Una storia delle mentalità con cui abbiamo affrontato la complessità del reale è qualcosa che potrebbe aiutarci a vedere più lontano della punta del nostro naso che siamo ormai assuefatti a fissare e senza neppure rendercene conto. Andare oltre le singole discipline, usarle per una visione complessiva non è un gioco intellettuale, ma l’unica maniera per trovare altri sentieri e altre soluzioni.
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Da diverso tempo ormai ho aperto il mio approccio verso la storia dell’architettura e, più recentemente, verso quella del design – discipline sulle quali lavoro da oltre un ventennio – a una contaminazione con la storia delle mentalità. Si tratta di un taglio disciplinare che indaga, in estrema sintesi, il campo delle strutture mentali o dell’immaginario sotteso al manifestarsi di determinati fenomeni culturali.
La storia delle mentalità non è oggetto, in verità, di molte trattazioni monografiche di riferimento, men che meno in italiano. Si segnala, fra di esse, l’utilissima raccolta antologica commentata, a cura di Francesco Pitocco, che fornisce le coordinate quasi mitiche (vi figurano testi di Febvre, Braudel, Le Goff) da cui è nata quella che non si può definire veramente una disciplina, bensì «l’espressione metodologicamente più innovativa e più fertile del pensiero storico del XX secolo». Molto utile anche l’omonima voce di Pietro Corrao nell’enciclopedia sui Cultural Studies che spiega cosa sia questo approccio il cui sviluppo è partito nel cuore della scuola delle Annales già negli anni Trenta. Tale studio dei ‘quadri mentali collettivi’ affonda però ulteriormente le sue radici nella storia culturale di Burkhardt e di Huizinga e si è poi arricchita dei contributi di studiosi anche esterni alla celebre scuola francese, come Norberg Elias. Se, infatti, l’interesse per le strutture antropologiche e culturali parte nell’avvio del secolo XX, è negli anni Sessanta-Ottanta che ha la sua massima ricchezza scientifica.
Ma di che si tratta in specifico? Corrao lo spiega molto bene: «l’oggetto delle indagini è quell’insieme di conoscenze, di saggezze anonime e diffuse, inconsapevoli o solo parzialmente consapevoli, di abitudini e modelli di comportamento automatici, condivisi e persistenti, diffusi in una cultura, e che costituiscono l’attrezzatura mentale collettiva, la radice delle pratiche culturali. Credenze, visioni del mondo, sensibilità, percezioni e rappresentazioni della realtà spesso caoticamente strutturate in nebulose mentali di lunga durata, tali da costituire il basso continuo di una società».
Nei venti anni di massima vitalità di questa chiave di lettura – presente nella «cassetta degli attrezzi», però, dei soli storici – i testi da essi prodotti hanno spaziato in moltissimi ambiti. Tuttavia a fatica si trovano lavori in cui lo studio della mentalità si applichi allo spazio o agli oggetti (progettati, vissuti, agiti, percepiti). È il caso dei lavori di Durand (1960), Braudel (1979), Nicolet (1989), Zumthor (1993) per citarne qualcuno. Se poi rileviamo che tale approccio, nella prassi disciplinare di chi lo ha inventato, non è nemmeno più molto vitale, forse perché è entrato abbastanza stabilmente nella metodologia operativa ordinaria, verrebbe voglia di lasciare perdere.
Invece ritengo che questo nodo possa ancora dare una ricchezza nuova e punti di vista inediti in ambiti che non lo hanno mai esperito, come la storia dell’architettura e del design. Si tratta di un punto di vista che va ad illuminare ‘le cause prime’, le strutture mentali che producono lo spazio e condizionano la progettazione delle ‘cose’; è un approccio antropologico, in prospettiva storica, che ricostruisce i sistemi culturali e le modalità strutturali (in senso epistemologico) che hanno prodotto quegli spazi e quegli oggetti in quel determinato periodo storico. Lo studio delle strutture mentali, dunque, sembra poter meglio delineare linee chiave, vere e proprie invarianti che innervano dall’interno la cultura architettonica e oggettuale, costituendone la matrice fondativa.
Il modo migliore per testare il funzionamento di questo dispositivo di analisi è vederlo all’opera, qui, in due sintetici esempi.
La veduta a volo d’uccello, come cartina di tornasole dell’identità spaziale italiana nel tardo Rinascimento
«Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: “ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò se tu ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo”» [Vangelo di Luca, 4, 1-13].
Testo archetipico, quello delle tentazioni di Cristo, che serve ad evidenziare la relazione fra spazio, dominio e un particolare punto di vista legato proprio alla condizione di dominio, cioè la vista dall’alto. L’interesse in me per questo taglio di indagine nasce in occasione della tesi di dottorato, che aveva per tema i numerosi cicli di affreschi che illustrano città e territori in sedi di potere amministrativo, religioso o dinastico sempre più diffusi durante il Rinascimento. Più precisamente, il fenomeno si diffonde capillarmente nella seconda metà del Cinquecento, in epoca post-tridentina, quando la città governata dal vescovo è assai spesso raffigurata sulle mura della sua residenza. Tuttavia, alla ovvia costruzione di un catalogo, per quanto ragionato, delle emergenze di questa particolare tipologia di affreschi, ho anteposto l’interesse per il persistere di costanti che ho trovato presenti in quasi tutti i casi di studio: la natura dell’edificio, sede di amministrazione di un potere; la collocazione all’interno di esso in alcuni specifici ambienti (con una preponderanza della funzione del prendere i pasti o della amministrazione del potere); il soggetto della raffigurazione (mano a mano che il fenomeno si definisce, la città dipinta è quella in cui si trova l’edificio e su cui si esercita il potere); ed infine il taglio appunto dell’immagine, con un netto prevalere della veduta a volo d’uccello.
Tale indagine ha dovuto espatriare rispetto ai consueti confini disciplinari, non sufficienti a chiarire in profondità alcuni dei nodi più interessanti. Il taglio dell’immagine, infatti, si rivela il nodo cruciale che attraversa numerose discipline che trascendono la storia dello spazio abitato, della città o dell’architettura. Ovvero queste ultime non sono sufficienti a spiegare, in modo che non sia superficiale, il perdurare di questo fenomeno. L’indagine allora, da semplicemente fenomenologica o «purovisibilistica» (il dipinto rappresenta la tale città), andrà invece condotta alla ricerca di quali motivazioni profonde sottendono al bisogno di raffigurare su supporto durevole uno spazio fisico, di ampia estensione, ridotto di dimensioni e spesso compiutamente visibile al di là del contenitore che lo racchiude. Se poi si evidenzia che la raffigurazione è sempre motivata in chi la commissiona da legami specifici di potere su quel territorio (dal papa che fa dipingere la Galleria delle Carte Geografiche in Vaticano al signore o al nobile che effigia i suoi possedimenti) diventa subito chiaro come uno sguardo che ne abbracci l’intera estensione sia la forma più consona a questo obiettivo. Viene in aiuto a tale indagine la letteratura antropologica e filosofica che individua la veduta dall’alto come prerogativa regale: l’antropologo Gilbert Durand, ad esempio, in modo assai pertinente, connette la coppia concettuale sovranità-vista dall’alto alla resa grafica del paesaggio dominato. Il potere si manifesta, dunque, come uno sguardo assoluto, che ha un equivalente nello sguardo di Dio, onnisciente e ubiquo. Un altro studioso, Christian Jacob puntualizza ulteriormente: «Dominare la carta, reggere il globo, è per eccellenza gesto regale, segno di un potere senza frontiere che si vuole o si sogna ecumenico. La padronanza simbolica sul mondo, tenuto sul palmo aperto, è anche uno sguardo panoptico sulla rappresentazione miniaturizzata, in grado di cogliere la totalità della forma terrestre, come il dettaglio dei suoi luoghi...» [Jacob, 1992].
Nello specifico delle rappresentazioni urbane, si evidenzia che la pianta prospettica, dominata cioè da una visione dall’alto che si àncora, però, a dati geometrici (spesso poi rielaborati per poter rendere al meglio l’effetto finale), è figlia di una cultura strettamente connessa alla volontà di rendere un vero ritratto della città, non in quanto colto al vero, ma nel senso di una immagine che ne dia un simulacro credibile, pur nell’evidente paradosso dell’impossibilità per l’uomo del XVI secolo di raggiungere una posizione elevata al punto da vedere come Dio. Tale aspetto conferisce a questo particolare taglio una qualità, come si è detto, di sovranità e di dominio che si precisa sempre più, man mano che si procede verso l’ascesa del Principato e, sul piano culturale e artistico, verso una sempre maggiore spinta all’auto-percezione o – come la definisce Franco Farinelli – verso l’emersione della coscienza dell’autoidentità soggettiva che ha negli autoritratti di Dürer, i primi firmati nella storia dell’arte, un caposaldo concettuale fondamentale. Facile pensare a questo punto ad un processo di identificazione fra il governante e il suo territorio, il cui doppio, l’immagine presente fra le mura domestiche, legittima e rafforza il potere su di esso. Va ricordata però anche la dimensione intellettuale e spirituale che associa la veduta dall’alto ad uno sguardo metaforico che comprende lo scibile dando così modo di organizzarlo e sistematizzarlo. L’esempio di Bologna in questo senso è chiarissimo e direi anche pionieristico. Basta gettare uno sguardo all’opera moralizzatrice e ordinatrice del vescovo bolognese Gabriele Paleotti (1522-1597) e dei suoi collaboratori, tra cui il frate agostiniano Cherubino Ghirardacci, lo scienziato naturalista Ulisse Aldrovandi, lo storico Carlo Sigonio tutti direttamente impegnati a rifondare, ciascuno nel proprio ambito, rami del sapere non banali, come, rispettivamente, la descrizione del territorio, delle specie naturali e della storia. Da Bologna partono i disegni per la Sala omonima voluta dal papa bolognese Gregorio XIII, assaggio per l’impresa titanica della Galleria delle Carte Geografiche. Un modello si afferma: dalla piccola residenza periferica, ai palazzi vescovili, fino alle grandi corti delle sovranità occidentali non mancheranno esempi di questa fascinosissima tipologia di dipinti, vitale almeno fino alla fine del XVIII secolo.
Quindi, per chiudere il cerchio, come spiegare al meglio un fenomeno come quello degli affreschi di argomento cartografico se non come un dispositivo di affermazione di potere, ma anche come una raffinatissima forma di identificazione fra il governante e il suo territorio. Alla luce di questo taglio di indagine, per quanto lo studio dei singoli casi, delle tecniche di rappresentazione, delle condizioni storiche, ecc., costituisca il background per circostanziare l’analisi del fenomeno, l’indagine sulle mentalità, in questo caso che presiedono alla concezione dello spazio, si configura come l’unica chiave di lettura in grado di spiegare in modo profondo e significativo l’assetto epistemologico che connota e accomuna un importante aspetto della cultura ‘italiana’ del tardo Rinascimento.
Alle radici della storia del design: il ruolo fondativo del moderno concetto di comfort
Questo secondo esempio di come la storia delle mentalità possa fornire un apporto sostanziale si applica all’ambito della storia del design. Tutti i testi di sintesi di questa disciplina si aprono con la trattazione delle conseguenze specifiche dell’ampio fenomeno della rivoluzione industriale e del caso eclatante della Great Exhibition, fiera-mercato su scala mondiale che si tenne a Londra nel 1851 e da cui tutte le moderne storie sarebbero partite.
Tuttavia, perché quella kermesse avesse tanto successo e fosse a lungo al centro di tante vicende bisognava che fosse diventato centrale e decisivo nella vita di numeri sempre più elevati di persone il ruolo degli oggetti. Certo questo era reso possibile da una produzione industriale che teneva bassi i costi e allargava la base d’acquisto, ma era necessario che le persone avessero fatto spazio nella loro vita alle cose, rimodulando le necessità anche in funzione di queste.
Ma allora, se non è l’evento epocale di metà Ottocento a dare il via ai fenomeni di consumo di massa e di estetica degli oggetti d’uso, a cosa bisogna fare riferimento per trovare il vagito di quello che sarebbe divenuto il nostro rapporto con la casa e con le cose? In sostanza qual è il motore che spinge il fruitore a mutare le condizioni del suo abitare in relazione allo spazio e agli oggetti della sua vita?
Ciò che muove l’uomo a mutare i propri assetti di vita - è forse fin banale scriverlo – si sostanzia in una progressiva ricerca di sempre maggiore benessere che, nel caso della dimensione domestica, coincide, appunto, con la ricerca del comfort, tema questo su cui sto da tempo lavorando e che spero presto possa vedere una compiuta trattazione.
La moderna accezione di questo fondamentale concetto comincia ad apparire a partire dalla fine del XVIII secolo. Ovviamente a quell’altezza cronologica non si può parlare di prodotti industriali, ma ciò che interessa è il cambiamento di mentalità, appunto, che interviene. Per comfort si può intendere la qualità, l’essenza, degli oggetti e degli spazi, misurata sulle necessità psico-fisiche della persona.
E’ dunque un concetto relativo nel tempo e nello spazio. Ciononostante, nella storia della cultura occidentale, vi è un punto di non ritorno a partire dal quale possiamo parlare di comfort moderno. Tale momento di cerniera è ravvisabile dopo la metà del XVIII secolo, in Francia e in Inghilterra, ma anche nella Germania prussiana, e non possiamo escludere che vi siano altri contesti da considerare, ad esempio quello degli inizi della storia degli Stati Uniti d’America.
La letteratura su questo tema, scarsissima in lingua italiana, per quanto consti di testi, spesso molto ricchi e talvolta definitivi, a fatica riesce a mettere a fuoco le «cause prime» di quello che si configura come un vero e proprio cambio di mentalità.
L’avvento della borghesia è sicuramente un fattore determinante: si amplia la base di coloro che intendono investire danaro per la propria autorappresentazione. I nuovi borghesi, arricchiti dagli affari e dai commerci, sono alla ricerca di modelli culturali differenti da quelli dell’aristocrazia dai quali intendono staccarsi.
Come si accennava, la questione dunque è relativa al «quando» l’oggetto cominci a guadagnare davvero la sua autonomia e «quando» diventi degno di una riflessione indipendente: quello, a mio giudizio, è il vero e proprio inizio del design in senso moderno.
Anche se vi possono essere stati fenomeni preparatori, come il senso di intimità di certa pittura olandese del secolo d’oro, doveva giungere a maturazione l’evoluzione di un pensiero che, dopo il cogito ergo sum cartesiano e la rivoluzione scientifica seicentesca, logica e astratta, andava a focalizzarsi su un’analisi della realtà indagata in modo induttivo e sperimentale. Sto parlando di una nuova visione umanista, di un moderno antropocentrismo che affonda le radici nella cultura empirista inglese a cavallo fra Sei e Settecento, per poi sfociare nel nuovo assetto epistemologico dell’Illuminismo.
«Vivre c’est sentir», su questo si basa uno degli assiomi del pensiero illuminista: l’attribuire ai sensi e al sensibile un ruolo ‘primordiale’ nella costruzione dell’individuo. In verità, nel secolo dei Lumi, sensibilità e razionalità coesistono per dare vita ad una nuova e più piena immagine di ‘uomo’: è una vera e propria «ricostruzione del mondo [in cui] tutto è messo in gioco simultaneamente, la ragione, la sensibilità, l’immaginazione, finanche il senso» [Mauzi, 1969].
È il momento in cui nasce il sé in senso moderno: Diderot, per primo, sembra usi il termine «soi» (sé) per evocare un’interiorità personale composita, frutto, da un lato, di un processo di rielaborazione degli stimoli sensibili così come, dall’altro, delle riflessioni dell’intelletto.
Grazie a questa allerta dei sensi anche l’universo di ciò che sta intorno si fa più penetrante e il quotidiano si trasforma. Il caldo, il freddo, gli odori, lo sforzo, la fatica, il contatto con l’aria, con l’acqua, con la luce: tutto ciò che attiene ai sensi diviene oggetto di curiosità e di attenzione.
Nodo cruciale e cassa di risonanza di questo cambio di paradigma è senza dubbio l’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, (1751-1772) di Diderot e D'Alembert: progetto sistematico di riorganizzazione e di ricomprensione della realtà, responsabile di un cortocircuito culturale, uno scatto nella mentalità comune: da qui in avanti, a più livelli ed in più ambiti, il benessere fisico e psichico diviene centrale, attraverso l’emancipazione del mondo dei sensi, non più represso e frustrato, ma reso pilota. A tale fine sarà strategico il nuovo impulso allo sviluppo della tecnica, anch’esso garantito dalla diffusione capillare delle planches dell’Encyclopédie: l’abitazione potrà cominciare ad avvalersi delle migliorie necessarie a renderla pienamente e finalmente confortevole non solo sul piano del gusto e dello stile, ma anche a livello funzionale e impiantistico.
L’importanza di stare bene nel «proprio», di stare bene at home, diventa patrimonio diffuso, non solo in ambito francese, né solo in campo filosofico se, ad esempio, di lì a poco Jane Austen farà dire ad Emma, eroina del suo omonimo romanzo: «Ah! There is nothing like staying at home, for real comfort».
Non è più, dunque, l’abitante ad adattarsi alla casa ma la casa ad adattarsi a chi la vive.
Questo fondamentale cambio di paradigma, ancora una volta strutturale, di mentalità, si riflette nell’atteggiamento di chi trasforma il proprio ambiente domestico in funzione di una sempre maggiore comodità di utilizzo. Parametri di tale mutamento di approccio allo spazio e alle cose sono la conformazione degli interni e la loro distribuzione, il miglioramento degli impianti tecnici (in termini di riscaldamento, di approvvigionamento idrico, ecc.), la realizzazione di mobili sempre più performanti sul piano della comodità (in primis le sedute, ma poi si veda la proliferazione di tavoli per ogni funzione), ecc.
Incunaboli per questa intima e pervasiva ricerca di benessere sono ad esempio il Petit Trianon, o certe bastides provenzali, la residenza di Monticello di Jefferson o il castello di Charlottenhof a Potsdam.
Ecco che il motivo profondo del successo del primo «expò» londinese è impensabile senza questo radicale cambio di paradigma, senza questa progressiva e inarrestabile dipendenza dagli oggetti in grado di assolvere molteplici funzioni, materiali e psicologiche, a servizio del proprio e sempre più intimo benessere, del proprio comfort, appunto.
Qui si è solo potuto dare cenno di come la storia delle mentalità, di norma strumento disciplinare nelle mani degli storici «puri», possa invece diventare un ricco e prezioso taglio metodologico per sondare ambiti come la storia dell’architettura e del design, evitando che diventino campi di indagine autoreferenziali, attestati o su pratiche attributive sterili o su segmenti cronologici ormai sempre più vicini a noi.
Ma c’è di più. Un metodo di analisi come quello che ho tentato di delineare, multisettoriale e cross-disciplinare, consente di individuare dei ‘dispositivi culturali’, come delle lenti, da cui guardare con occhi nuovi il panorama scientifico tradizionalmente accreditato e consueto. Qui, a titolo esemplificativo, il discorso è caduto sulla vista dall’alto e sul comfort, spie del preciso quadro culturale che li ha generati e resi portatori dell’identità complessa di quel determinato momento storico. Ma ai margini, nei confini fra le discipline, dove i lembi dell’una si sovrappongono e si confondono con quelli della contigua, dove avviene uno scambio talvolta scandaloso fra fonti e fra metodi, è sempre possibile trovare questa sorta di «serrature», concetti operanti e fecondi, fonti luminose che gettano luce sulla storia e sulle storie, varchi nel muro compatto del singolo sapere da cui guardare il proprio ambito di interesse con occhi radicalmente nuovi.
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Sitografia
http://www.studiculturali.it/dizionario/lemmi/storia_delle_mentalita.html (pubblicato nel 2004, consultato nell’ottob
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Maria Beatrice Bettazzi, laureata in Storia dell'Arte presso l'Università di Bologna, fin da subito concentra la propria attività nell'ambito della Storia dell'Architettura. Da oltre venti anni è professoressa a contratto in Storia dell'Architettura e, più recentemente, in Storia del
Design presso la Scuola di Ingegneria e Architettura dell'Università di Bologna.
È stata nominata nel 2014 Consulente scientifica dell’Archivio Storico dell’Università di Bologna. Ha collaborato a riviste e volumi sui temi dell'architettura rinascimentale, barocca e ottocentesca, su questioni connesse all'iconografia urbana, alle evoluzioni dello spazio sacro in epoca contemporanea e alla storia della mentalità dello spazio in prospettiva storica.
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