Vorrei dar seguito ai miei due interventi di «scatola nera» che hanno suscitato reazioni diverse, tutte feconde di ulteriori riflessioni. Credo che la sede opportuna di questa nuova riflessione sia «spigoli» perché vorrei a questo punto ragionare prendendo maggior distanza dagli accadimenti di questi mesi e anche di questi ultimissimi decenni.
Oggi vorrei tornare sulla questione del fascismo – del suo connotato essenziale, quindi dei suoi rapporti con la modernità, il capitalismo, il dominio borghese, lo Stato di diritto, la democrazia. Non mi dispiacerebbe concentrarmi in un successivo intervento sul problema del razzismo, riservando particolare attenzione alla tragedia specificamente moderna e specificamente europea dell’antisemitismo, riemersa con tragica attualità in connessione con il nuovo capitolo dell’infinita guerra israelo-palestinese (A.B.).
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Due questioni
Nell’ultimo articolo pubblicato in «scatola nera» ho scritto che, dopo i 30-40 anni di reazione alle conquiste realizzate dal movimento operaio nel trentennio post-bellico, siamo in una fase di «neo-fascistizzazione» di buona parte dei paesi occidentali; e ho suggerito che la fase attuale è probabilmente la «verità» della precedente: non un semplice, transitorio, incidente di percorso. In questo senso la regressione verso regimi autoritari, «populistici» (pongo tra virgolette per l’ambiguità del termine), sostanzialmente post- o neo-fascisti in parte dell’Europa non dev’essere ottimisticamente intesa come un inciampo più o meno accidentale ed episodico, ma come un compimento, come l’istituirsi di un assetto stabile destinato a consolidarsi nel prossimo futuro. Tanto più se si considera che ai paesi che ricordavo nell’articolo se ne possono aggiungere moltissimi altri (l’Austria, il Belgio, la Repubblica ceca, la Slovacchia, i Paesi Bassi, la Finlandia, la Bulgaria, l’Estonia, la Romania e il Portogallo) che hanno registrato di recente una massiccia crescita dei partiti di estrema destra, senza dimenticare i recenti trascorsi della Polonia, niente affatto guarita dalla febbre nazionalista; l’enorme seguito elettorale della destra neofascista in Francia; la tormentata vicenda politica spagnola, seriamente a rischio di riprecipitare nell’incubo del franchismo.
Ora, qui mi pare si aprano due questioni. Si tratta in primo luogo di chiedersi se questa diagnosi sia analiticamente corretta o non si tratti di una tesi ad hoc: della consueta drammatizzazione estremistica della sinistra, che – incapace di registrare complessità, mediazioni, sfumature – grida al fascismo (al lupo) ogni qual volta sia estromessa dal governo delle istituzioni. La seconda questione potrebbe quindi essere così formulata: ammesso che si accetti la diagnosi di «neo-fascistizzazione», quali implicazioni è dato trarne sul terreno definitorio, tipologico, concettuale? Che cosa dovremmo dedurre dall’assunto che il fascismo è (può essere) la forma stabile del comando capitalistico? Che fine fa la cornice concettuale classica dentro la quale abbiamo lavorato e ci siamo mossi per decenni e dentro la quale il movimento operaio si è mosso, si può dire, da sempre – quella cornice stando alla quale il capitalismo vive della libertà (giuridica) del salariato (quindi presuppone lo Stato di diritto) e la modernità si distingue dalle epoche precedenti proprio in ragione del fatto che sorge e si sviluppa sulla base di un modo di produzione regolato dall’uguaglianza di tutti dinanzi alla legge? Che fine fa il presupposto analitico in base al quale, come non c’è modernità senza capitalismo, così non c’è neppure capitalismo senza la dissoluzione dell’ordine castale, senza la trasformazione di caste e ceti in classi, senza la costituzione di corpi sociali almeno formalmente (in linea di principio e di diritto) omogenei?
Forme ed essenza
Personalmente condivido l’esigenza della cautela. Non apprezzo le semplificazioni né provo alcuna simpatia per le fughe in avanti. D’altra parte credo che non sia una virtù intellettuale (né politica, né civile) la pigrizia di chi difenda pregiudizialmente certezze aprioristiche – tanto più in momenti che squadernano trasformazioni incalzanti e producono paesaggi in parte inediti. Qual è il punto?
Il punto mi pare sia, come sempre quando ci si confronta sui quadri analitici, il concetto: che cosa dobbiamo intendere con fascismo? Come ho scritto nell’articolo precedente, non credo che ci si debba fermare alle forme esteriori, che evidentemente cambiano in coincidenza con il trasformarsi della superficie del rapporto sociale e in primo luogo con la continua evoluzione degli strumenti tecnologici del controllo sociale e politico. Bisogna concentrarsi sull’essenza del problema. In questo senso suggerisco di avvalersi di un grande insegnamento del Gramsci dei Quaderni del carcere – va da sé: non del Gramsci oggi alla moda, ma di un Gramsci rispettato nella sua dignità e responsabilità di dirigente politico e di grande intellettuale comunista.
Gramsci (che rifletté sul fascismo mentre il fascismo dominava l’Italia e la Germania, e che non fece in tempo a vedere la guerra civile spagnola, né la guerra mondiale) mise in rilievo la questione dell’«espansione», cioè della capacità inclusiva della società moderna. Facendo tesoro della lezione marxiana, riteneva che in linea di principio il capitalismo viva e si sviluppi in forza di una dinamica espansiva grazie alla quale intere nazioni e interi continenti vengono via via trasformandosi in corpi sociali coesi, omogenei, attraversati esclusivamente da disuguaglianze economiche e funzionali, e non più segmentati in base a logiche di status. Di fronte all’affermarsi del fascismo, ritenne che il nuovo problema con il quale l’Europa doveva fare i conti all’inizio del XX secolo (dopo il bagno di sangue della Comune di Parigi, che era stato ai suoi occhi un accadimento epocale) fosse l’insorgere di una novità imprevedibile alla luce di quel presupposto analitico: come si poteva comprendere che, nel pieno della modernizzazione europea, si affermassero regimi incentrati precisamente sulla costruzione di gerarchie cristallizzate e difese militarmente – gerarchie castali che, va da sé, strutturavano tanto il rapporto sociale interno ai corpi sociali (di qui – nel caso italiano – il progetto corporativo; la privatizzazione della forza militare; la guerra di sterminio contro il movimento sindacale; il recupero di una logica medievale dentro la famiglia; il controllo governativo sulle grandi transazioni economiche; addirittura l’uso della polizia e dei servizi di Stato per il controllo dei movimenti sul territorio), quanto i rapporti internazionali (con il tragico ma per nulla casuale corollario delle guerre coloniali prima e dell’alleanza con la Germania nazista poi)?
Uno snodo teorico di primaria grandezza era sotteso a questa cruciale riflessione gramsciana, uno snodo che non sembra ben compreso da molti neppure oggi. Un equivoco confonde tradizionalmente il fascismo con la centralità della sfera statuale, con la sua pervasività e la crescita smisurata delle sue prerogative. Gramsci comprese che è invece dirimente la specifica funzione assegnata allo Stato e alle istituzioni politiche: la qualità, non la quantità dell’intervento politico.
Contro le apparenze, il fascismo non esaltava lo Stato, lo mortificava nella sua funzione pubblica di tutela dei diritti, di amministrazione impersonale delle risorse, di inclusione e riconoscimento degli interessi. E in ciò lo distruggeva programmaticamente. Il fascismo era la privatizzazione dello Stato, il suo asservimento al potere sociale prevalente, l’impiego della forza militare al servizio dell’interesse privato (della rendita fondiaria, del grande capitale industriale, del partito unico, del gruppo dominante e del suo Capo). Era il suo snaturamento. L’idea stessa di «Stato fascista» era evidentemente un ossimoro, a meno che non si intendesse che nell’Italia fascista la parola Stato aveva perso tutti i tratti qualificanti della statualità moderna quale istanza generata dalla critica e dal superamento dell’antico regime. L’anti-Stato fascista era in realtà un’agenzia funzionale alla distruzione della sfera pubblica: una struttura finalizzata all’uso della violenza per il ritorno al patrimonialismo feudale. In ciò si rivelava agli occhi di Gramsci il nesso contro-intuitivo che collega fascismo e liberalismo, accomunati da una concezione privatistica del rapporto sociale, dalla conseguente sacralizzazione della proprietà privata e dalla naturalizzazione delle gerarchie sociali.
Privato vs. pubblico
In tutto questo, che cosa dovrebbe interessarci oggi? Forse il manganello e l’olio di ricino? La battaglia del grano o l’oro alla Patria? Oppure, seguendo il ragionamento di Gramsci, la logica del progetto fascista, la sua ragion d’essere e il modello di società perseguito dal regime?
Se è questo che dovrebbe interessarci, la domanda che dovremmo porci riflettendo sull’oggi e sul rapporto tra gli accadimenti più recenti e i 30-40 che abbiamo alle spalle credo sia: rintracciamo noi, nel paesaggio sociale-politico delle nostre società e nella logica dei rapporti tra le diverse aree del mondo, questa medesima logica gerarchizzante, privatistica, escludente (Gramsci parlava di «disassimilazioni» di settori sociali subalterni e del «ritorno alla concezione dello Stato come pura forza»)?
Credo sia questa la domanda che ciascuno dovrebbe porsi. Dismettendo certezze, dogmi e pregiudizi, e non pensando tanto alle evidenti ma anche contingenti storture: le sperequazioni economiche crescenti in tutto il mondo capitalistico; l’impunità concessa alla grande evasione fiscale; le torture praticate da poliziotti e secondini in vena di bisboccia; le politiche criminali di respingimento e detenzione dei migranti «irregolari»; la sistematica partecipazione delle liberal-democrazie a nuove guerre aggressive. A rilevare in questo discorso sono piuttosto i mutamenti formali, segni di intenzioni progettuali e consapevoli: le trasformazioni giuridiche e istituzionali funzionali a questi dati di fatto. Per fare solo quale esempio: il via libera dei Parlamenti a «missioni» di guerra «umanitaria» o «democratica» per mezzo delle quali ridisegnare i rapporti di forza sul piano globale; i trattati europei che hanno costituzionalizzato un ordine oligarchico nel segno del neoliberismo; le norme del diritto societario che sanciscono la sovranità economica e fiscale delle agenzie di rating e dei grandi gruppi privati transnazionali; le «riforme» elettorali e dei regolamenti parlamentari che hanno trasformato le Camere in organi di ratifica; le modifiche costituzionali e le leggi ordinarie che hanno via via sancito la privatizzazione di funzioni e reti pubbliche di servizio; l’asservimento della ricerca scientifica agli interessi del capitale privato; la precarietà del lavoro; l’immunità delle rendite; la trasmissione ereditaria dei patrimoni e delle posizioni sociali; la depenalizzazione dei reati dei colletti bianchi e dei pubblici ufficiali
Diversamente formulata, la domanda che dovremmo porci è se le nostre società «avanzate» stiano rispondendo alla grande sfida del presente – la trasformazione della base sociale, con particolare riferimento alla sua composizione culturale e di origine geografica – nello stesso modo in cui seppero rispondere (o piuttosto: furono costrette a rispondere), tra la seconda metà del XIX e la seconda metà del XX secolo, ai contraccolpi tellurici della modernizzazione industriale che generò la società di massa. Allora le società liberali si dotarono di istituzioni, reti infrastrutturali, sistemi di welfare e canali di comunicazione e formazione ideologica in grado di promuovere un qualche processo di integrazione e assimilazione delle classi subalterne nel quadro della cittadinanza. Seppero, sia pure in capo a dinamiche contrastate e conflittuali, mettere in campo una capacità espansiva (per dirla con Gramsci) che le trasformò in corpi sociali tendenzialmente organici. Dobbiamo chiederci se un processo analogo si stia compiendo oggi sotto la pressione di metamorfosi non meno rilevanti e anzi ancor più problematiche (l’immigrazione da altri continenti comportando urti più insidiosi ed effetti collaterali potenzialmente dirompenti). O se, invece, non stia prevalendo un riflesso difensivo e reattivo che tende a segmentare i corpi sociali ridefinendoli in chiave gerarchica e – effetto non secondario – procura di radicare un’opinione nutrita di stereotipi e pregiudizi e pulsioni ostili avversa al riconoscimento del subordinato e dello straniero e alla loro inclusone paritaria.
Non solo: credo che prima o poi ci si dovrebbe interrogare anche sul ruolo politico programmaticamente assegnato, in questo quadro, a soggetti che di norma releghiamo al di fuori delle nostre riflessioni: come entrano in questo discorso le associazioni segrete e la mafia nelle sue molteplici (ma rigorosamente organiche) diramazioni? in che rapporto sta con queste dinamiche la presenza radicata, stabile, di un doppio Stato che coabita ed esercita sovranità non soltanto (per quel che riguarda l’Italia) nel Mezzogiorno, ma anche nei più importanti centri urbani e metropolitani del paese? che funzione svolge, sul piano internazionale, la rete delle grandi centrali del narcotraffico nella determinazione dei nuovi equilibri geopolitici? e che ruolo ha svolto e svolge la componente militare dello Stato nelle sue espressioni più o meno deviate, più o meno segrete, più o meno extra-legali, che talvolta ricorre alle bombe sui treni e nelle piazze, altre volte depista le indagini o protegge imprese o consorterie criminali?
Paradigmi
Questi erano i pensieri sullo sfondo dei miei articoli precedenti e in particolare del secondo. Ora, se si concede che non è del tutto implausibile l’ipotesi di una neo-fascistizzazione delle nostre società e degli organismi politici occidentali, la questione prettamente teoretica che credo si ponga (e che mi pare stia sullo sfondo delle riflessioni di Gramsci) è la seguente: come dobbiamo rivedere – ammesso che si tratti di rivederli – i nostri paradigmi tradizionali per mezzo dei quali definiamo modernità, capitalismo, società borghese, democrazia politica?
Gramsci si domandò in sostanza che cosa stava succedendo in Italia e in Germania (e anche negli Stati Uniti, dato che lo sviluppo delle tecniche produttive conviveva con il sostanziale arcaismo della società americana) dove il capitalismo si sviluppava sotto il comando militare dello Stato. Non era questo il modello pensato da Marx, che anzi aveva ragionato ponendo in antitesi Stato e capitale, istanza militare e poteri economici, coazione extra-economica (affidata alle agenzie del potere politico) e coazione economica (esercitata immediatamente dal mercato). Non per caso lo stesso interrogativo si pose pochi anni dopo un altro grande intellettuale del tempo, Karl Polanyi, che studiò precisamente le diverse forme di interazione tra poteri economici e poteri politici di cui il capitalismo si avvale nelle diverse fasi del suo sviluppo. Mi pare che oggi il terreno di lavoro sia ancora questo e credo che ci si debba far carico di tutta l’esperienza che il lungo XX secolo ci ha lasciato in eredità.
Che cosa non possiamo più pensare? Che il consolidarsi del capitalismo porti con sé necessariamente il consolidarsi dello Stato di diritto (tanto meno nella sua configurazione costituzionale) e di dinamiche sociali espansive. Né possiamo più pensare che il generalizzarsi del rapporto sociale capitalistico sul piano globale si accompagni necessariamente al generalizzarsi di strutture statuali di matrice democratica (fosse anche soltanto nella loro versione liberale).
Nel revocare in dubbio certezze rivelatesi infondate, dobbiamo invece cominciare a pensare che non per caso né per paradosso né per eccezione contro-natura sviluppo capitalistico e regressione autoritaria vadano d’amore e d’accordo; che, se per la fortuna di noi tutti il fascismo perse la seconda guerra mondiale, non solo questo esito non stava scritto da nessuna parte, ma l’esito contrario avrebbe potuto generare un Nuovo Ordine capace di resistere nel tempo (come per poco meno che quattro decenni resistettero, in partibus infidelium, il franchismo e il salazarismo); che, infine (ma ognuno vede come ciascuna di queste domande tenda a generarne molte altre non meno urgenti), l’idea che ciascuno di noi ha portato con sé dalla culla – secondo la quale la modernità capitalistica è per sua natura un epoca sì di conflitti radicali ma anche di transizione progressiva verso l’universalizzazione dei principi del 1789 – questa idea è probabilmente figlia di un’illusione, poiché il laboratorio della realtà storica è infinitamente più creativo delle nostre menti e gli spiriti animali della modernità hanno saputo operare ibridazioni impensate all’insegna dell’incesto tra arcaico e moderno.
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Alberto Burgio storico della filosofia e condirettore della collana «Labirinti» di DeriveApprodi, ha dedicato diversi studi al pensiero politico, con particolare riferimento al marxismo. È autore di volumi su Marx (Modernità del conflitto. Saggio sulla critica marxiana del socialismo, 1999; Il sogno di una cosa. Per Marx, 2018), Gramsci (Gramsci storico. una lettura dei «Quaderni del carcere», 2003; Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno, 2008; Gramsci. Il sistema in movimento, 2014), Labriola (Un marxismo «alquanto aristocratico», 2023. Membro del Comitato scientifico dell’Edizione Nazionale delle Opere di Antonio Labriola, ha curato l’edizione critica del saggio In memoria del Manifesto dei Comunisti (2021) e (in collaborazione) quella di Discorrendo di socialismo e di filosofia (in corso di pubblicazione). Per Machina cura, con Marina Lalatta Costerbosa, la sezione «spigoli».
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