Estratto da Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio
È finalmente disponibile in libreria e sul sito machinalibro.com Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio, prima tappa editoriale del percorso di costruzione di cartografia dei decenni smarriti che la redazione di Machina sta portando avanti. Il volume sistematizza infatti i contributi del Festival 6 di DeriveApprodi Il decennio Ottanta: i sentimenti dell'aldiqua, svoltosi a Bologna dal 9 all'11 giugno 2023 e contiene gli scritti di Jadel Andreetto, Rudi Ghedini, Manuela Gandini, Giorgio Mascitelli, Federico Battistutta, Adelino Zanini e Mario Tronti, Massimo Ilardi, Roberto Ciccarelli, Paolo Virno, Marco Mazzeo ed Adriano Bertollini, Chiara Martucci e Bruna Mura, Ubaldo Fadini, Rita di Leo, Romeo Orlandi, Christian Marazzi.
Pubblichiamo oggi il primo testo che appare sul libro, che analizza la musica del decennio.
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Ehi, tu
«Ehi, tu. Sì, tu. Come va la sbornia da anni Settanta? Devi ancora smaltirla, eh? I postumi sono tremendi lo so. Nausea, emicrania, bruciore di stomaco, diarrea: i quattro cavalieri dell’ebbrezza. Eppure il decennio sembrava andare giù che era un piacere. Hai pure seguito la regola aurea di aumentare la gradazione. Sei partito con il vino californiano della West Coast, una sciacquatura di piatti a base di hippy innamorati del country, un mosto d’uva cresciuta sotto il sole tra i canyon. Qualche goccia di acido lisergico nella botte, ma nulla di preoccupante. Poi sei passato allo sherry. Roba più robusta, ma pur sempre liquore da casa di riposo. Troppo blues, troppi assoli. Finisce che ti si cariano i denti. Meglio un amaro. Di quelli distillati a Detroit. Working class e no fun. Meglio, molto meglio, ma la testa comincia a girare, la pancia a gorgogliare. Un salto in uno speakeasy a New York prima di buttarsi nelle peggiori distillerie di Londra, non lo vuoi fare? Hey ho, let’s go. A questo punto non capisci più un cazzo. È tutto un casino. Biasc… sciab… sbiascia… sbiascichi Rama Lama Fa Fa Fa… ma no, quella è di nuovo Detroit e tu sei così annoiato dagli Usa. Ehi, barista con la cresta! Versa qua. Devo festeggiare con degli australiani tamarri la mia festa di compleanno al Bat Cave, che poi è un attimo. Ti riempiono il bicchiere di alcol a uso industriale, te lo rigiri tra le mani, per fortuna il rumore che esce dalla casse è così devastante che manda in frantumi il vetro. Bestemmi sul metanolo versato, quando un vampiro asessuato ti offre un Bloody Mary. Malinconico, ma buono. E naturalmente scocca la mezzanotte. Il decennio è finito. Ora di tornare a casa. Mal di testa e al piano di sopra corrono da una stanza all’altra. e mai che si mettano le pantofole ‘sti parvenu. Che ho fatto per meritarmi questo? Lo giuro, se mi passa la sbronza, non ascolterò mai niente che superi il 1979. Mai.
Dicono tutti così.
Ehi, mi senti? Anzi, le senti? Sono scariche elettrostatiche. Sono gli anni Ottanta. Sembrano orribili, ma. Lascia che ti racconti due cose in fretta e furia. Ci ho messo una quarantina di minuti dal vivo, il doppio di un concerto di una band no wave, e quella che segue infatti è una registrazione live. Ti chiedo solo un favore: quando nomino una band, oltre ad ascoltarla, vai a vedere una foto ché il decennio in questione, checché se ne dica, aveva molta sostanza, ma la forma era importante, anzi la forma era parte della sostanza. la forma era la sostanza. Bon, basta con le stronzate, per citare il disco peggiore dei Clash. Partiamo».
Punk is dead
Quando mi hanno chiesto di raccontare la musica degli anni Ottanta, ho deciso di restringere il focus e concentrarmi sul rock nelle sue varie declinazioni. Nel 1980 il punk era già finito, vittima di una morte in culla. Ed è stato uno dei decessi più proficui della storia della musica.
Negli anni Settanta il rock era diventato ipertrofico. Da un lato c’era la deriva del prog, con i suoi musicisti dotatissimi, virtuosi, a volte formati nei conservatori, che avevano trasformato le canzoni in complesse suite poliritmiche e si erano allontanati dallo spirito popolare dei primordi. Suonare quel tipo di musica non era facile e per chiunque volesse imbracciare uno strumento poteva rivelarsi disarmante. Ci volevano tempo e dedizione e quindi denaro. Dall’altro c’erano i gruppi hard rock dei primi anni Settanta, che dallo status di divinità stavano passando a quello di dinosauri in via di estinzione, come i Led Zeppelin. C’è un filmato di un concerto degli Yes di fine decennio che riassume alla perfezione quel clima da crepuscolo degli dèi. I membri della band si presentano sull’enorme palco lontano dagli spettatori, sono coperti di lustrini e paillettes, indossano mantelli argentati e sono attorniati da costosissimi sintetizzatori, muri di tastiere, batterie gargantuesche. La loro esibizione non ha alcun contatto con la realtà che li circonda. I ragazzi più giovani sotto il palco sono pochi, squattrinati, disperati, pieni di livore e non si rispecchiano più in quella roba. Si guardano attorno e sono circondati dai loro fratelli maggiori, una manica di vecchi bacucchi over 25 che conoscono i nomi di tutti i personaggi del Signore degli Anelli, portano ancora i capelli lunghi e tendono al crumiraggio, che poi l’auto chi la paga?
Il rock è prettamente anglofono. In tutto il mondo si fa rock, ma è innegabile che per varie ragioni quando qualcosa si muove, lo fa prima negli Stati Uniti e in Gran Bretagna (o, al limite, nel Commonwealth) e in quel momento la situazione sociopolitica dei due paesi era una pentola a pressione. Reagan e la Thatcher sono pronti a inaugurare due «ismi» che porteranno il loro nome e segneranno per sempre la storia del decennio a venire. I giovani della working class hanno voglia di suonare, ma come? Non possono permettersi né l’attrezzatura né le lezioni di chitarra, non sanno scrivere testi fantasy perché c’è poco da volare con la fantasia se lavori in fabbrica o se non lavori affatto. Hanno voglia di salire sul carrozzone del rock, ma non possono. Non gli resta che menare le mani. Ed ecco che arriva il punk e spazza via tutto. In un secondo. Mentre gli Yes si gingillano con la new age e i Led Zeppelin flirtano con i synth, nel 1977 i Sex Pistols sono pronti a sfornare Never Mind the Bollocks. Il 26 novembre il singolo Anarchy in the UK segna l’inizio formale di quel genere che il giornalismo musicale postumo ha battezzato senza troppa fantasia punk 77.
In realtà il (proto) punk, figlio della scena garage, aveva già cominciato a scalciare nei locali di Ann Arbor e Detroit tra la seconda metà degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo con Stooges e MC5 e in alcuni sordidi club di New York con Neon Boys, New York Dolls e Ramones, ma quando atterra in Inghilterra assume la sua celebre connotazione estetica e politica che lo farà diventare un fenomeno musicale e di costume globale. Chiunque può imbracciare uno strumento e salire sul palco, chiunque. E se non ha i soldi per una chitarra elettrica, in qualche modo se la procurerà e chi se ne frega se è una roba da 20 sterline o da 3000. Tre accordi, quattro quarti, tanta rabbia e via a tutta velocità. I due gruppi più famosi li conoscete tutti: Sex Pistols e Clash. Il resto, come si suol dire, è storia e a tratti cronaca nera. In meno di due anni la scena si incenerisce da sola, implode, le band si disintegrano o cambiano totalmente direzione. La vulgata descrive spesso gli anni Ottanta come un decennio piuttosto fiacco che ha prodotto poco o nulla, due lustri di vuoto pneumatico alimentato dall’edonismo e dalla leggerezza a tutti i costi. E invece tra il 1979 e il 1989 succede di tutto e la scena musicale rinasce dopo la morte del punk che ha portato con sé nella tomba i brontosauri e aperto nuovi orizzonti. Ora che tutti possono suonare, tutti possono sperimentare.
Dalla a alla zeta
Ed eccoci al punto di partenza: suoni, rumori, musiche e devastazioni di un decennio a rotta di collo. Un paio band alla volta da confrontare alla velocità della luce dalla A alla Z.
ABC e Zeni Geva sono l’ideale alfa e omega di questa cavalcata, sono gruppi molto diversi tra loro dal punto vista sonoro ed estetico, eppure nascono entrambi dal punk. A vederli sembra impossibile, eppure gli ABC sono uno di quei gruppi che rispondono a un’urgenza primordiale, all’urlo lacerante della classe operaia che sfocia in rabbia e brucia rapido. Tutti i membri della band provengono dalla scena e alcuni di loro erano presenti al primo famigerato concerto dei Sex Pistols, assieme a Siouxise e i suoi Banshees, e a molte altre persone che di lì a poco avrebbero marchiato a fuoco la storia della musica inglese e non solo. Gli ABC sono convinti, e non sono gli unici, che il riscatto della working class debba avvenire attraverso una trasformazione e sposano un’idea che oggi potrebbe sembrare bislacca, ma che in seguito ha avuto varie ripercussioni: presentarsi sul palco in smoking, elegantissimi, freschi di sarto e parrucchiere. Per la band di Sheffield si trattava di dimostrare che anche attraverso quell’immagine patinata la classe operaia aveva qualcosa da dire, anzi, che fosse proprio attraverso quell’immagine da bravi ragazzi che poteva davvero farsi sentire ed essere presa sul serio. Era uno strano patinato ritorno a un certo immaginario mod, ma senza violenza ctonia. All’epoca si pensava che lo Zeitgeist avesse essiccato l’aspetto romantico della musica. Gli ABC non fecero altro che portare alle estreme conseguenze il concetto che il punk dovesse sovvertirsi di continuo per per non restare impantanato nel canone e venire meno alle sue istanze «rivoluzionare»: da un lato sposarono l’estetica dandy e dall’altro, grazie all’avvento di sintetizzatori più economici, lasciarono perdere le chitarre distorte e cominciarono a comporre canzoni melense al limite del cariogeno. Ad ascoltarli oggi fanno venire il latte alle ginocchia, che manco Sanremo, ed è incredibile che provenissero dallo stesso calderone da cui uscirono Exploited e Crass. Gli ABC non furono i soli a discendere questo tipo di crinale e assieme a loro all’inizio degli anni Ottanta dai sobborghi operai inglesi spuntarono moltissimi act cosiddetti «new romantic» come i Duran Duran e gli Spandau Ballet.
Rumore
Se da un lato il punk fa un doppio avvitamento carpiato con un gesto punk e si incarna negli ABC, dall’altro si radicalizza, come nel caso del gruppo anglo-giapponese Zeni Geva. Al contrario del movimento «new romantic» e del punk 77, il look non conta più nulla (o forse conta il fatto che non conti): una maglietta e un paio di pantaloni beige. Il fulcro della questione è il suono, solo il suono, ed è estremo, devastante. Se ci sono band che cominciano a sperimentare con i sintetizzatori che stavano diventando più economici e abbordabili, ce n’erano moltissime che continuavano imperterrite a cimentarsi nell’uso di basso, chitarra e batteria, ma allontanandosi tantissimo dalla matrice che, in fondo, era solo un po’ di rock’n’roll «suonato veloce e male». Fino agli anni Settanta se volevi darti al prog o a certo hard rock dovevi sviluppare una tecnica notevole, l’avvento del fenomeno musicale del ’77 diede a tutti l’opportunità di salire sul palco. Il bassista più famoso della storia del genere, Sid Vicious, non sapeva suonare il basso; non l’ha suonato nel disco dei Pistols e dal vivo gli staccavano la spina. Più punk di così, in effetti, non si può. Gli Zeni Geva aprirono la strada al genere spigoloso noto semplicemente come noise. La band, al contrario di molti loro contemporanei, sapeva suonare, eccome, ma non era interessata alle complessità della composizione, lo era a quelle del rumore. Rumore è la parola d’ordine per un’intera generazione di musicisti che a diverse latitudini stanno emergendo dal sottosuolo. Berlino era diventata uno dei centri nevralgici della cultura internazionale, tanto da aver attratto Iggy Pop, Lou Reed, David Bowie, Nick Cave in transizione dai Birthday Party ai Bad Seeds, i futuri Cccp. In città c’è una band locale di cui tutti vanno matti, gli Einstürzende Neubauten. Hanno la sala prove in una cavità sotto l’autostrada, non hanno gli strumenti e usano quello che trovano nei cantieri e nelle strade: martelli pneumatici, trapani, bidoni della spazzatura, carrelli della spesa. I loro concerti sono devastanti. Un esorcismo della società contemporanea vista come una macchina impazzita, completamente industrializzata, in cui l’individuo viene schiacciato anche dai rumori che produce. I Neubauten trasformano quei rumori in poesia, in canti d’amore delle ruspe e dei sassi[1], e i loro primi live sono un assalto terroristico al cielo. Il nome della band si può tradurre come «nuovi edifici che crollano», laddove i «nuovi edifici» erano i casermoni costruiti a Berlino Est negli anni Ottanta dalla DDR in puro stile socialismo reale ed erano talmente fatti male che cadevano a pezzi. Anche loro erano figli del punk come gli Zeni Geva, ma in questo caso non saper suonare e farlo con il materiale prodotto dalla «civiltà» industriale era un modo di far esplodere sul palco le contraddizioni sociali dell’epoca.
Guns (n’ roses) of brixton
Mentre in Europa si sperimenta con il guardaroba e il rumore, negli Usa la voglia di divertimento serpeggia. La scena californiana è antagonista, disperata, disillusa, scazzata e artistoide (Dead Kennedys, Germs, Black Flag, Circle Jerks, X), ma a Los Angeles c’è chi non ne vuole più sapere di impegnarsi o di mettere il muso. Il punk è un punto fermo, da lì non si può tornare indietro, quell’attitudine stradaiola e teppista ha attecchito troppo a fondo quando alcune band cominciano a riscoprire i dischi proto-punk dei New York Dolls, degli Heartbreakers di Johnny Thunders e si innamorano del glam e dell’hard rock più sguaiato e appariscente di T. Rex, Slade, Mott the Hoople, Sweet, Kiss e Alice Cooper, senza disdegnare i sempiterni Rolling Stones. La frittata è quasi fatta. Fin lì non è nemmeno troppo cattiva, ma quando l’industria discografica drizza le antenne, le cose precipitano, la lacca per capelli si spreca e nasce l’hair metal. Mtv apre i battenti nel 1981. In UK sono le band come i Duran Duran e soci a raccogliere i frutti della nuova industria videomusicale, ma negli Usa a infestare gli schermi ci pensano i Mötley Crüe, i Faster Pussycat e gli L.A. Guns con la loro miscela di punk, glam, hard rock e un pizzico di revisionismo southern il cui immaginario di riferimento sono i film porno, le motociclette, un certo romanticismo d’accatto e le risse del sabato sera negli strip club. Nel giro di pochi anni l’hair metal, nelle sue varie declinazioni tra cui lo sleaze rock più vicino allo spirito punk, e il nuovo AOR (adult o album oriented rock) più vicino al soft rock da casa di riposo, diventa un fenomeno globale. Avete presente i Guns N’ Roses e Bon Jovi, ecco.
Più o meno nello stesso momento, anche se sembra un altro universo, a Londra nascono i Public Image Ltd, il nuovo gruppo formato dall’ex cantante dei Sex Pistols. Fino a quel punto era stato il volto «ufficiale» del punk – occhi sgranati, denti sporchi, capelli sparati, movenze da psicopatico – ma con i PiL Johnny Rotten riprende il suo vero nome, John Lydon, e con i suoi sodali riesce a frullare tutte le vibrazioni che aleggiavano nell’aria: il reggae, il dub, i primi accenni di hip-hop, la new wave e un pizzico di pop. Il risultato è incredibile. «This is not a love song» è un pezzo alieno e il basso pulsante di Jah Wobble detterà il passo per molti anni a venire.
Ed ecco perché il focus di queste pagine è sul rock, perché è l’unico genere che mette insieme cose diametralmente diverse tra loro. L’hip hop era nato già dalla fine degli anni Settanta e si stava evolvendo, ma la sua traiettoria era più precisa, più dritta. Quando attingeva dagli altri generi lo faceva per ricondurli alla sua causa, «nella sua casa», ne faceva dei campioni, li trasformava in beat, li metteva al servizio del ritmo, come ai primordi con il krautrock. Eh, sì l’hip hop è nato in parte saccheggiando la musica tedesca. Chi l’avrebbe mai detto? Il rock, invece, fa un’operazione di tutt’altro genere, non trasforma, mescola. I Police, in fondo, sono un gruppo rock che fa reggae contaminato di pop, gli A Certain Ratio fanno funk gotico (!), il singolo più famoso dei Bauhaus è una bossanova per vampiri e i loro dischi sono infarciti di dub, per non parlare dei Clash di Sandinista!, il triplo del 1980 con il punto esclamativo in cui c’è tutto. Siamo agli albori del crossover. Non tutti gli incroci sono felici, ma meglio di quello che stava succedendo in ambito jazz con la fusion (lo sentite il brivido lungo la schiena?).
Girls, girls, girls
Tendenzialmente, il rock era un genere fatto dai maschi (bianchi) per i maschi (bianchi), machista, misogino e maschilista. Insomma, le aveva un po’ tutte e non è che i gruppi hair metal degli anni Ottanta, nonostante il rossetto e le tute di spandex, avessero fatto chissà che per smentirlo. Vince Neil non sembrava tanto interessato alle questioni di genere mentre cantava Girls Girls Girls, ma poi la vita non gli ha sorriso granché e ha perso una figlia. Le cose sono sempre più complesse di quello che sembrano. Il punk è uno dei primissimi generi in cui, salvo qualche caso negli anni precedenti come Grace Slick o Janis Jolplin (e, più tardi, le madrine del genere: Patti Smith, Joan Jett e Suzi Quatro) le donne sono in prima fila. X-Ray Spex, Slits, Raincoats sono tutte band che ci hanno regalato alcune delle cose più interessanti a cavallo della fine degli anni Settanta. Il lavoro delle Slits sull’ossatura del reggae e del dub in chiave punk è magistrale. La scena inglese dei gruppi formati da donne anticipa il movimento americano delle Riot grrrl di un decennio dopo, ma durante gli anni Ottanta negli Stati Uniti quando si parla di post punk e new wave non si può fare a meno di pensare ai Blondie e a Debbie Harry (tra i primi a sperimentare con il rap), che destrutturano la figura stereotipata della pin-up in un’icona punk con ironia, ma senza farne una caricatura. La carica sensuale della cantante è innegabile, Harry si presenta sul palco in tubino bianco con il tacco 12, ma è tutto tranne che un manichino. Dall’altra parte dello stagno, sotto il palco del fatidico concerto dei Pistols, c’è una ragazza di nome Susan, Susy per gli amici, anzi Siouxsie. Tra le innumerevoli direzioni intraprese dal post-punk c’è, come abbiamo visto, anche il ritorno a un certo romanticismo che da una parte esonda nel synth pop e dall’altra, stufo dell’impegno politico, preferisce una dimensione immanente, spirituale, sepolcrale e sfocia nel Bat Cave. La batcaverna è un locale londinese in cui si ritrovano i nuovi punk, i fratelli minori dei fratelli minori. Si vestono da vampiri, da zombi, da mostri dei film Universal, si imbrattano il viso di cerone bianco e si vestono solo di nero. Sembrano appena usciti da un racconto gotico. La stampa specializzata ci va a nozze e il genere ha un nome anche se ancora non esiste una scena musicale ben definita: goth, meglio noto in Italia come dark. La regina della scena è Siouxsie, che con il suo look ha dato l’imprinting a milioni di ragazze e ragazzi in tutto il mondo. Sul palco con lei ci sono i Banshees, formidabili e originalissimi mattatori di un suono che al punk unisce una languida psichedelia glam. A fare da spalla in tour a Siouxsie and the Banshees c’è una band formata da tre ragazzi(ni) immaginari, i Cure. Robert Smith, pronto a sfornare i tre capolavori che hanno dettato le regole del gioco del goth fino alla fine dei tempi, entra anche a far parte della band di Susan come chitarrista e già che c’è forma i Glove con il bassista Steven Severin e litiga a morte con Morrissey. La stampa è pronta a montare l’ennesimo caso di rivalità tra band tipicamente inglese, dopo i Beatles e i Rolling Stones le rotative sono pronte per i Cure e gli Smiths, ma è un fuoco di paglia e le fiamme non si sollevano.
Onde
Torniamo dall’altra parte. In Usa la nuova ondata musicale partorisce i B-52’s che alle pose solenni del goth preferiscono una colorata e colorita ironia. Cindy Wilson e Kate Pierson si rifanno all’iconografia delle pin-up, ma in modo completamente diverso da Debby Harry, la carica erotica viene disinnescata in favore di un’estetica camp, le due musiciste sembrano uscite da una strampalata sit-com un po’ lisergica. La band sembra la figlia illegittima dei Devo. Se a Londra l’atmosfera era cupa e tesa e le sonorità serrate e oscure, ad Athens si spalancano le finestre e si lascia entrare il sole in un’intelligente parodia sghemba del bubblegum pop degli anni Sessanta dalle venature surf amfetaminiche. Cercate una foto dei B-52’s e confrontatela con un’immagine qualsiasi dei Joy Division. Mettete sul piatto Rock Lobster e Transmission: l’anno è lo stesso, il 1978, la matrice anche, il post-punk, ma il pianeta è un altro.
I Joy Division, già. Gli scatti li ritraggono spesso in paesaggi industriali, stretti nei loro soprabiti sgualciti sotto la neve o la pioggia in un livido bianco e nero. Sono giovani della working class con Camus sul comodino e Bowie nel cuore, tre tifosi del Manchester e un genio, come disse qualcuno di loro. Il loro suono è tutto lì. Ian Curtis soffriva di epilessia e durante i live si muoveva come un automa in fabbrica, le luci e il rumore gli causavano degli attacchi sul palco che lo devastavano e mandavano il pubblico in tilt, ma giù dal palco viveva con la moglie e la figlia in una squallida casa di periferia e faceva un lavoro kafkiano all’ufficio di collocamento. Si è impiccato poco prima di partire per un tour americano. Gli altri tre hanno continuato a fare musica come New Order. la loro vicenda, forse, la conoscete, ma è la proverbiale altra storia. Se i Joy Division erano l’incarnazione della grigia Inghilterra operaia, all’altra estremità dello spettro britannico, fanno la comparsa dei gruppi come i Dexys Midnight Runners che fanno il verso al pop passando dalla new wave. Nelle foto promozionali i Dexys si presentano in un ambiente bucolico in salopette di jeans e con un filo di grano tra i denti. Eppure l’humus è lo stesso di Curtis e soci. Vengono tutti dal punk, ma Come on Eileen non è Love will tear us apart. Lì in mezzo c’è una distesa di possibilità e a metà strada fioriscono alcuni dei gruppi più importanti della storia del rock. I testi piuttosto cinici e surreali di Morrissey diventeranno degli inni per intere generazioni di adolescenti, gli U2, sempre più paraculi, sono destinati al ruolo di boy-scout dell’arena rock, mentre la classe operaia americana guarda a Springsteen, in particolare un bravo ragazzo un po’ belloccio di nome Giovanni Bongiovanni che da un po’ flirta con l’hair metal, ma viene da Sayreville in New Jersey, che non è Los Angeles. Il suo gruppo prende il nome da lui ed è destinato a sopravvivere a lungo, più di tutti gli altri astri luminosi del glam degli anni Ottanta che hanno infestato i palinsesti televisivi. Le sue canzoni non sono racconti di sesso spinto con delle pornostar sul sedile posteriore di una Mustang, ma storie d’amore di gente che non arriva a fine mese. Chi non ha mai canticchiato, anche per sbaglio, il ritornello di Livin’ on a prayer dei Bon Jovi alzi la mano.
Alla fine della fiera, sembra quasi che gli inglesi siano i raffinati della situazione. Ma la perfida Albione in quegli anni ci ha regalato anche delle perle come Adam and the Ants, una ciurma, è il caso di dirlo, capitanata da un altro belloccio che si presenta sul palco in tenuta da pirata della Disney. Il suono è interessante, ritmi tribali alimentati da due batterie, basso pulsante, chitarre affilate, riff accattivanti. C’è chi lo definì «Burundi rock». Poi vedi il video di Prince Charming e non sai se ridere o piangere. Ehi, sono le mie braccia quelle lì per terra?
Influssi e raffinatezze
E andiamo avanti con il nostro ping-pong. In UK in meno di un decennio gli Stone Roses passeranno dai garage di Manchester alle luci della ribalta di Madchester e della neo Summer of Love del 1989 assieme agli Happy Mondays e a un’altra manica di rocker che amoreggiano con la dance, i rave e la club-culture, ma intanto in America il punk si trasforma e muta pelle più volte. Da una parte c’è la deriva arty intellettualoide dei Pere Ubu e dall’altra c’è chi preme sull’acceleratore e si sbarazza degli ultimi fronzoli rimasti mandando a memoria la lezione dei Discharge e dei G.B.H. L’hardcore è tirato, veloce, ruvidissimo e spesso politicizzato. Gli Hüsker Du sono a metà strada tra art-punk, college rock e il nuovo suono che avanza, i Dead Kennedys, invece, sono un manifesto programmatico ambulante a partire dal nome che si sono scelti. Jello Biafra e soci sono solo uno dei tanti possibili punti di partenza per andare alla scoperta di una scena molto peculiare che si evolverà di lì a poco e dilagherà in tutto il mondo (Italia compresa, che vanta una scuola hardcore apprezzata a livello internazionale che non ha nulla da invidiare a nessuno[2]).
Se pensate che non si possa andare oltre, vi sbagliate. Su entrambe le sponde dell’oceano succedono diverse cose curiose e il decennio è ancora lungi dal terminare. Il punk comincia a lavorare con l’elettronica, con i synth sempre più abbordabili, e, strano a dirsi per un movimento che aveva fatto del no future un mantra, guarda verso il futuro. Nello stesso momento, un’infilata di artisti si volta all’indietro e guarda al folk, no, non quello di Bob Dylan, guardano proprio alla musica folclorica, c’è chi la chiama world, ma è una vuota etichetta buona a vendere qualche disco di musiche dal mondo agli yuppie.
Il gruppo anglo-irlandese dei Pogues prende la musica folk e la trasforma in punk senza ibridare il suono come hanno fatto in seguito Dropkick Murphys et similia. Shane MacGowan e soci si limitano ad accelerare un po’ il ritmo. E allora? E allora è una questione di tempismo. Sono gli anni dell’Ira, degli attentati di Hyde Park e Regent’s Park e cosa puoi fare per rompere le palle in UK con un gesto punk? Fare musica irlandese. E negli Stati Uniti cosa puoi fare per rompere le palle? Be’, puoi sganciarti totalmente dalle radici della musica americana, quindi dal pre-war folk, dal country e dal rock ’n’ roll, e osservare il resto del mondo in cerca di ispirazione. I Talking Heads incamerano nella loro miscela new wave una serie di influenze globali e nei loro dischi, soprattutto nel secondo periodo, emergono suoni che quasi nessuno prima aveva mai ibridato con il rock. I mezzibusti attingono a piene mani dalla musica africana e asiatica e non lo fanno semplicemente come se fosse una coloritura del loro suono. Al contrario dei Pogues, i Talking Heads, sono dei fini intellettuali, vengono dalla scuola d’arte, si appassionano di etnomusicografia e cominciano ad attingere dai suoni globali e a sperimentare con l’elettronica e con il cantato. David Byrne, prende i pezzi suonati in studio, all’oscuro degli altri membri della band, e monta il disco. Nessuno sa cosa ne uscirà, lo studio diventa un mezzo, uno strumento, una parte fondamentale della composizione, come nel dub. Raffinatezze.
Metalli
Il punk è arrivato, ha azzerato tutto e ha aperto un’orizzonte di possibilità infinite, anche quella di reagire in senso ostinato e «reazionario» con la rivincita del Heavy Metal. Molti fanno coincidere la nascita del genere alla fine degli anni Sessanta con l’avvento dei Black Sabbath, mi permetto di spostare le lancette ancora poco più indietro e di aggiungere i Blue Cheer al novero di gruppi da cui potremmo far discendere il metal. Nel periodo che interessa a noi però anche la più dura delle espressioni del rock venne travolta dal punk. Ci fu chi riuscì a sintetizzare felicemente le due istanze sia a livello musicale che a livello «ideale» come i Mötorhead, e chi invece adottò un approccio punk al metal, che però fu più che altro una questione di attitudine e di classe sociale. La working class inglese, ancora una volta, fu la protagonista assoluta di una scena inossidabile destinata a insinuarsi sotto la pelle di intere generazioni, che ancora oggi sono fedeli al verbo del metallo. Mentre certo post-punk vira decisamente verso l’intellettualismo e una freddezza che gli fa guadagnare l’epiteto di cold wave, un manipolo di teste calde decide che è ora di premere l’acceleratore e di aumentare la temperatura. Nasce la cosiddetta New Wave Of British Heavy Metal (NWOBHM) con gruppi come Judas Priest, Iron Maiden, Saxon, ecc, per cui ci vorrebbe una storia a parte. Il fatto che il genere abbia la parola British nella sua definizione non impedisce che nel corso del tempo trovi sfogo altrove, soprattutto in Germania (avete presente gli Helloween, i primi Scorpions, gli Accept? Ecco, tutti tedeschi). Mentre nel Regno Unito la risposta più tellurica alla new wave è l’Heavy Metal, negli Usa lo scossone arriva dalla no wave, una specie di punk destrutturato. Il punk è fatto da gente che suona male, che non sa suonare, che sa suonare poco o che finge di non saperlo fare, ma che si rifà al canone del rock ‘n’ roll primordiale, del rockabilly. La no wave va in un’altra direzione. Sperimenta con il rumore, ma al contrario degli Zeni Geva e dei gruppi noise, i protagonisti di questo movimento (piuttosto effimero) non solo non sanno suonare, non sono interessati a imparare e ne fanno un manifesto. L’approccio allo strumento è naïf e il risultato è cacofonico, stentato, precario. Di disco fondamentale c’è n’è uno solo e si chiama No New York, è una raccolta benedetta da Brian Eno che comprende gli alfieri del genere: Teenage Jesus and the Jerks, Dna e Mars. È un LP strampalato, quasi inascoltabile ma di un fascino estremo che all’incapacità sopperisce con una creatività senza limiti e un suono inaudito. Suono in cui c’è tutto e il contrario di tutto. La NWOBHM è tecnica, la no wave è dilettantesca. Direzioni inaspettate dettate da molte varianti. In certi casi la direttrice principale dipende dall’introduzione, o meglio dall’accessibilità, della tecnologia. Iron Maiden e Dna hanno più o meno gli stessi strumenti a disposizione e lo stesso succede per Depeche Mode, Visage, Ultravox, Human League e gli eccezionali Talk Talk (in anticipo sul post rock) che portano le istanze punk in direzione pop grazie ai synth, e i primi gruppi Power electronics come Merzbow o i Whitehouse, che conducono l’ascoltatore al macello su un nastro trasportatore di frastuono.
L’area grigia
Già negli anni Settanta il movimento industrial capitanato dai Throbbing Gristle sperimentava con il rumore in chiave psicotropa, rituale e artistica. I membri dei TG si sottoponevano in prima persona a sessioni estreme di ascolto ravvicinato a volume devastante, i loro happening erano assalti sonori in cui i decibel erano così elevati da alterare la percezione della realtà. Ascoltare un disco dei TG senza poter assistere alla performance live, a meno che non vi infiliate le cuffie e alziate il volume fino a farvi sanguinare le orecchie, è pura curiosità. È l’artista nipponico Merzbow che, nel decennio che interessa a noi, comincia a elaborare la poetica dei Throbbing Gristle grazie all’uso delle macchine. Genesis P. Orridge e soci producevano rumore in modo rudimentale (mandando in feedback gli amplificatori ad esempio), il nostro eroe invece comincia a manipolare vari oggetti, tra cui alcuni strumenti tipici giapponesi, e li passa attraverso il tritatutto degli effetti. Negli anni Ottanta non solo le «diavolerie elettroniche» come diceva mio nonno e i primi personal computer sono sempre più abbordabili, senza contare che molti macchinari sono anche sempre più facili da autocostruire. L’elettronica è dietro l’angolo. Come lo è il ritorno alle radici, in una perenne partita a tennis sonora che impegna moltissimi musicisti in tutto il mondo. Il loro primo disco degli australiani Dead Can Dance è figlio dei Joy Division, ma dal secondo LP in poi la band stupisce tutti con un sapiente mix di dream-pop, post punk, derive medioevali, musica sinfonica, tentazioni classiche, barocche, rinascimentali, «esotismi». Verso la fine della prima parte della loro carriera, Lisa Gerrard e Brendan Perry ci regaleranno un capolavoro come «Into the labyrinth»; in sostanza world music (ecco, alla fine l’orrida dicitura l’ho usata anch’io).
Strumenti classici, strumenti elettrici ed elettronica. Tutto assieme, appassionatamente. Non è difficile trovare sugli scaffali di chi è cresciuto a pane e post-punk i dischi dei Dead Can Dance e dei Coil, eppure nonostante le copertine si tocchino c’è un abisso tra i loro vinili. I Coil vengono dalla scena industriale dei Throbbing Gristle e sono interessati all’elettronica in chiave psichedelica. Il viaggio però è un brutto viaggio, nulla a che fare con la Summer of love. I Coil sono devastanti, al centro della loro ricerca c’è l’eros, un eros disturbante e disturbato, tanto da fare di un viaggio anale un concept album. C’è anche una forte componente magica nel loro progetto. Fino agli ultimi anni – John Balance è morto nel 2004 – hanno prodotto elettronica bellissima e inquieta al limite dell’ambient o della techno. Più o meno contemporaneamente all’ascesa dei Coil nell’Olimpo delle cult band, altri membri dei Throbbing Gristle confluiscono negli Psychic TV. L’istanza esoterica di base era più o meno simile, la magia rituale (i riferimenti ad Aleister Crowley e a Thelema si sprecano) viene trasmutata in musica per dischiudere il (contro)potere che c’è in ognuno di noi, per esercitare un de-controllo sulle varie influenze socioculturali e linguistiche che ci assoggettano quotidianamente. Gli Psychic TV sperimentano con l’elettronica come i Coil, ma alla fine approdano all’house.
Anche la scena Trance californiana, si ispira alla musica industriale e alle sue derive psichedeliche. È una piccola scena a suo modo importante, non tanto per i gruppi che ci ha regalato, come i Savage Republic e gli Shiva Burlesque, ma perché ha saputo mescolare in modo inedito l’approccio punk e la psichedelia (un connubio vietato nato sotto l’egida del «never trust a hippy»). I Savage Republic, in particolare, affiancano a basso, chitarra e batteria, bidoni, scarti metallici e lamiere, ma lo fanno in chiave molto più melodica rispetto agli Einstürzende Neubauten. Il loro è un suono politico-psichedelico a tratti marziale che si avvicina alla techno trance, anche se prodotta senza l’ausilio delle macchine.
In Europa, intanto, il gruppo di estrema sinistra Crisis si scioglie. Nulla di strano, solo che dalle ceneri di quella band nascono i Death in June, che dovevano chiamarsi Death n’ Gloom, ma qualcuno durante la registrazione del primo lavoro capisce male e salta fuori «La morte in giugno», un richiamo alla Notte dei Lunghi Coltelli. Il gruppo coglie la palla al balzo e spinge sull’acceleratore. Le svastiche, fin lì, si erano viste solo sulle t-shirt di Sid Vicious, ed erano chiaramente pura provocazione. I Death in June, invece, si presentano sul palco con la divisa delle SA e delle maschere neutre in viso. Alle chitarre elettriche preferiscono quella acustiche e una spruzzata di elettronica. I loro testi «per iniziati» fanno riferimento alla scomparsa dei valori dell’Occidente, alla sconfitta dell’Europa e compagnia brutta. Provocazione o meno, Douglas P. e compari hanno dato la stura a un altro filone nato nell’alveo del post-punk: il folk apocalittico. È una fusione tra goth, musica industriale e folk e i testi sono infarciti di piagnistei per il tramonto del Vecchio Continente. Il crinale è piuttosto scivoloso e le insidie sono tutt’altro che nascoste. Ancora oggi, i Death in June continuano a dire che si tratta di anticonformismo, ma i cloni dei cloni dei cloni sono spesso dichiaratamente neonazisti. Il genere ci ha regalato anche altre formazioni distanti da certe pose tragicamente ridicole, con dischi di raro dilettantismo, ma di grande intensità, come i Current 93, che da soli meriterebbero un approfondimento a sé. Le sperimentazioni si moltiplicano, il caleidoscopio si riempie di nuovi vetrini, e mentre l’oscurità, la disperazione, il tedio esistenziale diventato il marchio di fabbrica di un’intera generazione di musicisti, c’è chi invece trasforma il cut-up, le manipolazioni sonore, l’uso creativo del mixer per sfornare perle pop, come nel caso degli Art of Noise di «Moment in love», uno dei grandi tormentoni degli anni Ottanta. Questo è il frutto di un salto nel vuoto e di un lavoro tanto magistrale quanto certosino in studio. Le possibilità sembrano infinite. Come le droghe del resto. Il punk si è sacrificato sull’altare dell’eroina, l’industrial masticava amfetamine come fossero caramelle, ma il mondo era pronto per andare in estasi e quando l’Mdma irrompe sulla scena musicale, il post-punk è pronto a scendere in pista. Gli ex Joy Division, i New Order, avranno anche sfornato Blue Monday, ma sono i loro compagni di scuderia Happy Mondays a cogliere la chicca al balzo (date un’occhiata al film «24 Hour Party People») e ad ammiccare definitivamente alle scena rave. Ed è tutto un fiorire di (ex) rocker che flirtano con la pista da ballo. Dagli Stone Roses agli EMF passando per i Primal Scream. C’è chi guarda molto avanti e chi guarda molto indietro come i Cramps, i Gun Club, gli Stray Cats, i Guana Batz, i Fuzztones, i Chesterfield Kings, i Tell-Tale Hearts, i Cynics. Sono tutte band che fanno un giro sulla macchina del tempo tra rockabilly e garage, ma quando ritornano negli anni Ottanta, più che nella realtà si ritrovano in un film di serie B a base di mostri e alieni. È rock ‘n’ roll (al massimo rhythm and blues) psicotico, lisergico, distorto, carico di fuzz, ma puro e semplice, quasi primordiale. Avanti e indietro, avanti e indietro. E di lato. Come i Sonic Youth e gli Swans, da New York con furore e tanto, ma tanto feedback. Le chitarre sono le nuove macchine del rumore che affilano le armi per la decostruzione di massa del rock oliate dalla no wave. Pezzi dal minutaggio consistente come non se ne vedevano dagli anni Settanta, suite feroci, assalti sonici che con il tempo, strano a dirsi, riusciranno a diventare pop.
I signori del caos
La New Wave Of British Heavy Metal nel frattempo, non contenta di avere riportato il metal al centro della scena, passando per il punk, sputa fuori band sempre più estreme fino a che da Newcastle non arrivano i Venom. Tecnica: incerta, velocità: sconsiderata, volumi: altissimi, inni a Satana: come se piovesse (sangue, ovvio). I loro secondo disco è del 1982 e si intitola Black Metal. Qualcuno nelle oscure lande della Norvegia, l’allora Cenerentola proletaria della Scandinavia, drizza le orecchie. E se ci facessimo un genere? Un genere radicale. La tecnica, anche in questo caso, lascia molto a desiderare, basta aggiungere un po’ di rumore, va’. Si velocizza la batteria, si rallentano le chitarre o viceversa se necessario. Sai cantare? No, be’, prova a urlare come se ti stessero torturando. Di cosa parliamo nella socialdemocratica e un po’ bigotta Oslo? Di cosa parlano i Venom? Satana! E perché no? Mettiamoci un po’ di horror rock alla Alice Cooper e ci siamo. E se invece ci occupassimo di etenismo? Di che? Dèi nordici, vichinghi. Ed ecco che il satanismo d’accatto adolescenziale scivola nel paganesimo e un attimo dopo il paganesimo rotola nella teoria della razza. Le tentazioni nazistoidi sono dietro l’angolo. Eppure, i membri di alcuni dei primi gruppi black come i Mayhem si professavano di estrema sinistra. Dire che il black metal sia di estrema destra è una faciloneria. C’è un’intera frangia anarco-comunista nel genere che fin dai primordi cerca di contrastare la deriva destrorsa nella scena, ma come nel caso del folk apocalittico, tra provocazione e adesione il confine è labile e confuso. Quello che davvero ci interessa è l’estremità del genere, che è estremo nel suono, nella poetica, nell’estetica e nella cronaca tra chiese date alle fiamme, omicidi brutali, suicidi e copertine di dischi discutibili al limite dello snuff. Dovrei aprire una parentesi enorme ma non posso e non mi resta che rimandarvi a «Lords of Chaos», un libro firmato da Michael Moynihan, un noto esponente del panorama folk apocalittico statunitense (!). Mentre l’oscurità dilaga, vale la pena ricordare che sono gli stessi anni dei Duran Duran e di Madonna, come dei primi dischi crossover dei Faith No More e dei Red Hot Chili Peppers, una manica di punk impazziti per il funky e per l’hip hop sotto il sole della California, lo stesso che non baciava i loro conterranei e contemporanei Christian Death, un gruppo post-punk degno del Bat Cave che saliva sul palco attorniato da lapidi e croci per cui è stata coniata la dicitura death rock. Citofonare anche 45 Grave, Sex Gang Children, Mephisto Walz, Theatre of Hate, Southern Death Cult (poi Death Cult poi Cult). È un casino, lo so. E se non vi bastasse, in ambito hardcore, uno dei gruppi più interessanti sono i Bad Brains, musicisti eccezionali che quando rallentano vanno in levare e si danno al reggae. Ah, sono neri. Cosa abbastanza rara per la scena. Dalle ceneri di un oscuro combo votato al culto dei Joy Division, gli Psi-Com, nel 1985 nascono anche i Jane’s Addiction, uno dei primi gruppi che fonde in parti uguali metal, punk, psichedelia, funky e art rock. Più o meno negli stessi anni nascono anche i padrini dell’alternative rock Green River, Pixies, Mudhoney, mentre in Europa impazza lo shoegaze di Jesus and Mary Chain, My Bloody Valentine, Slowdive, Cranes, Loop, Ride. MTV ci mette lo zampino e la strada per il grunge è spianata con buona pace dell’hair metal che verrà spazzato via in un battibaleno (Bleach dei Nirvana è del 1989). Gli anni Ottanta sono stati un decennio eccezionale, di creatività esasperata, di incredibile sperimentazione e inaudita contaminazione. Gli anni Novanta risponderanno a quella spinta centrifuga con un movimento centripeto che ha riportato il genere verso lidi più classici (grunge e brit pop). I tanto vituperati «anni dell’edonismo» sono stati l’ultimo grande decennio in cui il rock ha osato osare.
Note
[1] Per dirla con il titolo di un brano di una band italiana che ai Neubaten doveva molto, le Officine Schwartz.
[2] Tanto che c’è una scena giapponese contemporanea che copia alla perfezione le sonorità dell’HC italiano con tanto di testi in lingua. Cercate i video degli Isterismo e stupitevi.
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Jadel Andreetto ha pubblicato romanzi, saggi e racconti, nel 2022 ha realizzato un podcast per RaiPlaySounds e nel 2024 uscirà il suo primo documentario, Südtirock, un excursus punk tra storia, musica e temperie culturali.
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