Nell'articolo che pubblichiamo oggi, Andrea Fumagalli fa un ritratto di Suzanne de Brunhoff. Nel ricostruire l'importanza e l'originalità del suo pensiero, Andrea Fumagalli ripercorre il dibattito sulla moneta che l'economista francese ebbe con il gruppo di lavoro sulla moneta di Primo Maggio.
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1. Suzanne De Brunhoff e Marx
Suzanne De Brunhoff è stata un intellettuale engagée a tutto tondo, testimone delle varie ingiustizie che hanno caratterizzato il Novecento, contro le quali ha sempre combattuto a viso aperto. Fatto, oggi, più che raro, così presi della performatività dell’apparire.
Come scrive Riccardo Bellofiore a un anno della sua morte:
Le esperienze giovanili del nazismo e del razzismo, e poco dopo del colonialismo francese in Indocina e Algeria, ne fecero una combattente tenace per l’eguaglianza nei diritti politici e sociali [1]
In quanto donna, la sua carriera all’interno dell’università fu assai ostacolata. Dopo una laurea in Filosofia alla Sorbona, non ebbe l’aggregation, nonostante le sue qualità di ricercatrice fossero ampiamente riconosciute. Sarà solo dopo aver ottenuto un dottorato in Sociologia e in Economia, riuscì a entrare al CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique, l’equivalente più o meno del nostro CNR), dove divenne, con non poche difficoltà, direttora di ricerca.
La sua ricerca teorica si è sempre mossa all’interno del pensiero marxista. Il suo primo libro fu Capitalisme financier public, pubblicato nel 1965, con il sottotitolo Influence économique de l'État en France (1948-1958) che analizza criticamente il ruolo economico dello Stato in Francia dal 1948 al 1958. A partire da questo testo, anche se l’argomento non rappresenta l’argomento principale, de Brunhoff approfondisce la tematica della moneta in Marx e nel 1967 pubblica il testo più famoso La monnaie chez Marx (1967), tradotto in italiano da Editori Riuniti.
È forse nel campo della teoria della moneta che le difficoltà dovute al mancato completamento dell'opera fondamentale di Marx, Il Capitale, sono le più grandi. L’approccio di De Brunhoff ha il merito di colmare questa lacuna.
La teoria monetaria di Marx ha due punti fondamentali. In primo luogo, la moneta è una variabile endogena che dipende dal livello di attività e di accumulazione del sistema capitalistico di produzione. In secondo luogo, Marx riconosce come centrale e caratteristica del capitalismo la funzione creditrice della moneta, a cui dedica l’intera Sezione V del Libro III de Il Capitale.
È interessante notare che Marx si avvicina all’analisi della moneta partendo dal concetto di denaro, confermando il fatto che sono i filosofi a occuparsi del denaro e gli economisti di moneta. Infatti, nella prima sezione del Libro I de Il Capitale, invece di partire dalla moneta così come funziona nell'economia capitalistica, Marx si occupa della moneta nella sua forma più astratta, ma anche la più semplice; del denaro allo stato (si potrebbe dire) «puro», e quindi privo delle sue determinazioni capitalistiche. È invece nel Libro II e soprattutto III de Il Capitale che Marx, non senza qualche contraddizione, studia le funzioni della moneta in un contesto capitalistico, sviluppando un’analisi prettamente economica.
L’approccio filosofico al denaro è già presente negli scritti giovanili di Marx, in particolare nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, dove viene analizzato il ruolo astratto ma allo steso tempo sociale del denaro come strumento di alienazione:
Il denaro, possedendo la caratteristica di comprar tutto, di appropriarsi di tutti gli oggetti, è dunque l'oggetto in senso eminente. L'universalità di questa sua caratteristica costituisce l'onnipotenza del suo essere; è tenuto per ciò come l'essere onnipotente... il denaro fa da mezzano tra il bisogno e l'oggetto, tra la vita e i mezzi di sussistenza dell'uomo. (…) Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo, Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne. E quindi io non sono brutto, perché l'effetto della bruttezza, la sua forza repulsiva, è annullata dal denaro. Io, considerato come individuo, sono storpio, ma il denaro mi procura venti quattro gambe; quindi non sono storpio. Io sono un uomo malvagio, disonesto, senza scrupoli, stupido; ma il denaro è onorato, e quindi anche il suo possessore. Il denaro è il bene supremo, e quindi il suo possessore è buono; il denaro inoltre mi toglie la pena di esser disonesto; e quindi si presume che io sia onesto. Io sono uno stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di tutte le cose; e allora come potrebbe essere stupido chi lo possiede? Inoltre costui potrà sempre comperarsi le persone intelligenti, e chi ha potere sulle persone intelligenti, non è più intelligente delle persone intelligenti? Io che col denaro ho la facoltà di procurarmi tutto quello a cui il cuore umano aspira, non possiedo forse tutte le umane facoltà? Forse che il mio denaro non trasforma tutte le mie deficienze nel loro contrario?[2]
L’esistenza del denaro implica l’esistenza di relazioni umane ed è indipendente dalla forma che può storicamente assumere (la forma della moneta) e tali relazioni umane possono essere di diversa natura, da cooperative a gerarchiche. Ne consegue che il denaro è un indicatore dei rapporti sociali esistenti, ovvero definisce un rapporto di potere. E la moneta, in quanto rappresentazione storicamente determinata del denaro, definisce anch’essa un rapporto di potere.
Se il denaro è connaturato con l’essenza umana, la moneta è un’invenzione umana. La moneta non cresce sugli alberi. La moneta ci dimostra che l’essere umano è un animale sociale. La moneta è socialità, è, soprattutto, relazione sociale. La moneta è la dimostrazione dell’esistenza di una comunità, perché la moneta è frutto di un rapporto di fiducia. Ma la moneta è, soprattutto, potere. Potere di decisione, potere di arbitrio.
Nell’introduzione alla raccolta di scritti sulla moneta e il credito di Marx[3], Suzanne De Brunhoff scrive che per Marx:
la moneta è un «rapporto sociale», non semplicemente tecnico né semplicemente economico[4]
Nei suoi scritti sulla moneta in Marx, Suzanne De Brunhoff ricostruisce il dibattito sulla moneta ai tempi di Marx, soprattutto in merito alla riforma della Banca d’Inghilterra del 1844 (Bank Charter Act). Tale riforma concede alla Banca Centrale inglese il quasi-monopolio della emissione dei biglietti di banca, il cui ammontare, tuttavia, deve essere pari alla quantità d’oro detenuta dalla banca stessa. Le riserve auree vengono divise tra due dipartimenti: il dipartimento di emissione, preposto al governo della circolazione complessiva con una parità aurea fissa (regola del gold standard), e il dipartimento bancario, a cui spettano solo le operazioni di credito.
Come ricorda De Brunhoff:
La separazione nei due dipartimenti deve permettere, nell’idea dei riformatori, il controllo del circolante senza intervenire sulle operazioni di credito della banca. Ma il problema sta nel capire quale portata abbia una tale separazione, problema, questo, connesso con quello della natura dei biglietti emessi, puri segni d’oro o moneta di credito[5]
All’epoca, su questi problemi, si contrapponevano due scuole di pensiero, dal nome già indicativo: la Currency School che sostiene questa separazione e la Banking School che invece la critica.
Senza entrare nel dettaglio della discussione, possiamo dire che la prima scuola era propensa a ritenere che la quantità di moneta fosse una variabile esogenamente determinata dalla quantità di oro detenute nelle riserve della Banca Centrale. Da tale quantità dipendeva poi la dinamica delle altre variabili economiche, a partire dai prezzi e dal reddito. È da questo approccio che si svilupperà successivamente la teoria della moneta di Irvin Fisher, all’origine della moderna teoria quantitativa della moneta, secondo la quale vi è perfetta dicotomia tra sfera monetaria e sfera reale dell’economia. Di conseguenza, qualunque variazione dell’offerta di moneta, esogenamente decisa dalla Banca Centrale (sulla base delle riserve auree) può avere effetto solo sul livello dei prezzi, lasciando invariato il reddito nazionale e l’occupazione. La moneta è così una variabile neutrale, la cui funzione è semplicemente quella di intermediario degli scambi, secondo la nota formula M-D-M (Merce-Denaro-Merce). Troviamo qui l’origine del pensiero monetarista che sta anche alla base della costruzione del sistema monetario europeo, dell’euro e della BCE.
Se, dunque, come scrive De Brunhoff:
si può dire che la Currency School e indicativa di un orientamento «monetarista», mentre la Banking School di una corrente più preoccupata dal problema del finanziamento, nel senso che se la prima auspica una disciplina sull’emissione di moneta come rimedio agli squilibri che si ripercuotono sui prezzi, l’altra prende avvio dalle esigenze finanziarie proprie dell’attività economica e commerciale per valutare l’organizzazione della Banca Centrale [6].
Marx è un sostenitore dell’endogeneità della moneta. È tale caratteristica a essere uno dei punti di rottura dell’avvento del sistema di produzione capitalistica. Nel I capitolo del libro II de Il Capitale (intitolato: «Il ciclo del capitale monetario»), Marx descrive il funzionamento del capitalismo come economia monetaria di produzione, D-M-D’ (Denaro-Merce-Moneta). L’endogeneità della moneta dipende proprio dalla funzione creditizia che essa svolge come anticipazione necessaria per l’avvio del processo di accumulazione. Non c’è accumulazione senza indebitamento, una regola che ancora oggi l’economia mainstream fa fatica a riconoscere.
Pur non condividendo tutti i principi della Banking School, Marx, tuttavia, adotta la critica mossa alla Currency School,
inserendola in un dibattito più ampio, che egli conduce principalmente in tre direzioni: la critica al riformismo monetario dei socialisti proudhoniani; l’esame critico del «sistema mercantilistico»; il rifiuto della concezione quantitativa della moneta adottata da Ricardo dopo Hume[7].
Non è il caso qui di ripercorrere questa linea di ricerca. Ci basta ricordare che per Marx il credito è un fattore di instabilità in quanto può condizionare la produzione di plusvalore ma non intacca le ragioni che stanno alla base dello sfruttamento (critica a Proudhon).
Ma la moneta preesiste al capitalismo, nella sua funzione di intermediario degli scambi e unità di valore. Il rapporto tra la moneta e il valore è il suo essere «equivalente generale». Qui Marx riconosce la moneta come moneta merce, che ha un rapporto con una merce particolare (oro) che ne determina l’unità misura. Non è un caso che la moneta nasce metallica come unità di peso, in grado di determinare il valore intrinseco nella moneta stessa (ad esempio, tot grammi di oro). È uno scambio tra equivalenti.
È questa, tra gli altri, la posizione di David Ricardo: la moneta viene solo considerata come una merce che funge da mezzo di circolazione per le altre merci di cui è segno di valore. Questa posizione viene criticata da Marx (anche se non completamente rigettata) perché tale funzione, pur rimanendo anche nel sistema capitalistico, non è più adeguata alle stesse necessità del capitalismo, che non può essere descritto come una società «mercantilista».
2. La moneta segno
L’analisi del pensiero sulla moneta di Marx dopo il primo contributo di Suzanne De Brunhoff del 1967 riprende vigore dopo la decisione storica di Nixon di sancire l’incontrovertibilità del dollaro in oro il 15 agosto 1971, che ha segnato la fine del sistema monetario di Bretton Woods. Il merito è della rivista Primo Maggio che nel n. 1 del 1973 pubblica un articolo di Sergio Bologna dal titolo già assai esplicito Moneta e crisi: Marx corrispondente per a «New York Daily Tribune».[8]
Scrive Stefano Lucarelli:
Il gruppo (sulla moneta della rivista «Primo Maggio», ndr.) doveva ancora essere costituito, ma è significativo che sin da subito la rivista si ponga il problema delle crisi monetarie. Il Marx letto da Sergio Bologna rappresenta un passaggio necessario per leggere la crisi economica dei primi anni Settanta[9]
Il gruppo[10] a cui Lucarelli si riferisce è la costituzione di un gruppo di ricerca sul tema della moneta che a partire da quell’articolo comincia a lavorare in modo fecondo con la pubblicazione di alcuni articoli già a partire dal 1974. Ricorda Lapo Berti:
Nacque così, all’interno di «Primo Maggio», il «gruppo sulla moneta», in cui si raccolsero e si incrociarono percorsi di ricerca e insofferenze politiche, dando luogo a un lavoro collettivo molto aperto e creativo, in cui ciascuno cercava di portare quegli che gli sembravano i punti di vista più innovativi e promettenti, spesso niente di più che spunti e intuizioni allo stato grezzo, ma che avevano il pregio di nascere dall’osservazione disincantata della realtà sociale e della dinamica dei conflitti.[11]
La tematica principale riguarda l’analisi della nuova fase monetaria apertasi con il crollo del sistema di Bretton Woods e della parità tra dollaro e oro. Il valore della moneta, per la prima volta nella storia, si smaterializza del tutto e non ha più un legame certo con una merce fisica. La moneta diventa «puro segno». Ciò significa che viene meno l’unità di misura del valore, o, meglio, tale unità di misura non è più stabile ma diventa aleatoria. È l’inizio dell’egemonia dell’attività speculativa prima nel mercato delle valute, poi in quello creditizio e successivamente in quelli finanziari (a partire dai titoli di debito pubblico).
Il primo articolo in materia, dopo quello iniziale di Sergio Bologna, è Denaro come Capitale, frutto di una discussione collettiva, pubblicato a firma di Lapo Berti e tratta della crisi del dollaro come valuta di riferimento internazionale, proprio a seguito del venir meno della parità aurea.
Lo schema teorico di riferimento, da un lato, fa riferimento alla tradizione autonoma marxista dell’operaismo italiano degli anni ’60 in contrapposizione a una lettura schematica e rigida di Marx[12], dall’altro, partendo dal concetto che l’economia capitalistica è un’economia monetari di produzione, intende analizzare il rapporto che intercorre tra il divenire capitale del denaro per finanziare la produzione (e trasformarsi in capitale produttivo) con l’acquisto della forza-lavoro. La premessa è quindi come scrive lo stesso Berti, che:
la moneta mette la socialità insita nella propria funzione (ovvero, l’essere un rapporto sociale, ndr) a disposizione del controllo che il capitale sociale esercita sugli antagonismi che fondano il processo di produzione[13].
Il sistema di Bretton Woods, centrato sull’ordine economico mondiale garantito dalla parità aurea controllata dalla Federal Reserve, creava quella cornice di stabilità nell’ambito della circolazione del denaro su scala capitalistica internazionale in grado di mantenere elevato il processo di accumulazione e il controllo della composizione internazionale del lavoro. Possiamo aggiungere che di fatto garantiva la funzione di equivalente generale alla moneta, definendo la sua unità di misura valoriale: 1$ valeva 35 once d’oro.
Ma cosa succede ora, che tale unità di misura è saltata? Se prima era la Banca Centrale Usa a stabilizzarla, ora chi è, su scala globale, in grado di definire e plasmare una nuova convenzione di misura del denaro, in presenza di pura moneta segno?
È questo il problema principale che viene analizzato dal gruppo sulla moneta, ovvero definire la nuova geografia del potere economico capitalistico. Il crollo di Bretton Woods ha dimostrato che il dollaro come valuta di riferimento internazionale era entrato in una crisi strutturale. Una crisi che il potere economico Usa non si poteva permettere, perché metteva a rischio la sua egemonia militare-industriale.
Ne è conseguita pertanto una profonda metamorfosi della funzione e del modus operandi della moneta. La prima rottura è stata la fine di un sistema monetario internazionale imperniato su cambi fissi. In questo quadro, non più vincolata a garantire la parità aurea, la politica monetaria poteva svolgere nuovi compiti, grazie ad una maggiore «manipolabilità» della moneta con finalità più o meno dichiaratamente politiche. L’offerta di moneta, emessa in condizione di monopolio dalla Banca Centrale, diventava una variabile interamente manovrabile come uno dei principali strumenti di governo dell’economia capitalistica, se non il principale. La moneta era diventata un’istituzione ad alta valenza politica, usata per intervenire direttamente nel regime dei rapporti di forza fra le classi.
Nel momento stesso in cui la moneta diventa puro segno, aumentano i gradi di discrezionalità nel suo comando sull’economia e nel controllo dei conflitti sociali che potevano (come stavano facendo) influenzare negativamente il processo della produzione industriale e, soprattutto, l’andamento dei profitti. In altre parole, la politica monetaria diventava uno strumento di controllo della distribuzione del reddito a salvaguardia dei livelli di profitto e, quindi, a favore delle imprese.
Questa posizione non è stata immediatamente compresa. Suzanne De Brunhoff in un articolo pubblicato su «Politique aujourd’hui», maggio-giugno 1975[14],
coglieva impietosamente i punti deboli e le lacune contenuti in Denaro come capitale per contestare un’impostazione che, pur nelle sue insufficienze, considerava, evidentemente, interessante e stimolante, tanto da meritare una confutazione[15].
Da un lato la economista francese criticava il fatto che la nozione di moneta elaborata dal gruppo di Primo Maggio non era sufficientemente chiara e definita, dall’altro di non riconoscere che il denaro è equivalente generale e tutte le altre funzioni sono secondarie rispetto a questa proprietà. Secondo De Brunhoff, facendo ciò, si rischiava di cadere nelle sirene del monetarismo, assecondando l’idea di una politica monetaria autonoma e neutra.
Ma l’intuizione di un uso politico della politica monetaria verrà confermata dai decenni successivi, aprendo la questione di chi controlla l’emissione di moneta, ora che le Banche Centrali non possono più basarsi su una parità aurea come unità di misura convenzionale. Detto in termini keynesiani, quale potere politico è in grado di definire quelle convenzioni monetarie e sempre più finanziarie che oggi definiscono il valore della moneta?
3. Oggi.
Il dibattito sulla moneta del gruppo di Primo Maggio non è poi tanto dissimile da quello della metà dell’Ottocento, ricordato da Marx, tra Currency e Banking School. In fin dei conti, il pomo della discordia riguarda ancora la funzione politica della moneta e gli assetti di potere che ne conseguono.
Il capitalismo taylorista-fordista del secolo scorso è stata la compiuta espressione di un’economia monetaria di produzione, dove il ruolo della moneta era essenzialmente quella creditizia. Nei Trent’anni Gloriosi (1945-75), il sistema delle banche (Banca Centrale più banche di credito ordinario) governava le modalità di finanziamento degli investimenti, decidendo quanta moneta creare, e, allo stesso tempo, garantiva la stabilità del mercato delle valute. I mercati finanziari svolgevano un ruolo residuale, di semplice riallocazione di moneta già esistente tra gli agenti economici strutturalmente in disavanzo (Stato e imprese) e agenti in avanzo finanziario (famiglie e banche). La Banking School aveva preso il sopravvento!
Con la fine di Bretton Woods siamo passati ad un’economia finanziaria di produzione. Il rapporto tra credito e finanza, o meglio, tra credito e speculazione finanziaria, si è rovesciato. Ora sono i mercati finanziari, sempre più concentrati e controllati da poche grandi istituzioni multinazionali, a dettare le convenzioni speculative che decidono i flussi di investimento (grazie agli hedge fund e ai fondi di investimento), intervengono nella distribuzione del reddito (grazie alle plusvalenze) e sempre più svolgono servizi di sussidiarietà sociale privata e selettiva (dai fondi pensioni a quelli sanitari, ecc.) in presenza dello smantellamento dello stato sociale.
Il ruolo centrale della speculazione finanziaria come motore dell’accumulazione del capitalismo contemporaneo si è oramai affermato. Se dopo la fine di Bretton Woods, le istituzioni monetarie, con l’adozione di politiche monetariste prima e di austerity poi, avevano cercato di creare aree monetarie ottimali, che garantissero tassi di cambio stabili sotto il comando del dollaro, oggi il ruolo delle Banche Centrali e, più in generale, del sistema bancario è del tutto subordinato e dipendente dalle dinamiche speculative dettate dalle convenzioni dominanti.
Può sembrare che la Currency School abbia avuto la sua rivincita. Ma più che di Currrency School dovremmo parlare di Financial School.
Note [1] R. Bellofiore, Un ricordo di Suzanne de Brunhoff, in Sbilanciamoci, 29 marzo 2016: https://sbilanciamoci.info/un-ricordo-di-suzanne-de-brunhoff/ [2] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844.Terzo Manoscritto: Il denaro in K.Marx, Opere filosofiche giovanili, trad. di G. Della Volpe, Ed. Rinascita, Roma 1950, pp. 286 e 287-88 (disponibile in rete: https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/2/Manoscritti/denaro.html [3] K. Marx, La moneta e il credito, introduzione a cura di S. De Brunhoff e P. Ewenczik, Feltrinelli, Milano, 1981 [4] Ibidem, p. 9 [5] Ibidem, p. 11. [6] Ibidem, p. 13. [7] Ibidem, p. 13. [8] S. Bologna, Moneta e crisi: Marx corrispondente per a «New York Daily Tribune», in Primo Maggio, n. 1, giugno settembre 1973, pp. 1-16 https://www.autistici.org/operaismo/PrimoMaggio/La%20rivista /Primo %20 Maggio%20%231.pdf. Per un’analisi critica molto accurata si veda anche S. Lucarelli, Sentieri interrotti: il lavoro di Primo Maggio sulla moneta, in C. Bermani (a cura di), La rivista Primo Maggio (1973-1989), DeriveApprodi, Roma, 2010, pp.111-137. [9] Ibidem, p. 113-114. [10] Fanno parte del nucleo originario Andrea Battinelli, Lapo Berti, Sergio Bologna, Franco Gori, Christian Marazzi, Mario Zanzani nel periodo 1974-78. Per un certo periodo vi parteciparono anche Fabio Arcangeli, Marcello Messori, Serena Di Gaspare e Roberta Bertolini. Si veda nota 5, ibidem, p. 112. [11] P.Davoli, L. Rustichelli (a cura di), Marx, moneta e capitale nel dibattito della sinistra marxista italiana e francese ai tempi dell’Anti-Edipo. Intervista a Lapo Berti, in Effimera, 6 dicembre 2016: http://effimera.org/marx-moneta-capitale-nel-dibattito-della-sinistra-marxista-italiana-francese-ai-tempi-dellanti-edipo-paolo-davoli-letizia-rustichelli/ [12] Ricorda, al riguardo, Lapo Berti: «Credo che in molti di quelli che più attivamente parteciparono all’elaborazione teorica della prima fase di “Primo Maggio”, sicuramente in me, si agitasse un’inquietudine generata dalla crescente consapevolezza dei limiti che erano posti alla comprensione del presente dal rimanere confinati entro il perimetro dell’ortodossia marxista, con il sostanziale rifiuto di confrontarsi con i punti di vista e le analisi elaborati dagli avversari. La formazione culturale dei militanti avveniva, per lo più, tramite la frequentazione ossessiva dei sacri testi del marxismo, non sempre di eccelsa qualità teorica, a parte quelli di Marx e alcuni di Lenin. Era inevitabile l’inclinazione all’ortodossia, perché quello era l’unico metro di paragone. Questo generava, almeno, in alcuni, un senso di asfissia, alleviato, per quanto mi riguarda, solo dall’esperienza innovatrice del primo operaismo». Ibidem. [13] L. Berti, Denaro come capitale, Primo Maggio, n. 5, primavera 1975, citato in S. Lucarelli, Sentieri interrotti: il lavoro di Primo Maggio sulla moneta, in C. Bermani (a cura di), La rivista Primo Maggio (1973-1989), DeriveApprodi, Roma, 2010, p. 119. [14] Articolo che verrà ripreso e pubblicato in italiano su Primo Maggio: S. De Brunhoff, Punti di vista marxisti sulla crisi monetaria, Quaderno n. 2 di Primo Maggio, Supplemento al n. 12, 1978, pp. 35-39. [15] Sono le parole di Lapo Berti nell’intervista di P.Davoli, L. Rustichelli (a cura di), Marx, moneta e capitale nel dibattito della sinistra marxista italiana e francese ai tempi dell’Anti-Edipo. Intervista a Lapo Berti, in Effimera, 6 dicembre 2016: http://effimera.org/marx-moneta-capitale-nel-dibattito-della-sinistra-marxista-italiana-francese-ai-tempi-dellanti-edipo-paolo-davoli-letizia-rustichelli/
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Andrea Fumagalli è docente di economia all’Università di Pavia. È stato fondatore della rivista «Altreragioni». Con Sergio Bologna ha curato Il lavoro autonomo di seconda generazione (Feltrinelli, 1997). Altri suoi lavori sono: Bioeconomia e capitalismo cognitivo (Carocci, 2007) e La moneta nell’impero (insieme a Christian Marazzi e Adelino Zanini, ombre corte, 2002). Per DeriveApprodi ha pubblicato Economia politica del comune (2017) e Valore, moneta, tecnologia (2021).
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