In questo articolo Marco Grispigni, studioso dei movimenti sociali e politici degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, ricostruisce la nascita del concetto di «strategia della tensione» durante quella che è stata definita la «notte della Repubblica» e prova a spiegare perché è necessario superare e smettere di riproporre pigramente quel concetto.
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Negli ultimi tempi su diversi giornali si è tornati a parlare delle stragi che insanguinarono l’Italia durante la «notte della Repubblica». Lo spunto sono state le «nuove rivelazioni» provenienti da alcuni ormai anziani fascisti riguardo la strage di Piazza della Loggia a Brescia nel 1974. Non ho letto, come il cronista di «Repubblica» Bonini, esperto di piste nere e scoop giudiziari, le carte della Procura di Brescia e quindi non posso giudicare, anche se le «rivelazioni» a 40-50 anni di distanza dagli avvenimenti mi lasciano assai perplesso.
Quello sul quale invece mi sembra necessario fare chiarezza è sull’uso, o meglio dire l’abuso, della formula «strategia della tensione» per descrivere tutte le stragi di quegli anni e le connessioni/coperture tra apparati nazionali e internazionali e i fascisti.
Sappiamo che la definizione «strategia della tensione» venne utilizzata per la prima volta in un articolo del settimanale inglese «The Observer» due giorni dopo la strage del 12 dicembre.
Una settimana prima, il 7 dicembre, lo stesso settimanale aveva pubblicato un documento, il dossier Kottakis, dal quale emergeva come il regime dei colonnelli greci, in collaborazione con settori militari italiani e gruppi neofascisti, stesse lavorando all’organizzazione di un colpo di stato in Italia.
Dopo la bomba di Milano, il periodico ritornava sul tema introducendo la formula «strategia della tensione» e puntando la sua attenzione sul ruolo del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat considerato uno dei principali referenti del «partito americano» in Italia.
«Nessuno è così pazzo da incolpare il presidente Saragat per gli attentati. Ma tutta la sinistra oggi dice che la sua [his, di Saragat] «strategia della tensione» ha indirettamente incoraggiato l’estrema destra a passare al terrorismo» (la citazione dell’articolo viene da un breve saggio dello storico Francesco M. Biscione, Strategia della tensione. Genesi e destino di un’espressione https://www.bibliomanie.it/?p=5267)
Quindi, in origine la formula ha un significato molto chiaro e legato alla «direzione» di settori dell’establishment capaci di «manovrare» l’estremismo fascista al fine di giungere, eventualmente, a una destabilizzazione del quadro democratico sul modello del colpo di stato dei colonnelli greci.
In seguito, questa definizione è stata utilizzata per descrivere tutti gli attentati che vanno da Piazza Fontana a Piazza della Loggia (alcuni considerano parte di questo progetto anche la strage di Bologna, per non parlare dell’utilizzo della formula anche per le stragi mafiose dei primi anni Novanta).
A caldo, soprattutto dopo la pubblicazione del libro La strage di Stato, anche nei movimenti si è fatto largo uso del concetto di strategia della tensione, basandosi sostanzialmente su due elementi: si trattava di stragi anonime fatte utilizzando l’esplosivo; i colpevoli erano chiaramente i fascisti, marionette dello Stato («le bombe nelle piazze, le bombe nei vagoni, le mettono i fascisti, le pagano i padroni»).
Anche il Partito comunista utilizzò questa formula (rifiutando invece quella di «strage di Stato»): le bombe erano fasciste, con la connivenza dei famosi «apparati deviati dello Stato», con lo scopo di impedire al Pci di andare al governo. Sia detto per inciso, nessuna riflessione è mai apparsa da quell’area politica e culturale per interrogarsi sul fatto che l’esito di quella stagione di bombe che vanno dal 1969 al 1974, sei stragi che provocarono 50 morti e 346 feriti, si conclude invece con la impetuosa crescita elettorale del Pci.
Oggi, a tanti anni di distanza, diversi studiosi, quando analizzano quel drammatico periodo, offrono chiavi di lettura più articolate e tendono a non leggere le differenti stragi come un unico progetto politico. In modo particolare per quello che riguarda la bomba del 1969 e quella di Brescia del 1974.
La strage di piazza Fontana avviene in un quadro politico, nazionale e internazionale, ben preciso. Un biennio di durissimi conflitti sociali che mettono in crisi il comando di fabbrica, accompagnato da una forte capacità di mobilitazione del movimento studentesco. Entrambi gli attori del conflitto (operai e studenti) sembrano sfuggire al controllo dei partiti storici della sinistra e delle organizzazioni sindacali obbligando, soprattutto queste ultime, a rincorrere i temi e gli obiettivi di lotta portati avanti dalla mobilitazione spontanea operaia.
A livello internazionale, l’Italia è l’unica democrazia del mediterraneo e solo due anni prima un colpo di stato ha portato al potere un regime militare in Grecia. In questa fase, settori importanti del potere politico, economico e militare, nazionale e internazionale, ipotizzano esplicitamente la necessità di una «guerra rivoluzionaria», di una controrivoluzione preventiva. Cominciano così a esplodere bombe anonime sui treni e su obiettivi che possano rendere plausibile l’operazione politica di incolpare la sinistra. Il Presidente della Repubblica, Saragat, non avrà alcuna remora ad accusare la conflittualità e le lotte operaie immediatamente dopo la strage della Banca dell’Agricoltura, come d’altronde aveva già fatto subito dopo la morte dell’agente di polizia Annarumma nel novembre dello stesso anno a Milano. In questo contesto, dopo solo poche ore le indagini per la bomba del 12 dicembre si indirizzano verso la sinistra estrema e gli anarchici. In realtà oggi sappiamo in maniera irrefutabile che i veri autori della strage, i fascisti della cellula veneta di Ordine nuovo, compiono l’attentato all’interno di una partita complessa con quei settori dello Stato che li appoggiano e proteggono, una sorta di «chi utilizza chi» nella quale forse, e sottolineo forse, la strage non era contemplata dai settori dello Stato che credono di poter utilizzare i fascisti.
La bomba del maggio 1974 a Brescia esplode in una situazione politica, nazionale e internazionale, profondamente differente da quella del 1969. Le sciocchezze stancamente ripetute in molte inchieste giornalistiche sulle «riunioni preparatorie di un progetto stragista che avrebbe dovuto sovvertire la democrazia italiana e rinsaldare lo scricchiolante fronte dei regimi del Mediterraneo. Quello che, all'epoca, teneva insieme il Portogallo salazarista, la Grecia dei colonnelli e la Spagna franchista» (la citazione è tratta dall’inchiesta di Carlo Bonini per «Repubblica») non reggono a fronte di una semplice analisi della realtà di quell’anno.
Nel maggio del 1974 il regime fascista portoghese è stato spazzato via dalla Rivoluzione dei garofani. I colonnelli in Grecia sono in enorme difficoltà tanto che a luglio il regime crolla. In Spagna il progetto di una continuità del franchismo senza Franco (ormai malato, morirà l’anno successivo) è saltato in aria insieme al suo successore designato, l’ammiraglio Carrero Blanco, ucciso in un clamoroso attentato dell’Eta nel 1973. Negli Usa la presidenza Nixon è nel pieno della crisi che porterà, in agosto, alle dimissioni per lo scandalo Watergate. Infine, l’Unione europea sta esercitando dure pressioni economiche e politiche per il ritorno alla democrazia nei paesi mediterranei. In questo quadro mi sembra abbastanza improbabile ipotizzare che nel 1974 settori della Nato e servizi segreti americani possano tramare per mettere in atto un colpo di stato in Italia (non parliamo della credibilità, sempre da un punto di vista storico, di questa tesi applicata pure al 1980 e alla strage della stazione di Bologna).
Rispetto alla politica interna nel 1974 il quadro istituzionale si sta modificando a favore della sinistra dove però i partiti storici e le organizzazioni sindacali hanno ripreso il pieno controllo dei conflitti sociali e il Pci ha esplicitato la sua politica di compromesso storico e non di alternativa al sistema di potere esistente. Infine, la bomba di Brescia è “anonima” molto relativamente, visto che viene fatta esplodere contro una manifestazione antifascista. Non siamo quindi più all’interno di quella strategia che punta a diffondere la paura e incolpare la sinistra.
Mirco Dondi nel suo lavoro L’eco del boato (Laterza 2015), considera le bombe del 1974 come «stragi di intimidazione» che non possono essere lette come nuove manifestazioni della «strategia della tensione».
«L’attentato alla questura [di Milano del 1973] è l’ultima strage costruita cercando di attuare il meccanismo di provocazione con lo scambio di attribuzione. Da un punto di vista tecnico segna la fine della strategia della tensione, così come delineata nel convegno del Pollio».
La mia interpretazione invece è ancora più netta di quella di Dondi. Credo che la formula «strategia della tensione», intesa come un progetto di destabilizzazione teso a stabilizzare il sistema politico oppure a rovesciarlo instaurando un regime autoritario, possa essere utilizzata correttamente solo per la strage del 12 dicembre e gli attentati che la precedono a partire dall’estate dello stesso anno: bombe anonime e colpevolizzazione della sinistra.
Dopo inizia un’altra storia nella quale i settori dell’establishment che pensavano di poter utilizzare i fascisti all’interno del loro progetto di «guerra preventiva» rinunciano a questo progetto criminale, ma continuano a proteggerli dalle inchieste giudiziarie per proteggere le proprie connivenze. E in questa logica il bizzarro tentato colpo di stato del 1970 sarebbe una sorta di «avvertimento» che quella fase è terminata.
A questo essere «scaricati» quei gruppi fascisti prima protetti reagiscono con una serie di atti criminali, «le stragi di intimidazione», ma ormai l’estremismo fascista e lo Stato sono entrati in guerra: tra il 1973 e il 1974 viene portata avanti la messa fuorilegge di Ordine nuovo e Avanguardia nazionale; il 30 maggio del 1974 nel reatino un campo paramilitare fascista viene scoperto e nel conflitto a fuoco viene ucciso Giancarlo Esposti, il primo fascista ucciso in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine.
Ecco, credo che sia venuto il tempo di non riproporre più pigramente formule e definizioni utilizzate molti anni fa ma che oggi siamo in grado di superare grazie alle conoscenze e le riflessioni che la storiografia ha fatto su quegli anni. Che poi smettano di utilizzarle anche i giornalisti forse è chiedere troppo.
Immagine: Roberto Gelini, La strage di piazza Fontana a Milano, 1969.
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Marco Grispigni, studioso dei movimenti sociali e politici degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Su questo tema ha pubblicato diversi volumi: Il Settantasette (Il Saggiatore, 1997); Elogio dell’estremismo. Storiografia e movimenti (manifestolibri, 2000); Gli anni Settanta raccontati a ragazze e ragazzi (manifestolibri, 2012); Quella sera a Milano era caldo. La stagione dei movimenti e la violenza politica (manifestolibri, 2016); Il 1968 raccontato a ragazze e ragazzi (manifestolibri, 2018).
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