La città non è più comunità politica naturale. È piuttosto il luogo dove si evidenziano tutti gli estremi. E per governare questa realtà le vecchie categorie non bastano più.
L'articolo di Mario Tronti, che oggi proponiamo nella sezione disurbanità come ulteriore tassello per la costruzione del progetto – avviato da Machina – sulla cartografia dei decenni, è stato pubblicato originariamente su «L'Unità» (12/12/1984).
* * *
Accostiamo queste due condizioni critiche del nostro tempo: lo stare insieme nella grande città e l’agire insieme per uno scopo comune.
Metropoli e politica si scambiano una quasi identica difficoltà di sopravvivenza: due realtà che toccano il limite estremo di una rispettiva lunga storia.
Che cosa può rimanere della città dopo l’esplosione della realtà metropolitana? che cosa resterà della politica dopo questa dissoluzione dell’interesse sociale? Nella metropoli sembra apputo venire a compimento finale la storia di lunga durata della città. Nello spazio-tempo urbano metropolitano, alcune caratteristiche storiche si amplificano, si moltiplicano, raggiungono una soglia critica vicina al punto di non ritorno.
Qui è il luogo dell’ipermercato, dove chi fa circolazione delle merci impazzisce; il luogo della macro-cucina, dove si consuma in modo vistoso la produzione mercantile.
Basta entrare in una grande struttura di servizio commerciale per piccoli clienti: l’offerta violentemente eccessiva di prodotti si scontra alla fine con un limite oggettivo della domanda. Eppure per questa via si ricarica sempre un rapporto civile, che è sempre meno rapporto orizzontale tra uomini e sempre più rapporto verticale con le cose.
Si è insistito molto sul bombardamento del messaggio mass-mediologico, ma il punto decisivo rimane sempre quell’altro, questa marxiana soggettività creativa della cosa-merce di fronte alla passività subalterna del cittadino consumatore.
Leggere così la vita metropolitana non porta subito a condannare, serve prima per capire.
Dalla città-mercato alla città-fabbrica e poi di nuovo, salendo, all’ipermercato: sarebbe un errore però vedere la metropoli come un pezzo di storia economica, come è stato sbagliato definirla solo come emergenza del nuovo sociale.
Dobbiamo trovare la forza di scorgere ancora qui la forma distrutta della polis, nel senso di una comunità di uomini retta da regole politiche: passaggio quindi di storia politica e di storia delle istituzioni. Scambio+consumo+istituzione: in quanto tale la grande conurbazione metropolitana diventa un crocevia della politica. Non a caso si verifica su questo terreno l’impatto violento tra postmoderno e sottosviluppo. Non solo nelle realtà delle metropoli sudamericane o asiatiche, ma dentro il cuore dell’occidente, nel rapporto tra grande città, grande ricchezza, grande povertà. Integrazione ed emarginazione vivono qui forme quasi perfette di esistenza. Là dove si stava bene o si stava male, adesso si sta benissimo o si sta malissimo.
Sarebbe però un altro errore mantenersi fermi a questa dimensione, per cosi dire, quantitativa del fenomeno.
In un discorso sul destino della politica, la metropoli la facciamo funzionare come Categoria logica. Siamo con questa categoria, volutamente, dentro la storia dell’Occidente e dentro la vicenda del grande capitalismo. Si tratta anzi di abitare lucidamente questa forma critica del capitalismo, di stare come in un precipitato delle contraddizioni contemporanee.
E qui ci sarebbe da sviluppare un tema suggestivo: quello che qualifica e definisce la dimensione metropolitana non è l’estensione spaziale ma il flusso del tempo.
Accelerazione della vita e tempo della metropoli costituiscono lo spirito di un’epoca. E sembrano, queste labili categorie, più proprie, più pertinenti, di quelle altre categorie forti, storicamente attinenti alla città, industrializzazione, massificazione.
E si verifica per il consumo accelerato del tempo la stessa cosa che per il consumo vistoso della ricchezza. Il massimo possibile della velocità va a finire nel lungo attimo della sosta forzata. La grande città che offre a ciascuno un mezzo per correre, ferma poi tutti nella paralisi totale. Di nuovo gli estremi emergono e si evidenziano. I problemi non danno luogo a soluzioni. I contrasti risultano incomponibili. Gli interessi non mediabili e la coesistenza pacifica tra di essi impossibile.
Ecco perchè il tempo della metropoli è un luogo molto sensibile della politica. Si apre qui il tema delle lotte urbane nella metropoli, viene avanti la figura controversa del conflitto metropolitano. Ci sono delle analisi.
La svolta viene fatta risalire alla fine degli anni Sessanta, in particolare al ‘68, quando fuori dei luoghi di lavoro si costituisce un nuovo fronte permanente di lotta. Viene messa in causa l’organizzazione e la gestione dello spazio residenziale: oggetto di contestazione diventano le abitazioni, i trasporti, l’assetto urbanistico.
La base sociale di queste lotte è data dal sottoproletariato nazionale, dai lavoratori immigrati, ma anche da giovani, per lo più studenti, e da uno strato di intellettuali specializzati e di operatori sociali. Queste sono le forme belle del conflitto. Poi c’è l’insorgenza della violenza metropolitana. L’esempio classico rimane quello del 13 luglio del ‘77, la notte del blackout a New York, e il Natale nero che ne seguì, con il suo saccheggio sociale da un miliardo di dollari.
Poi ci sono gli esempi minori di guerriglia urbana in margine a manifestazioni di massa. Ma qui la metropoli diventa vetrina del conflitto, più che luogo della sua produzione, una sorta di tribuna da cui si parla al paese, con il linguaggio del conflitto che esprime domande, bisogni, esclusioni, rifiuti, che stanno dietro, nel fondo oscuro di una società non governata.
La città cosi non è più comunità politica naturale. Ovvero, è un ritorno dello stato di natura precivile.
Non entra in crisi solo un particolare modo di organizzazione della società, quella capitalistica. Entra in crisi la forma sociale in generale, e cioè l’identità sociale di quell’animale politico che è l’uomo.
La spia rossa che segnala questo fenomeno è l’emergenza di un individualismo di massa, inteso però come particolarismo di massa, espresso cioè non da nuovo soggetto che non esiste ancora, né dal grande individuo che non esiste più, ma da questo micro-legame o da questo rapporto minimo, di coppia, di famiglia, e poi di gruppo, di corpo, di ceto. Non c’è nuovo sociale. C’è la fine del sociale. Di qui il pericolo della morte della politica.
Ci sono però, è vero, delle controtendenze. La forma critica della metropoli, e il tempo metropolitano, sono anche una carica di esplosione delle soggettività. Le realtà di movimento hanno avuto qui un’occasione di nascita e di sviluppo.
Per lo stesso motivo le realtà di organizzazione marcano qui una difficoltà di sopravvivenza. Punti di vista, immagini del mondo, comportamenti tradizionali, bruciano rapidamente su questo terreno.
Vengono avanti domande di senso sullo stato delle cose, si fa viva una disperata ricerca di qualcosa d’altro, si ritrovano identità, non perdute ma mai emerse, di generazione, di sesso, di cultura non libresca, non di élites, non separata dalla vita. Questo porta a singole tragedie per la mancanza di futuro, ma anche a un sentimento collettivo di rivolta contro il buon senso del passato.
Questo è particolarmente evidente nella condizione giovanile, che è la condizione metropolitana per eccellenza. La patria di un giovane di questo tempo, la sua famiglia, la sua dimora, è il villaggio planetario. I giovani di oggi non hanno bisogno di vivere nella grande città per sentirsi abitanti della metropoli. Nella cittadina di provincia, come nel paesino di campagna, vivono e sperimentano le contraddizioni della metropoli.
Adesso ad esempio c’è un passaggio, che qui si può solo accennare e che richiederebbe un discorso a parte. Riguarda il tema della nuova cultura come complesso di comportamenti più che come insieme di saperi. L’esplosione della dimensione metropolitana ha più o meno coinciso con il dominio della civiltà dell’immagine. Questa sta immediatamente dietro le nostre spalle, e ancora davanti a noi. Eppure una mutazione è in corso e di nuovo la condizione giovanile metropolitana rende visibile il fenomeno.
Si tratta del passaggio dal tempo dell’immagine al tempo dell’ascolto. E il primato del suono che si impone sulla stessa potenza del visivo. Appena assuefatti al bombardamento delle immagini, veniamo sottoposti a un bombardamento di suoni, qualcuno dice di rumori. Pensate al cinema, e al suo seguito televisivo: il racconto, questo residuo ottocentesco, viene commentato dalla musica. Prendete un video rock, tre minuti di tempo metropolitano: la musica viene commentata dalle immagini; senza preoccupazioni di coerenza logica appunto perché non si racconta, si sente, si vede e basta. Anche questo è metropoli. È stato infatti un piccolo colpo di genio l’idea di farci rivedere la Metropolis di Lang con dentro le musiche, in sé non eccellenti, di Moroder. Mi pare che proprio grazie a questo risulti ancora più ridicolo il cattivo contenuto del messaggio politico del vecchio film.
Perché qui è il punto. La realtà metropolitana non è immediatamente politica. Non è il vecchio sociale, già definito, separato, quasi spontaneamente organizzato, razionalizzato, dalla presenza di quei grandi poli di attrazione, quelle potenti calamite, che erano le grandi classi.
Qui la complessità, di cui tanto si è parlato, non è discorso, non è categoria interpretativa della realtà, è la realtà stessa, la sua naturale struttura di funzionamento. E ogni riduzione disciplinare nel leggere questa realtà non funziona, non produce conoscenza, così come ogni scorciatoia organizzativa rivolta alle forze in essa presenti, non morde sulle cose, e sicuramente non le cambia.
La metropoli è dunque un luogo e un tempo di decisione sul destino della politica.
A mio parere, per conoscere, per governare, per dominare, per trasformare, il Leviatano metropolitano – sarebbe meglio dire il Behemoth – non ci vuole meno ma più politica. E comunque ci vuole un rivolgimento nell’idea stessa di politica. Questa non deve solo riflettere, ricalcare, descrivere, rappresentare, parti sociali implicitamente, potenzialmente, politiche.
Deve guardare anche al non-politico, o all’impolitico, e imparare a tradurlo in politica. E questa nuova opera di traduzione deve saper andare oltre la vecchia arte della mediazione. Riformulare le domande, non per razionalizzarle, ma per iscriverle in un progetto di cambiamento. E produrre risposte di convivenza umana nella città politica.
Così direi che solo una politica trasformatrice, solo una nuova politica rivoluzionaria, può essere all’altezza del problema politico della metropoli. È vero che precipitano qui, come in una soluzione chimica, le grandi categorie del politico, il consenso, la rappresentanza, la decisione.
Ma è vero anche che la loro soluzione politica riparte da qui come da un terreno vergine, da una sorta di società di natura, che non solo chiede ma impone il passaggio alla città degli uomini. Vincerà su questo terreno chi avrà una concezione del mondo capace di prendere la parola sulla vita quotidiana degli individui concreti.
Immagine: Jimmie Durham, Venice: Object, Work and Tourism, 2015 (l’editore resta a disposizione per gli eventuali aventi diritti).
* * *
Mario Tronti (1931) è uomo politico, filosofo e scrittore. Negli anni Cinquanta aderisce al Partito comunista italiano. Nella sua riflessione intellettuale accoglie e rielabora politicamente la grande cultura della crisi novecentesca. Con Raniero Panzieri anima la rivista «Quaderni Rossi». Dirige poi «classe operaia». Partecipa a «Contropiano». Fonda «Laboratorio politico». Tra gli ultimi suoi libri: La saggezza della lotta (DeriveApprodi, 2021).
Comments