frontiere o di sostegno ai falchi della guerra erode l’elettorato democratico e non permette alcun passo avanti rispetto agli avversari, che sono molto più a loro agio nel maneggiare una sorta di incoerenza armata. Come dichiarò Mussolini un anno prima di prendere il potere, i fascisti hanno avuto «il coraggio di mandare in frantumi tutte le categorie politiche tradizionali e di dirci a volta a volta aristocratici e democratici, rivoluzionari e reazionari, proletari e antiproletari, pacifisti e antipacifisti».

Una politica antifascista non richiede di declamare continuamente il fascismo dell’avversario (a volte si potrebbe voler evitare gli effetti intorpidenti dell’invettiva), ma certamente deve aderire a una logica diversa da quella che «dipende dal momento» o dal solo calcolo elettorale. Deve trovare il modo non solo di rendere popolari le idee emancipatrici (molte di esse lo sono già, per fortuna), ma anche di inserirle in un progetto radicato nei bisogni quotidiani. A tal fine, il centrismo liberale non è solo inutile, è un ostacolo. Richiede infiniti sacrifici morali e politici a sinistra e ai progressisti, mentre non serve nemmeno come veicolo decente per il tipo di compromessi riformisti che potremmo aspettarci dalla politica rappresentativa. Quando all’ordine del giorno ci sono questioni che toccano l’esistenza come il riscaldamento globale e il genocidio, puntare sul liberalismo è una follia.


Note

[1] La versione inglese dell’articolo viene pubblicata su «In These Times».

[3] The Arab American Vote 2024, Arab American Institute.

[9] The End of Progressive Neoliberalism, «Dissent Magazine», 2/01/2017.


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Alberto Toscano insegna alla Simon Fraser University. È autore di vari articoli e libri sull’operaismo, sulla filosofia francese e sulla critica al capitalismo razziale, di cui è uno dei punti di riferimento nel dibattito internazionale. Il 29 novembre uscirà per DeriveApprodi Tardo fascismo. Le radici razziste delle destre al potere.

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