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Sulla centralità della riproduzione



Una delle ipotesi di fondo dell’interpretazione della realtà capitalistica contemporanea di Romano Alquati è la centralità della riproduzione, intesa come «riproduzione della capacità-umana-vivente». A questa ipotesi Alquati ha dedicato il suo ultimo libro, finora rimasto inedito e adesso pubblicato da DeriveApprodi: Sulla riproduzione della capacità umana vivente. L’industrializzazione della soggettività. Il testo di Anna Curcio che qui proponiamo, pubblicato nel volume Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati (a cura di F. Bedani e F. Ioannilli, collana Input di DeriveApprodi), si offre come un’utile guida di lettura e interpretazione per orientarsi nella complessità del «modellone» alquatiano. In questo contesto, l’autrice si sofferma sulle differenze rispetto al dibattito femminista: se le femministe guardano alla riproduzione della forza lavoro compresa degli aspetti cognitivi e affettivi indispensabili per il lavoro, Alquati allarga lo sguardo sulla riproduzione di ciò che, semplificando, potremmo indicare come capacità-umana ad agire per incrementare capitale.


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Una delle ipotesi di fondo dell’interpretazione della realtà capitalistica contemporanea di Romano Alquati è la centralità, nel senso più preciso di «baricentralità», della riproduzione. Attraverso la lettura dell’inedito Sulla riproduzione della capacità-umana-vivente oggi[1] (che contribuisce a definire l’analisi della società «iperindustriale») vorrei entrare nel merito delle categorie proposte, provando a districare un testo complesso che ha il grosso merito di anticipare molte delle trasformazioni produttive e riproduttive che stiamo vivendo[2].

Nell’ipotesi alquatiana, la razionalità interna dell’iperindustria (si veda Cominu in questo volume), rivolta al risparmio «soprattutto» della parte affettivo-cognitiva del lavoro (che si è fatto soprattutto lavoro psichico) e tesa all’innovazione mediante sistemi uomo-macchina, definisce un «rovesciamento sussuntivo» che sposta l’ambito della valorizzazione capitalistica dalla produzione di merci o «artefattura» alla riproduzione, intesa come «riproduzione della capacità-umana-vivente». La riproduzione è qui «riproduzione allargata»: non solo, dunque, la «riproduzione semplice» della forza lavoro come «ricreazione o restauro» dell’attività utile da destinare all’artefattura, ma la complessiva riproduzione della «capacità-umana-vivente merce». È ciò che Produce (con la maiuscola, per distinguerla dalla produzione di merci) innovazione e risparmio e incrementa la redditività del capitale, ed è ciò che permette la riproduzione della società iperindustriale. Ma soprattutto la riproduzione è nell’iperindustria un «luogo baricentrico privilegiato», nel senso che è centrale sia per l’accumulazione di capitale sia per il possibile agire autonomo di soggetti che riproducono e si riproducono (c’è sempre reciprocità) senza incrementare capitale. È il luogo dell’ambivalenza e della politicità (due questioni sollecitate in tutto il testo): l’incremento di capitale è sempre la posta in palio della riproduzione della capacità-umana-vivente. E Alquati, che lega la conoscenza del reale alla sua trasformazione, ci invita a collocare qui il nostro conricercare.

Prima di procedere nel testo, vorrei brevemente considerare la centralità assegnata alla riproduzione nella «società specifica» iperindustriale. «L’ipotesi – si legge nelle prime pagine – è che adesso il capitalismo in grande difficoltà nell’accrescere il monte dei profitti in settori saturi, cerca di valorizzarsi e accumularsi sempre più nella stessa riproduzione della capacità-lavorativa-umana-vivente» che, «per la prima volta», si fa fonte di Produzione di valore. Dati alla mano, ci dice che all’inizio del nuovo millennio circa il 35/40% della Produzione di valore si dà nei servizi riproduttivi, come riproduzione della capacità-lavorativa-umana-vivente. Ora, che la riproduzione sia fonte immediata di accumulazione e produzione di capitale ce lo dice il fatto che lo stesso capitale vi abbia storicamente riservato grande attenzione, soprattutto nelle fasi di transizione (nel passaggio alla grande industria, con l’affermarsi del fordismo e l’introduzione del welfare-state). Tuttavia, afferma Alquati, nell’iperindustria si produce come uno scarto o salto di scala. Nel senso che la Produzione di valore si rovescia, slitta – potremmo dire – tra la produzione di merci e la riproduzione della capacità al lavoro, interessando adesso entrambi gli ambiti. La sussunzione al capitale non è «più solo come capacità-umana di agire, bensì […] come capacità-lavorativa-merce». La Produzione di valore non si dà come «mera riproduzione biologica dei corpi umani estesi, fisici», non stiamo cioè parlando della riproduzione della merce forza lavoro, nella sua complessità fisica e affettivo-cognitiva, destinata al «lavoro particolare» nell’artefattura, ma è la riproduzione della capacità-umana al «lavoro specifico», inteso come «qualunque attività-umana che sia inclusa nell’accumulare capitale» che adesso Produce valore.

In questo scarto, si definisce anche la discontinuità con quella parte della critica femminista che negli anni Settanta aveva insistito sul carattere immediatamente produttivo di valore della riproduzione. Alquati legge come «residuale» l’analisi femminista del lavoro di cura (domestico e nei servizi riproduttivi) perché non considera la riproduzione delle capacità umane che oggi Producono valore: «Le donne educano i fanciulli: danno loro la capacità di sopravvivere in questa società (specifica) come questa richiede. Non formano tanto alle professioni». È uno sguardo diverso. Se le femministe guardano alla riproduzione della forza lavoro compresa degli aspetti cognitivi e affettivi indispensabili per il lavoro, Alquati allarga lo sguardo sulla riproduzione di ciò che, semplificando e forse interpretando, potremmo indicare come capacità-umana ad agire per incrementare capitale. Una peculiarità dell’iperindustria che adesso, allargando lo spettro della sussunzione, tende a ricondurre ogni aspetto dell’agire umano alla Produzione di capitale. Oggi, precisa Alquati, «la capacità attiva umana in riproduzione è (tutta, sempre) mercificata», è capacità-umana-vivente merce lavoro staccata dai nostri fini, «riprodotta o incrementata innanzitutto per i bisogni del lavoro». In questo quadro, la riproduzione si fa impresa: si riorganizza, con finalità esterne all’agente umano (in riproduzione), per la produzione e scambio di questa merce specialissima.


Per analizzare la riproduzione della capacità-umana-vivente, Alquati torna al modello ipotetico elaborato per l’analisi della «società specifica» nell’iperindustra. Un modello dinamico e processuale, che ha poco a che vedere con la modellizzazione funzionalista, che gli permette di descrivere l’incremento di sovrappiù delle attività utili e differenti dell’agire umano che Produce valore per il capitale. Attraverso il modello, mostra il «rovesciamento sussuntivo» della Produzione di valore nell’iperindustria e pone la «lavorizzazione» della capacità-umana-vivente come la posta in gioco tra lavoro e attività, tra l’agire umano come «lavoro specifico» che Produce sovrappiù e l’attività autonoma dalla Produzione di capitale.

Nel «modellone» (si veda Pentenero in questo volume), la società iperindustriale è rappresentata come una piramide che lungo un asse verticale colloca quattro differenti livelli di realtà. Un primo livello Mega al vertice, dove si accumula il dominio (nella relazione la tra «la macroparte capitalista» e «la macroparte proletaria»), un secondo livello Meta, quello della valorizzazione e dell’accumulazione di capitale, un terzo livello Meso del sistema sociale, delle interazioni tra i soggetti e dei rapporti trasformativi, e infine un Sotto-livello delle attività utili e differenti dell’agente umano. Meso-livello e Sotto-livello fanno da sfondo all’interazione, sempre ambivalente, dell’agente umano con il suo ambiente, i suoi simili, le sue risorse e mezzi, descrivendo la trama di rapporti che costituiscono lo spazio per la riproduzione allargata della società iperindustriale.

Nel Meso-livello del sistema sociale capitalistico, il medio-raggio della sua analisi, Alquati osserva la riproduzione della capacità-umana-vivente. Lungo un asse orizzontale individua quattro ambiti funzionali della società iperindustriale (dai «confini assai labili» e sempre più mescolati tra loro), sono gli ambiti del reale, dell’agire umano. Il primo è l’ambito dell’artefattura, in cui la capacità-umana-vivente è impegnata nella produzione con la minuscola, del «lavoro particolare» per la produzione di beni e servizi. Il secondo e il terzo ambito sono rispettivamente quello del consumo-finale-distruttivo/realizzativo (semplificando potremmo dire del consumo propriamente detto, della distruzione di attività utili e differenti), e quello del consumo-finale-riproduttivo, cioè della riproduzione della capacità-umana-vivente. Il quarto ambito è quello delle istituzioni politiche, dell’organizzazione e gestione dei servizi pubblici, compresi quelli riproduttivi.

I quattro ambiti funzionali del sistema sociale iperindustriale sono attraversati dal «lavoro specifico» che, come si è visto, è quella «specificità trasversale all’attività umana» (distinta dal lavoro per la produzione di merci) che genera innovazione e risparmio delle attività utili e differenti dell’agire umano e Produce valore. Il lavoro specifico ha per Alquati il carattere della duplicità e della reciprocità: è sempre una relazione e sempre distrugge dove produce utilità e viceversa (d’altra parte, come si è visto, consumo-distruttivo e consumo-riproduttivo sono considerati congiuntamente). Si realizza attraverso uno scambio che può essere in relazione a se stessi o in relazione ad altri e trasforma entrambi gli agenti della relazione, nel senso che sempre arricchisce o impoverisce le attività dell’agente, inventa e mangia capacità. Riporta l’esempio del consumo di navigatori che distrugge l’utilità orientamento e apre al mercato dei navigatori digitali. In questo caso la Produzione di valore sta nella distruzione della capacità a orientarsi (verso il Sotto-livello dell’agente umano) che realizza un allargamento di mercato (verso il livello Meta della valorizzazione e Mega del dominio). Tuttavia, conclude, «questa distruzione non solo concorre alla produzione e accumulazione di capitale, ma ha qualche effetto secondario di innovatività»: genera innovazione come risultato dell’attivazione di altre risorse timiche e cognitive, impoverimento e arricchimento di capacità si presentano sempre insieme.

Nell’ambito del consumo finale riproduttivo, la combinazione di duplicità e reciprocità del «lavoro specifico» definisce l’agire umano secondo quattro «occorrenze», quattro modalità attraverso cui il «proprietario della capacità-lavorativa-umana-vivente, in mercificazione, che si riproduce», vero protagonista della riproduzione, pratica la sua riproduzione (in relazione a se stesso e in relazione ad altri). Nel primo caso è fruitore/autoriproduttore che riproduce capacità-attiva-umana consumando beni tangibili (mangia la mela raccolta), nel secondo è fruitore/autoriproduttore che fruisce di beni intangibili (legge il libro preso in biblioteca), nel terzo caso è fruitore/autoriproduttore che riproduce (consumando altre utilità) attraverso uno «scambio esterno» di beni tangibili (mangia la mela comprata da un partner esterno), infine è fruitore/autoriproduttore che riproduce (consumando altre utilità) attraverso uno «scambio interno» tra partner (consola o istruisce – oppure è consolato o istruito da – un’altra persona). Quest’ultima è la prestazione di cura propriamente intesa, svolta prevalentemente da donne[3], non nella loro biologicità separata bensì «nei loro corpi interi includenti psiche, mente, spirito, intelletto», come corpi sociali in relazione ad altri corpi. Che si agisca per se stessi o per gli altri, realizzando o distruggendo beni tangibili (o «sensibili»), cioè merci (compresa la merce forza lavoro) o servizi intangibili all’impresa e alla persona, sempre si lavora alla riproduzione della capacità-umana-vivente. Ciò in una prospettiva in cui il concetto stesso di riproduzione si estende interessando tutta una parte di lavoro anche artefattivo e di consumo.

Tra i quattro ambiti del Meso-livello e il Sotto-livello, dove si stabiliscono i rapporti tra il sistema sociale e le attività utili e differenti dell’agente umano e di queste con le «risorse calde» (timiche, relazionali e organizzative/relazionali) e i «mezzi freddi» (tecnoscienza, organizzazione, tecnologia, macchine), Alquati colloca il «rovesciamento sussuntivo» che ha «allargato» il concetto stesso di riproduzione e adesso – «verso l’alto» del modello – riproduce la società iperindustriale, la sua forma e natura lavorativa. Per rappresentarlo ricorre al «triangolo della società specifica complessiva» del lavoro, che si sviluppa verticalmente attraverso i due livelli della piramide. Su un lato colloca il «lavoro particolare», l’occupazione, e lungo gli altri due lati, a questi interconnessi, pone rispettivamente «la trama sociale» dei lavori-specifici e il lavoratore-umano-specifico, con la sua capacità-umana.

Con l’iperindustria, la base del triangolo che interconnette tra loro gli altri lati – posta a fondamento della riproduzione della società specifica complessiva e centro della piramide – si rovescia dal lavoro particolare al lavoratore umano e in particolare alla sua capacità-umana-vivente lavorizzata. La Produzione di valore non si dà più (o non più in modo centrale) nel lavoro per la produzione di merci (compresa la merce forza lavoro) ma è la meta-merce capacità-umana-vivente lavorizzata a Produrre adesso valore. Si passa dal fuori della forza lavoro al dentro della capacità lavorativa, con tutta una serie di implicazioni soggettive che attengono alle attività, ai comportamenti, alle scelte dell’agente lavorante. In questo passaggio, le attività utili e differenti dell’agente umano sono lavorizzate: sono adesso oriente alla razionalità del «lavoro specifico» iperindustriale, all’incremento produttivo (dell’innovazione e del risparmio) e alla Produzione di sovrappiù. Lungo il lato del triangolo dove si (auto)riproduce la capacità-umana-vivente, Alquati vede la lavorizzazione dell’agire umano come un processo aperto nell’ambivalenza tra lavoro e attività (si veda Lavoro e attività, Manifestolibri, Roma 1997, ripreso da Bedani in questo volume), tra l’agire lavorizzato per la Produzione di valore e l’attività generica utile e differente che non Produce valore per il capitale.

Nell’iperindustria l’agente umano è ridotto alla sua capacità lavorizzata. È un «iperproletario», mero vettore «della propria-capacità attiva umana-vivente e calda, in mercificazione […] funzionale al sistema nella sua trama e sempre meno a questo lavoratore-specifico-umano che la contiene […] Egli vale per il valore di questa», che tuttavia non possiede, o possiede pochissimo. Si pensi ad esempio all’autosfruttamento del lavoro autonomo, all’autopromozione professionale, alla costruzione di un capitale sociale, relazionale, reputazionale del lavoro oggi. Si pensi anche alla scelta di «lavorare per nulla», ovvero per una soddisfazione personale e la speranza di un qualche tornaconto futuro, di molto lavoro cosiddetto intellettuale tra l’accademia, la produzione artistica e gli organi di informazione. Tuttavia, nella tensione ambivalente tra lavoro e attività, l’agente lavorante che auto(co)riproduce se stesso si trova ad agire rispetto a tre differenti determinazioni soggettive, lungo tre differenti percorsi. A partire dall’«effettività» della sua condizione reale nel sistema sociale, l’agente umano (o persona) può essere attore della società specifica iperindustriale lungo il percorso dell’ufficialità capitalistica, della lavorizzazione della capacità e della Produzione di incremento/arricchimento (verso l’alto del modello, verso il Meta-livello della valorizzazione capitalistica e il Mega-livello del dominio), oppure può essere soggetto nel contro-percorso dell’autonomia dell’attività umana, riproducendo attività utile e differente che non Produce valore (verso il basso del modello, nel Sotto-livello dell’agire umano). Attenzione però, non si tratta di una scelta individuale, perché siamo tutti dentro il processo di lavorizzazione e mercificazione, non esistono nicchie o isole al riparo dall’accumulazione di dominio e di capitale; il «contro-percorso» è sempre collettivo, implica un processo di ricomposizione della macro-parte proletaria, di rottura e di fuoriuscita. L’attività, dunque, non è affatto uno stato idilliaco a cui bisogna tornare o un’opzione già data che si offre alla sola volontà del singolo: è continuamente lavorizzata, in un processo interminato e interminabile. Alquati chiama «residuo irrisolto» l’insieme dei nodi che restano aperti in questo processo, che sono fonte di ambivalenza specifica e politicità intrinseca. Ambivalenza e politicità intrinseca, tuttavia, non si presentano sempre nello stesso modo: il loro grado di intensità e presenza, cioè di possibilità di conflitto e rottura, dipende dai rapporti di forza storicamente determinati nelle differenti fasi, contesti, tempi e luoghi.


Lungo il lato del triangolo adesso occupato dal lavoratore e dalla sua capacità, la razionalità iperindustriale riorganizza la riproduzione come impresa. Nel processo di «industrializzazione della riproduzione», ci dice Alquati, la riproduzione si impresizza. Si tratta di un processo avviato negli anni Ottanta del Novecento che inverte la tendenza del lungo percorso spinto dalle lotte operaie (tra la metà dell’Ottocento e l’insorgenza dell’operaio massa e delle donne negli anni Sessanta e Settanta del Novecento) che aveva imposto allo Stato il farsi carico di servizi riproduttivi che richiedevano competenze tecnico-scientifiche e macchine riproduttive via via sempre più sofisticate. In Italia, la ristrutturazione iperindustriale della riproduzione, orientata al risparmio e all’innovazione di lavoro riproduttivo e autoriproduttivo, si è riorganizzata lungo tre direttrici principali: la privatizzazione dei servizi, l’induzione di nuovi bisogni riproduttivi erogeni, che producono piacere nel consumare e aprono nuovi mercati (si pensi tra le altre all’industria del benessere), l’iperindustrializzazione delle famiglie proletarie, anch’esse «piccola impresa di riproduzione iperindustriale di capacità-umana-vivente in mercificazione». Tutte, «anche quelle di single, anche quelle gay» precisa, sgombrando il campo dall’idea di nicchie riproduttive estranee all’impresizzazione.

La ristrutturazione e impresizzazione della riproduzione interessa tutte le attività riproduttive, quelle interne alla famiglia e all’ambito domestico, tanto quanto i servizi riproduttivi esterni. Molte delle funzioni riproduttive di cui adesso il sistema sociale non si fa più carico, ritornano in famiglia (penso, tra i vari esempi possibili, alla pratica sempre più diffusa di ospedali ed enti sanitari di rimandare i degenti a casa per la convalescenza o, su un piano completamente differente, alla tendenza crescente da parte della magistratura di comminare pene detentive domiciliari, con le case che si fanno enti di cura o detenzione) trasformando anche l’abitazione, i suoi spazi e la sua organizzazione, con i costi della riproduzione completamente scaricati sulla famiglia.

L’«impresizzazione» della riproduzione (da non confondere, sottolinea, con l’aziendalizzazione, che descrive l’organizzazione del lavoro in forma aziendale) è un processo in tre fasi. In un primo momento di razionalizzazione interna, il lavoro di riproduzione si scompone in un mosaico di lavoro timico, cognitivo/intellettuale e comunicativo, riorganizzato anche in relazione alle macchine (macchinizzato). Successivamente, i differenti pezzi della prestazione riproduttiva sono scorporati e in alcuni casi delocalizzati. Infine, si dà l’impresizzazione vera e propria: poiché la riproduzione è adesso riproduzione parcellizzata di capacità-umana-vivente lavorizzata e dunque merce che vale per il suo valore di scambio, il lavoro di riproduzione è immediatamente Produttivo di sovrappiù, esattamente come in un’impresa industriale (e Alquati ricorda che è impresa anche l’agente umano che autoriproduce la sua capacità). Si pensi ad esempio alle scuole tecniche, che sfornano manodopera più o meno specializzata per la manifattura del paese, e alla crescente scomposizione dell'insegnamento in moduli didattici, praticantato, tirocini formativi, alla loro delocalizzazione presso aziende o enti formativi specifici (ad esempio linguistici o di formazione professionale) e alla immediata Produzione di capitale – nei termini di innovazione e risparmio – che l’impresa scuola riesce così a definire. Si pensi anche all’università, la cui trasformazione era stata analizzata dallo stesso Alquati fin dagli anni Settanta. Scuola, università e altri servizi riproduttivi così organizzati sono ciò che possiamo chiamare fabbrica riproduttiva di capacità-umana-vivente lavorizzata che, fatta merce, è adesso in vendita, mostrando la «mercificazione dei servizi-riproduttivi-finali» e il loro farsi impresa.

Guardandoli al loro interno, i servizi riproduttivi (o alla persona), che Alquati distingue dai servizi all’impresa[4], sono attività di consumo, distruttivo e riproduttivo, che applicano sapere/conoscenza rielaborato mediante «risorse» timiche e «mezzi» tecnologici e organizzativi, al fine di riprodurre la capacità-umana-vivente di chi riceve la prestazione. Sono attività svolte generalmente da donne e sempre, anche in modo indiretto, per il vantaggio di altri. Tuttavia sappiamo che «il lavoro specifico» ha in sé il carattere della «reciprocità»: chi presta un servizio non si limita a riprodurre la capacità-lavorativa altrui consumando attività utili e differenti, ma al contempo (auto)riproduce la sua stessa capacità-lavorativa. I servizi alla persona sono, in questo senso, una situazione coevolutiva e di co-apprendimento, mediata dalla comunicazione e segnata da un’utilità reciproca tra chi presta e chi riceve. Chi riceve ha come utilità il servizio erogato, chi presta trova invece la sua utilità in un reddito equivalente che riceve dal diretto destinatario di quel servizio, o dal sistema sociale, e che è sempre più spesso anche un salario di fatto, una ricompensa psicologica indirizzata a incrementare capacità. È questa l’idea del «lavoro d’amore» che il femminismo degli anni Settanta rifiutava rivendicando un reddito per il lavoro domestico (anche se Alquati, che pur riconosce l’intuizione analitica, liquida con un commento sprezzante: «un salario-di-fatto che certe femministe volevano fosse riconosciuto e versato direttamente a chi prestava»). Mi pare che si muova in questa direzione anche l’idea di una «missione» di molti operatori sociali che, come Alquati ci ricorda, lavorano spesso nelle piccole cooperative in cui è stato frazionato e scorporato il lavoro riproduttivo, con forme di lavoro «schiavistico e servile, di supersfruttamento e di concorrenza selvaggia tra iperproletari», dove la ricompensa psicologica di svolgere un lavoro per altri è spesso la principale contropartita dello scambio riproduttivo (che al contempo ne copre i costi sociali), la meta-merce capacità-umana lavorizzata che hanno co(auto)riprodotto.

In questo scambio riproduttivo tra lavoranti ridotti alla loro capacità-vivente lavorizzata, «gli iperproletari, sotto il comando del padrone collettivo, lavorano sempre più a riprodurre se stessi per il lavorare specifico capitalistico». Nella continua differenziazione di ruoli, funzioni e scopi del lavoro riproduttivo (industrializzato e impresizzato), la reciprocità tra chi eroga e chi riceve la prestazione si fa asimmetrica rispetto al potere, con un andamento prevalentemente unidirezionale: dal prestatore/emettitore al ricevente, adesso «utente». È una nuova figura del rapporto riproduttivo: il consumatore di servizi-pubblici agente del processo di «industrializzazione della riproduzione».

Nei servizi riproduttivi, si definisce anche l’interazione continua tra le risorse «calde» timiche e relazionali in lavorizzazione, incarnate nei partner della relazione, e i mezzi «freddi» tecnologici e organizzativi, per la gestione del servizio. Alquati parla di un «sistema-uomo-macchina» inscindibile ma aperto, in cui la capacità-vivente-umana esclusiva (intelligenza, creatività, esperienza, sempre irriducibile alla macchina) e le disponibilità tecno-organizzative si combinano, consentendo innovazione e risparmio di utilità, tempo e capitale, che incrementano la Produttività della capacità-umana-vivente. Si pensi ad esempio al registro elettronico nelle scuole. Il risparmio di lavoro dell’insegnante che non ha più assenze da giustificare e pagine di elenchi da compilare, distrugge una parte, almeno, della sua autonomia, soggetto com’è adesso alla rigida gestione dei tempi e dei modi del suo lavoro da parte della macchina e attraverso questa al controllo della dirigenza scolastica. Dal lato degli studenti, invece, il rapporto con la macchina mangia tra le altre la capacità di gestire un brutto voto o di nascondere un’assenza, che sono invece importanti esperienze di crescita e di autonomia soggettiva, anche quando banalmente trasgressive, rispetto all’istituzione scuola e alla famiglia. Un discorso analogo vale pure per le tecnologie digitali attraverso le quali oggi sempre più (auto)riproduciamo la nostra capacità-umana-vivente. Alquati ci dice che il sistema uomo-macchina che incrementa la Produttività del capitale, pur nella sua irriducibilità macchinica, contiene sempre una parte di consumo distruttivo di autonomia perché riduce l’agente umano alla sua capacità lavorizzata merce.


Morale della favola, per parafrasare il paragrafo conclusivo del manoscritto: adesso che la Produzione di valore risiede nella capacità-umana lavorizzata e la riproduzione della capacità, scomposta, dislocata e impresizzata segue finalità di mercato che sono sganciate da quelle del suo possessore, tutto l’agire umano trasversale agli ambiti funzionali del sistema sociale – come lavoro artefattivo, di (auto)riproduzione e consumo (distruttivo), e come erogare/fruire servizi riproduttivi – e la stessa capacità di autoriprodurci incrementa capitale. Tuttavia, Alquati non sta dicendo che l’agire umano è sempre Produttivo di valore; al contrario, mettendo esplicitamente in discussione questa lettura, ritorna – ed è qui che occorre soffermarsi – alla duplicità del lavoro specifico iperindustriale, che riproduce e insieme distrugge capacità, per descrivere l’irriducibilità dell’agire umano alla logica del capitale. A essere irriducibile, spiega, è la soggettività umana, in specie le risorse timico-cognitive del lavoro contemporaneo, e del lavoro riproduttivo in particolare (affetti, linguaggio, sapere/conoscenze), che sono esclusive dell’agente umano, tipiche e irripetibili: «lavoro psichico» che elabora informazioni in sapere consapevole.

Nella riproduzione e formazione della capacità-umane-vivente (in un’accezione larga che comprende procreazione, educazione, istruzione, addestramento, socializzazione e altro), l’attivazione di queste risorse calde, esclusive e irriducibili che attengono alla soggettività umana, lascia un residuo irrisolto come possibilità tendenziale di fuoriuscita dalla lavorizzazione. Qui Alquati individua la natura baricentrica della riproduzione che apre al contro-percorso dell’agire autonomo del soggetto, in cui la riproduzione di capacità non incrementa capitale ma riproduce capacità-umana-vivente utile al lavoratore. «Non una regola generale» ammonisce, piuttosto una rarità, che lo porta, in tutti i casi, a chiedersi se dalla lavorizzazione dalla nostra capacità non «possiamo anche ricavarne forza per strappare una vita completamente diversa». E con questa domanda in mente, ci invita a guardare nelle pieghe della riproduzione, per scorgere quei comportamenti e forme dell’agire che richiamano capacità almeno potenzialmente erogate e fruite per conseguire fini autonomi. E soprattutto ci invita ad approfondire la conoscenza delle contraddizioni, delle tensioni e dei conflitti possibili e ad agire l’ambivalenza intrinseca nella sua forma aperta di lotta di classe.


Note [1] Il manoscritto, databile nei primi anni Zero, nasceva nel decennio precedente, come parte del secondo capitolo delle dispense Nella società industriale d’oggi. [2] Mi sono qui limitata a sintetizzare e sistematizzare gli argomenti del testo, tentando anche di semplificare un pensiero estremamente denso che si sviluppa «a spirale», ovvero ritornando continuamente sui concetti, aggiungendo o complicando ogni volta qualcosa. In questo esercizio di sintesi e semplificazione ho inevitabilmente tralasciato qualcosa, spero tuttavia di essere riuscita a restituire l’impianto di fondo del testo, e soprattutto l’attualità delle ipotesi discusse. L’unico contributo originale a questo breve saggio è infatti costituito dagli esempi tratti dalla nostra realtà sociale che ho, in alcuni casi, riportato a margine o a compendio del discorso. [3] Parla in questo senso di donnità (o donnazione nella sua dimensione processuale) come caratteristica dell’ambito funzionale baricentrico della riproduzione che oggi occupa in prevalenza donne. Una caratteristica del capitalismo iperindustriale, che porta Alquati a ipotizzare una crisi del patriarcato, mangiato dall’interno dalla donnità del lavoro contemporaneo, e a prefigurare l’orizzonte di un matriarcato capitalista dove, nel perdurare dello sfruttamento delle donne, il capitalismo «non è “necessariamente” patriarcale, né le donne effettive sembrano essere “necessariamente anticapitaliste”». Per questo ci invita a conricercare ruolo e soggettività delle donne nel capitalismo contemporaneo. [4] Servizi-artefattivi di «sapere-consapevole» come rielaborazione di informazione e sapere/conoscenza che, ai «livelli più bassi della cognitività», silimitato al trattamento di informazioni: logistica, distribuzione, trasporti ecc., ai livelli più alti, quelli del lavoro complesso, «intelligente/inventivo, affettivo/emotivo», comprendono il marketing, la ricerca e sviluppo, la contabilità, l’amministrazione ecc.

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