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Si può superare il carcere minorile?


Carcere

Con questo testo di Desi Bruno, che s'interroga sul superamento dell'istituzione carceraria, inauguriamo la nuova sezione «spigoli», curata da Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa.


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Il numero complessivo dei detenuti minorenni nel nostro paese non supera complessivamente le 400 unità[1]: nel tempo si è assistito ad una progressiva diminuzione delle presenze.

In apparenza quindi il sistema giudiziario sembra essersi avviato verso il superamento della detenzione come risposta alla devianza giovanile. Molti passi in avanti sono stati fatti con la riforma del 1988 (DPR 22.11.1988 n. 448) che, introducendo il giusto processo nel processo minorile, ha differenziato in modo significativo l’aspetto custodiale per i minori, non abolendo il carcere, ma riducendolo ad estrema ratio, anche attraverso l’introduzione di due istituti, il proscioglimento del fatto per particolare tenuità (art. 27) e la messa alla prova (art. 28), quest’ultima anche per reati gravi, istituto poi mutuato nel processo per gli adulti per reati di minor disvalore.

La nostra storia giuridica nel campo minorile è una storia di civiltà, a fronte di paesi che conoscono la presenza di migliaia di minori detenuti e in tal senso va respinta ogni proposta di riduzione della soglia di imputabilità dai 14 ai 12 anni periodicamente invocata di fronte a tragici eventi che coinvolgono anche autori di reato di giovane età.

È vero che la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, mentre esclude per i minori l’ergastolo, non elimina il carcere, sia pure come misura residuale.

Ma le Convenzioni, anche le più avanzate, sono spesso il risultato di mediazioni, e l’esperienza di questo Paese sembra indicare come possibile la strada del superamento del carcere, istituzione fortemente stigmatizzante e alienante, soprattutto per i più giovani.

Ma oggi possiamo chiederci se, a fronte di questi numeri e di questa realtà, non si possa ritenere superabile l’istituzione totale con una riforma del sistema sanzionatorio a favore di forme di custodia e di controllo in comunità, della permanenza in casa, della progettazione di percorsi di formazione, scuola e lavoro, che in carcere subiscono una inevitabile compressione e che nell’ambito minorile a volte non lasciano traccia per la brevità del tempo in cui si svolgono e per l’assenza di una progressione all’esterno.

L’istituzione totale, anche la più modesta per dimensioni e caratteristiche, ha un effetto stigmatizzante e può comunque generare eventi tragici.

Il riferimento ai «ragazzi del Pratello» o «ai ragazzi del Beccaria»[2] indica , per esempio, e al di là di tutte le offerte trattamentali del territorio, un dato di emarginazione che fa parte del comune sentire.

E gli spazi di pernottamento sono celle con le sbarre chiuse anche parte del giorno: chi potrebbe non sentirsi solo per questo già portatore di uno stigma?

Le risorse destinate alla gestione dei penitenziari potrebbero essere investite in altro modo, con una razionalità che non appartiene mai all’universo carcerario e la cui assenza impedisce di prendersi davvero in carico poche centinaia di persone. Del resto la sicurezza collettiva si aiuta con le alternative al carcere, se è vero che i dati del Dipartimento di giustizia minorile attestano che il tasso di recidiva si abbassa al 22% se c’è un progetto di reinserimento, mentre arriva al 63% in assenza.

Il Decreto legislativo 2 ottobre 2018 n. 121 «Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni», realizzando dopo 43 anni a quanto previsto dall’art. 79 della L. n. 354/’75 , e cioè un autonomo ordinamento minorile, sembrava avere aperto la strada ad una riforma di sistema, prevendendo addirittura la possibilità che i minori detenuti potessero svolgere attività di istruzione nelle scuole esterne all’istituto penitenziario (art. 18). Così non è stato, pur nel miglioramento di una serie di indicatori di maggior civiltà quali l’aumento delle ore di colloquio e di visite con i familiari, il favor per le misure di comunità (art. 2), così ridefinite le misure alternative alla detenzione, la previsione di sezioni a custodia attenuata per detenuti che non presentano rilevanti profili di pericolosità o prossimi alle dimissioni (art. 25).

E del resto il continuo verificarsi di episodi di aggressione o comunque di violenza su cose e persone all’interno degli istituti indica che la strada non è compiuta. Le questioni aperte sono molte, dalla presenza significativa di ragazzi stranieri, per i quali le prospettive sono più difficili, all’assenza nei territori di comunità specifiche per ragazzi portatori di disagio psichiatrico ed altro.

Dunque, la risposta carceraria non è allo stato superata, ma in questo complesso scenario la detenzione minorile deve da anni confrontarsi con un tema delicato: la contestuale presenza di giovani adulti, cioè di coloro che hanno commesso il reato da minorenni e hanno un’età ricompresa dai diciotto ai venticinque anni, a seguito della entrata in vigore del DL. 92 del 26.06.2014 convertito nella L 117/2014, presenza a volte preponderante rispetto ai ristretti minori.

La presenza dei giovani adulti ha in qualche modo reso più difficile il percorso dei minori detenuti, in virtù di una commistione che non tiene conto sino in fondo della diversità dei percorsi di vita, e soprattutto delle esigenze di cura e affettive legate all’età ed è spesso diventato fonte di sopraffazione o comunque di disagio.

La ratio della norma (art. 10), condivisibile, di offrire opportunità e di sostegno difficilmente rinvenibili nel carcere degli adulti, ha prodotto una serie di conseguenze negative sul percorso a volte di entrambe le tipologie dei giovani detenuti, che devono non condividere gli spazi di pernottamento, ma che durante il giorno convivono negli istituti, non certo strutturati per accogliere tali diversità.

Non è un tema di poco conto: la scelta di separare i giovani autori di reato dalla popolazione detenuta del carcere dei maggiorenni è senz’altro condivisibile, ma andrebbero creati appositi istituti, per incrementare e coltivare le possibilità di reinserimento ed evitare contaminazioni che rafforzino scelte devianti, ma non a scapito dei più giovani. È vero che se l’autore di reato che ha non ha compiuto i venticinque anni è entrato in un istituto per adulti dopo il diciottesimo anno in custodia cautelare o espiazione pena non si applica la normativa sull’esecuzione per i minori di età, ma condivisione di spazi in luoghi di privazione della libertà personale tra fasce di età differenti così come le esperienze già trascorse non solo altera il dato numerico, ma rischia di vanificare ogni sforzo verso l’effettivo superamento del carcere almeno per i minori di età, dando una rappresentazione almeno in parte in parte alterata di bisogni personali e anche collettivi, come in tema di sicurezza sociale.

I minori ristretti devono poter trovare una collocazione altra, lasciando gli edifici minorili alla fruizione dei giovani adulti per i reati commessi da minorenni (e salva la collocazione degli stessi, come detto, in altri istituti se sono stati commessi altri reati da maggiorenne).

La previsione di sezioni a custodia attenuata per i minori contenuta nel Decreto legislativo n. 121/2018 può essere di orientamento al legislatore per avviare una revisione strutturale degli istituti, tutti gli istituti penitenziari, modulando le strutture sulle esigenze di reinserimento e di riduzione della penalità, a cominciare dai giovani non ancora alla soglia dei venticinque anni, da cui tratterebbe anche vantaggio un diverso impiego di risorse investite in oramai fatiscenti e improbabili penitenziari, impossibili da manutenere, all’interno dei quali vivono e operano migliaia di persone, operatori e detenuti , in una dimensione surreale all’apparenza, ma vera nella realtà, dove qualunque attività di vita quotidiana è ancora una conquista.

Di recente è stata avanzata la proposta di istituire case territoriali di reinserimento sociale per pene detentiva brevi, riprendendo un'indicazione di Alessandro Margara, volta a superare per una parte consistente della popolazione, se priva di risorse autonome abitative sociali e familiari[3], la necessità del carcere, se solo si pensa che nel 2022 era detenuta in esecuzione ad una pena inferiore ad 1 anno il 3,7 % della popolazione detenuta adulta[4].

Certo, anche l’istituzione di «luoghi» per pene brevi, a cui si è cercato di ricorrere anche nel periodo pandemico, appare un rimedio in contraddizione con la dimensione temporale di pene che dovrebbero sostituite con misure alternative come l’affidamento in prova al servizio sociale ex art 47 O.P. (ordinamento penitenziario) o con le nuove misure sostitutive della pena (in particolare lavori di pubblica utilità) introdotte dalla recente riforma cd. «Cartabia» (Decreto legislativo n. 150/2022), ma in una prospettiva di riduzione delle presenze in ambito detentivo, che appare ancora una priorità assoluta per il permanere di condizioni di vita inaccettabili, va comunque valutata nella sua fattibilità, considerando però che il necessario coinvolgimento di risorse territoriali, di volontariato, di enti locali presuppone, da sempre, una concezione illuminata (ed anche pragmatica) dell’esecuzione e ancora prima della penalità che continua a mancare.



Note [1] Secondo il diciannovesimo Rapporto dell’Associazione Antigone sulle condizioni di detenzione dei minori a popolazione detenuta al 15 marzo 2013 era composta da 380 ragazzi, di cui solo 12 donne. I minori di età sono 180, mentre i giovani adulti tra i 18 e i 25 anni sono 200. [2] Il riferimento è agli istituti penali minorili IPM del «Pratello» di Bologna e «C. Beccaria» di Milano. [3] Proposta di legge n. 1064 presentata il 30.03.2023 - camera.it [4] il dato è tratto dal Rapporto annuale dell’Associazione Antigone, che indica come presenti negli istituti penitenziari 56.700 persone detenute.


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Desi Bruno svolge l’attività di avvocato penalista dal 1986 nel Foro di Bologna. Ha rivestito numerosi incarichi, in particolare è stata prima Garante per le persone private della libertà personale per il Comune di Bologna dal 2005 al 2010 e poi per la Regione Emilia-Romagna dal 2011 al 2016. Attualemente ricopre il responsabile dell’Osservatorio Carcere e diritti umani della Camera Penale «Franco Bricola» di Bologna.



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