In questo testo, confrontandosi con spunti provenienti dalle riflessioni di Franco Rotelli, Michel Foucault, Benedetto Saraceno e Federico Leoni, Antonio Luchetti parla delle condizioni di possibilità della prassi basagliana e sulle sfide della trasmissione della radicalità del suo pensiero, a partire dalle ricorrenze relative al centenario della nascita. Dietro la confusione che ancora oggi spesso si fa sulla deistituzionalizzazione (che non è semplice deospedalizzazione) si trova la difficoltà di una pratica collettiva che sfida il potere delle definizioni e delle strutture segreganti, pronta a un sempre rinnovato «nomadismo organizzativo».
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Le miriadi di iniziative susseguitesi a partire dall’11 marzo per festeggiare la centesima ricorrenza della nascita di Franco Basaglia uomo pensatore psichiatra attore (capace di atti trasformativi) rivoluzionario, nel loro articolarsi hanno restituito giustizia alla figura collettiva che è stato lasciando poco spazio alle parole di detrattori.
Si è trattato dello smontaggio e della ricostruzione continue di sistemi, istituzioni, pratiche e pensieri per la cura delle persone con sofferenza psichica e del corpo sociale nella sua globalità.
Mi piace ricordare oggi quale fu l’oggetto di quel processo definito de-istituzionalizzazione e confuso spesso con de-ospedalizzazione.
L’oggetto non fu il manicomio, seppur chiuso in entrata, aperto verso il fuori, smontato nella sua figura monolitica di dispositivo di esclusione e funzionale alla pratica dell’igiene del corpo sociale e al contenimento e alla sottrazione di una certa ipotetica pericolosità. L’oggetto di quello smontaggio fu ed è continuato a essere l’impianto stesso della psichiatria, il suo regime di verità, la Malafede[1] radicata su un sapere fragile[2], ma capace sempre di assoggettare le vite di molti.
Così ne Il Potere Psichiatrico Michele Foucault descrive la convinzione radicale, l’atteggiamento e la pratica della psichiatria tradizionale: «Conosciamo abbastanza cose - cose che neppure tu sospetti – sulla tua sofferenza e sulla tua singolarità, per riconoscere che si tratta di una malattia; ma conosciamo abbastanza anche tale malattia per sapere che su di essa e rispetto a essa tu non puoi esercitare alcun diritto. La nostra scienza ci permette di designare la tua follia come una malattia, e grazie a ciò noi, in quanto medici, saremo i soli a essere qualificati a intervenire e a diagnosticare in te una follia che ti impedisce di essere un malato come gli altri. Sarai pertanto un malato di mente».
In un recente libro della collana Eredi curata da Massimo Recalcati per l’editore Feltrinelli, intitolato Franco Basaglia, scritto da Colucci, psichiatria e psicoanalista che lavora a Trieste, assieme al filosofo Pierangelo di Vittorio, testo nel quale i due provano a descrivere il modo in cui hanno ricevuto e afferrato l’eredità di Basaglia, Colucci afferma «(…) che l’istituzione tende a ricrearsi in forme e con volti diversi, proprio lì dove meno te lo aspetti, magari nelle persone che ti sono vicine e che lavorano al tuo fianco».
É stato lo stesso Franco Basaglia ad affermarlo nel corso di una conferenza tenutasi a Rio de Janeiro il 28 giungo 1979 con le seguenti parole: «… la cosa importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, vent’anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto. Magari i manicomi torneranno ad essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma a ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale. Non credo che il fatto che un’azione riesca a generalizzarsi voglia dire che si è vinto. (…) noi, nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo vincere perché è il potere che vince sempre. Noi possiamo al massimo convincere. Nel momento in cui convinciamo, noi vinciamo, cioè determiniamo una situazione di trasformazione difficile da recuperare».
Queste parole a mio avviso introducono immediatamente la questione del noi, di una pluralità, del fatto specifico che tutto ciò è stato possibile, è stato successivamente e può essere oggi e domani, in quanto raggiunto per mezzo di una collettività.
È la dimensione collettiva che tiene in piedi un discorso (non afferrabile in modo definitivo) che può sostenere pratiche di cura, di emancipazione e di garanzia di diritti, pratiche che siano in grado di mettersi in discussione e che accettino questa messa in questione, e l’agiscano come pratica fondamentale, che garantisce un prendersi cura, e non un gestire, e un rinnovarsi senza cadere nell’ideologia. Una pratica collettiva che sia capace di fare ingegneria istituzionale, di costruire e inventare istituzioni[3] in grado di tentare questa costante scommessa utopica e non accomodarsi in istituzioni vuote e asettiche stabili nel tempo e contenitori di discorsi e pratiche di istituzionalizzazione diffusa. Istituzioni dove circolano i saperi piccoli, quantificabili[4] e ripetitivi capaci di ridurre esistenze a etichette diagnostiche e a esclusive pratiche farmaco cognitivo terapeutiche.
Ora se Basaglia è morto nel 1980 è dello stesso anno l’uscita del DSM III, il manuale diagnostico statistico psichiatrico che, come soggetto (non oggetto o strumento) che sopravvive alle critiche dei suoi stessi creatori, è stato in grado di spazzare via psicopatologia, filosofia e politica, e di riportare prepotentemente il discorso di una piccola psichiatria (perché riduttiva) egemonica genetica biodeterminata e biocurante, nel cui discorso il termine biopsicosociale serve spesso a mistificare il sostegno a pratiche di cura superbiologiche che di sociale hanno intrattenimento[5] spacciato per riabilitativo e di psico tecniche cognitive, scale di valutazione, riabilitazione al computer e delega al farmaco del «piccolo» psichiatra.
Se abbiamo la pretesa e la presunzione di affermare di aver ereditato qualcosa - e in pochi - da tutta questa storia, è perché abbiamo anche voluto attraversare discorsi e non solo pratiche in evoluzione, come Basaglia che non si è fermato certo a Gorizia e al concetto di comunità terapeutica senza rimanere inorridito dalla mistificazione che questo dispositivo apportava mentre riproduceva pratiche di segregazione[6].
Dobbiamo sostenere non la rievocazione storica dell’uomo, ma l’avanzare di pratiche collettive di ingegneria istituzionale finalizzate alla cura e all’esigibilità di diritti senza fermarsi alla convinzione di essere arrivati, ma convinti che contestazione e pratiche di smontaggio siano necessarie per poter, di volta in volta, costruire un nuovo che sia capace di avvicinare l’altro e prendersi cura dell’umano soffrire. Ereditare la pratica della deistituzionalizzazione e continuarla a praticare significa anche, come ha affermato Franco Rotelli, «(…) guardare alla salute mentale (…) guardare a come sta la gente (…) parlare di cosa fa star bene e cosa fa star male le persone e come cercare di far qualcosa per farle stare meno male». Per fare salute mentale e «(…) ridurre il mal stare di molte persone, devi mettere in movimento tutto ciò che può esserci di buono intorno a loro: contrastare tutto ciò che c’è di cattivo e attivare tutto ciò che c’è di potenzialmente buono. Questa è politica di salute mentale, che non ha niente a che fare con i servizi psichiatrici. I buoni servizi psichiatrici possono essere una sorta di trincea che serve a dire: da qui non si passa, non si va oltre, perché non dobbiamo far del male alla gente. Chiunque arriva fin qui, cioè ad un punto di crisi e di difficoltà non sostenibili, si ferma, nel senso che non passa in (…) una struttura di segregazione»[7].
Tentare di curare, accogliendo e praticando questo «modo di fare le cose», significa, lo ribadisco, votarsi ad un «nomadismo organizzativo»[8] ovvero alla «spinta a cercare nei territori gli spazi, i luoghi, le risorse, gli alleati, gli interlocutori del “fare salute”»[9], a praticare questa ingegneria istituzionale che molto si distanzia dall’atteggiamento della psichiatria tradizionale che pretende di sapere molto di malattia, personalità, norme, protocolli e tecnica e poco sa di soggettività, di ben stare e di collettività.
Note
[1] «È l'uomo dagli atteggiamenti scettici sempre scontati, l'uomo contento della propria riuscita. L'uomo che, oggettivato nell'altro, sente la necessità di essere-con l'altro non per percorrere assieme la strada tendendo verso il suo fine, ma per battere assieme il remo nella barca al comando del timoniere. (…) Egli non ha una professione, è la sua professione, nella quale trova la completezza della sua esistenza. La sua appartenenza ad un ceto sociale condiziona tutto il suo comportamento. Nel mondo non è per esserci, ma per compiere la sua Missione, ed è solo con essa, con l'ansia ben coperta che sonnecchia sotto il suo buon senso e la sua ufficialità soddisfatta. Nell'appagamento della sua inautenticità egli si compensa, vive la sua giornata, affronta i suoi impegni, sempre nella «barca», sempre al ritmo complice dei remi che lo protegge. In questo comportamento di quasi-scelta e di malafede l'inautenticità trova il suo compenso». F. Basaglia, in Ansia e Malafede, in Scritti p. 247, ed. Il Saggiatore, Milano, 2017.
[2] «Dovremmo interrogare non tanto sull’esistenza ontologica della malattia mentale quanto piuttosto sull’esistenza epistemologica della psichiatria medica. (…) La psichiatria vicaria questa ignoranza con la costruzione di modelli per nulla o scarsamente verificati sperimentalmente. (…) le neuroscienze e la neuropsicologia sono discipline che offrono potenti strumenti descrittivi ma debolissimi strumenti trasformativi (…) esiste un drammatico iato fra Psichiatria come insieme di ipotesi, modelli, interpretazioni, strumenti diagnostici, trattamenti e storie naturali delle malattie mentali che sembrano muoversi, evolvere, migliorare, peggiorare con un certa indipendenza dai trattamenti biomedici e una certa significativa dipendenza da interventi extramedici e da variabili extracliniche» B. Saraceno in Sulla povertà della psichiatria, pp. 15-16, ed. Derive Approdi, Roma 2017.
[3] cfr. Franco Rotelli, L’istituzione inventata. Almanacco Trieste 1971-2010, ed. Alphabeta Verlag, Merano, 2015.
[4] «Il rischio più grande sarà stato schivato. Che quel sapere vivo si muova. Che, come tutto quel che è vivo faccia, cose impreviste: cose che io che parlo non avevo calcolato, cose in cui io che insegno non mi riconosco. Cose che io che ascolto non mi attendevo, e che invece mi mettono in questione, e stravolgono quel che immaginavo di me, trasformano quel che immaginavo di poter fare con gli altri e nel mondo. La logica della quantità è un grande esorcismo. La pedagogia del sapere ridotto a quantità analizzabile, la pedagogia della trasmissione come trasmissione di qualcosa che è dell’ordine dell’estensione è un grande rito apotropaico». F. Leoni in Tenere vivo il sapere, 1 aprile 2024, rivista «Doppiozero», online.
[5] cfr. Benedetto Saraceno, La fine dell’Intrattenimento. Manuale di riabilitazione psichiatrica ed. Etas, Milano, 2000
[6] «(...) noi portammo comunque il nostro contributo scientifico allo sviluppo della psichiatria, poiché evidenziammo che la gestione della comunità terapeutica, che cercava di umanizzare il manicomio, era ugualmente un mezzo di controllo sociale. (…) Nella comunità terapeutica non c’è niente di veramente scientifico, niente di veramente terapeutico, perché la contraddizione della psichiatria è ancora all’opera e anzi funziona meglio, grazie a una più efficace dissimulazione del controllo sociale. (…) La comunità terapeutica è più controllo che cura, più politica che scienza, è l’ennesima e più subdola legittimazione scientifica di una norma sociale arbitraria e di una violenza politica: ecco la scoperta "scientifica" degli psichiatri di Gorizia». F. Basaglia, in Conferenze Brasiliane, pp. 112-117, ed. Raffaello Cortina, 2000.
[7] F. Rotelli in Dialogo con Franco Rotelli di Giovanna Gallio e Benedetto Saraceno, Trieste 8 marzo 2023, Copersamm e Centro di Documentazione, Padiglione M. Parco Culturale di San Giovanni, Trieste.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
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Antonio Luchetti è medico psichiatra. Si è formato in psichiatria e ha lavorato presso il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, Centro Collaboratore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per la ricerca e formazione in salute mentale. Ha lavorato in un Servizio per le tossicodipendenze del Friuli Venezia Giulia e in un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura di Roma. Attualmente lavora presso il Servizio di Psichiatria di Merano.
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