Pubblichiamo un'analisi di Diego Giachetti sugli anni Ottanta che si inserisce nel progetto della cartografia dei decenni che Machina sta portando avanti e che darà vita in primavera a due Festival, il primo a Roma sugli anni Ottanta e il secondo a Bologna sugli anni Novanta [1].
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Delle nostre voglie e dei nostri jeans che cosa resterà
Cosa resterà di questi anni Ottanta
Afferrati e già scivolati via
Anni vuoti come lattine abbandonate
Anni rampanti dei miti sorridenti da wind-surf
(Raf, Cosa resterà degli anni ’80, 1989)
Negli anni Ottanta due giovani generazioni s’intersecavano, si combinavano e si scompaginavano. Una, più attempata, aveva per protagonisti gli attori sociali e politici dei movimenti degli anni Settanta. L’altra, infante e adolescente nel decennio precedente, si accingeva a diventare giovane negli anni Ottanta. Il primo e più «anziano» spezzone generazionale stava abbandonando il campo dell’impegno politico, travolto dal riflusso, come si diceva, dopo la sconfitta dei movimenti e delle possibili rivoluzioni, politiche e personali, allora possibili. Una ritirata spesso costretta, rabbiosa, rancorosa, incapace di produrre adattamento e inserimento nella vita quotidiana, ancora in grado di organizzare resistenze sociali, culturali e politiche, minoritarie e sempre più relegate in determinati e specifici ambiti. Parallelamente maturava una generazione «vacua», secondo la definizione del filosofo ex operaista Massimo Cacciari, che aveva evitato il «massacro» della repressione poliziesca e mass-mediologica subito dai giovani estremisti degli anni Settanta, ma che non sfuggì alla rivincita della politica negli anni Ottanta [2]. Una rivincita all’insegna del rampantismo craxiano, della politica come investimento, carriera, affare e accaparramento delle risorse, che preparava il suo fallimento nei confronti della società civile, dei partiti e delle istituzioni, camminando, senza saperlo, verso «tangentopoli», termine usato dal 1992 per definire un sistema diffuso di corruzione politica
Entrambe le generazioni si sentivano «orfane». La prima era orfana dei suoi miti e riferimenti. Mao era morto, Che Guevara prima di lui, il marxismo era in crisi, la rivoluzione non sarebbe venuta. Mentre gli Stati Uniti d’America stavano superando la «sindrome del Vietnam», l’Unione Sovietica sprofondava nella «sindrome afghana» e altri paesi «socialisti» si facevano guerra tra loro. Il Vietnam invadeva la Cambogia e la Cina, sulla via della demaoizzazione, lo aggrediva. Una ventata fredda investiva le generazioni più giovani provocando «con la luce crudissima gettata sul recente passato troppo mitizzato, ammutolimento, stanchezza e diserzione» [3]. La seconda stava crescendo senza padri né maestri, come titolava un libro prodotto da due sociologi sulla condizione giovanile, pubblicato nel 1980 [4], un anno prima di una celebre canzone di Vasco Rossi, Siamo solo noi del 1981, una sorta di inno generazionale degli «sconvolti» che non «han più santi né eroi», che non han «più niente da dire».
Agire per eccesso
La «generazione di sconvolti» del decennio precedente s’incontrava con i giovani degli anni Ottanta, quelli che portavano i capelli a caschetto, spesso stinti, indossavano camiciole sintetiche e jeans ma di foggia orientaleggiante e calzavano scarpe da jogging, figli dell’integrazione forzata di migliaia e migliaia di famiglie immigrate, stipate nei quartieri periferici delle città. Nell’amalgama convivevano atteggiamenti differenti. Rabbia, disperazione, nostalgia e impotenza caratterizzavano le figure giovanili, consapevoli che non esisteva «alcuna utopia da realizzare, alcun progetto politico da costruire, alcuna comunità o patria da rifondare» [5]. Il senso dell’agire quotidiano si smarriva per mancanza di finalità predefinite. La dissociazione produceva comportamenti eterogenei, frammentati, dovuti alla «perdita di centro, alla non abitudine a realizzarsi in termini unitari» [6].
La caduta di tensione politica fra i giovani si univa ancora ad una resistenza alla società così come si profilava nei primi anni Ottanta (yuppista, frivola, ipocrita e post-industriale), ma era un rifiuto che aveva un fondo di amaro perché poggiava sul dubbio che fosse difficile un cambiamento del sistema, come risultato del necessitante corso della storia o per l’azione della soggettività organizzata e indirizzata. Crollate le ideologie e le speranze rivoluzionarie, ripiegati su se stessi nel tentativo di cambiare almeno la quotidianità, collocati in una società che andava in tutt’altra direzione rispetto a quella sperata, dove i legami e i rapporti sociali tra le persone tendevano alla precarietà, non rimaneva che «agire per eccesso», che voleva dire esaltare «l’adesione alla vita e a tutti i suoi aspetti, perché l’eccesso si afferma come dissacrazione immediata di ogni comportamento, gesto, discorso, in un mondo dove non c’è alcuna redenzione, ma solo l’inesorabile legge della fine di tutto» [7].
Accelerare la vita, andando «al massimo», incontro a un avvenire imprevedibile. Una vita possibilmente «come quella dei film/ esagerata/ piena di guai/ che non dormi mai»; un susseguirsi di spostamenti nomadi, di gruppi di persone, diverse, perse dietro i propri guai, senza collocazioni e mete da raggiungere, alle quali restava solo la speranza di trovarsi ogni tanto «come le star/a bere del whisky al Roxy bar» [8]. Vivere quindi sopra le righe, intensamente, nel bene e nel male. Più che dare un senso alla vita, avere i sensi pronti per recepirla in tutti i suoi aspetti, provando a vincere la banalità del quotidiano, il grigiore della vita nelle periferie delle metropoli, il deserto di emozioni e sensazioni dentro le quali si sprofondava nella provincia, nei piccoli comuni italiani.
Generazione al femminile
La leva giovanile che si presentava alle soglie degli anni Ottanta si distingueva da quella precedente per il protagonismo delle giovani donne. Una ricerca Isvet condotta agli inizi degli anni Settanta mostrava un’immagine della donna non completamente diversa da quella tradizionale. Le ragazze continuavano infatti a esprimere orientamenti politici più moderati e culturalmente più tradizionali rispetto ai loro coetanei maschi. Alle soglie degli anni Ottanta il segno si rovesciava. Soprattutto tra le studentesse emergevano orientamenti culturali e politici più innovativi e radicali rispetto a quelli dei loro coetanei di sesso opposto.
Le ragazze erano più sicure, decise, disposte ad affermarsi. La presa di coscienza femminista, le lotte del movimento delle donne, lo strumento dell’autocoscienza, avevano dato loro fiducia. La denuncia della «mascolinità», della separazione tra personale e politico, tra pubblico e privato, della non neutralità dei ruoli sociali, ma della loro dipendenza dal genere, consentivano alle giovani donne di rapportarsi meglio e senza grossi traumi con la crisi della politica, la fine dei movimenti di contestazione e dei gruppi della nuova sinistra.
Il femminismo rompeva la data per stabilita armonia della coppia, scoprendolo rapporto di dominio e di sopraffazione. Sottoponendo ad analisi microscopica gli aspetti quotidiani, soffermandosi sui particolari più intimi dei rapporti tra i sessi, non solo frantumava la politica riducendola al personale, ma metteva in discussione l’identità maschile, il ruolo dell’uomo non solo nella società in genere, ma nell’agire quotidiano. Tra le giovani donne liberate dal femminismo e i giovani uomini storditi e stupiti dai ribaltamenti di ruolo, regnava spesso l’incomunicabilità. Difficile era parlarsi, capirsi, sentirsi vicini anche usando il linguaggio dei corpi.
Deflazione politica
Gli anni Ottanta segnavano una svolta rispetto ai movimenti sociali e di protesta a base giovanile a cominciare dai suoi obiettivi. Ai movimenti a forte matrice ideologica subentravano mobilitazioni ad hoc più occasionali ed estemporanee, focalizzate su singoli problemi, le quali assumevano forme organizzative meno rigide e gerarchizzate che sfuggivano al controllo dei partiti. Raccoglievano consenso e partecipazione giovanile il movimento ecologista e quello pacifista, antinucleare, tutti caratterizzati da strutture reticolari. Un significativo esempio venne dalla protesta dei «ragazzi dell’85», così fu battezzato e passato alla storia quel movimento, contro la richiesta di aumento delle tasse scolastiche.
La protesta era dominata da uno spirito pratico e riformista, chiedeva sostanzialmente una scuola che funzionasse meglio, che preparasse di più, che fosse più aderente alle esigenze del mercato del lavoro, che rinnovasse la didattica e l’insegnamento, che introducesse l’informatica e i computer. Quegli studenti erano stufi di vivere parte della loro giornata in aule e corridoi che riportavano ancora sui muri i vecchi slogan tracciati negli anni Settanta. Tra loro non si chiamavano più «compagni», ma «ragazze e ragazzi», «dateci la possibilità di emergere», gridavano nelle manifestazioni di piazza, sempre pacifiche, con canti, cori, slogan mai offensivi o violenti. Il movimento era composito, trasversale, poco ideologico, raccoglieva e metteva assieme Punk, Paninari, Mods, frequentatori assidui delle discoteche («discotecari») e dei gruppi da base cattolici o della parrocchia.
Le «vecchie» ideologie politiche perdevano di valore tra i giovani, interessati da un processo di «deflazione della politica» iniziata nel «triennio maledetto» (1980-1982) in cui si era verificata una caduta libera dell’interesse e della partecipazione politica rispetto agli anni precedenti [9]. Un processo di delusione e di allontanamento dalla politica e dall’impegno, misurato da inchieste sociologiche. Nel periodo 1969-1970 i giovani politicamente attivi erano il 22% del campione preso in considerazione. Circa dieci anni dopo, nel 1983, solo tre giovani su cento si dichiaravano politicamente impegnati, nel 1987 il dato scendeva al 2,3%; parallelamente cresceva il tasso di «disgusto per la politica»: 23,1% nel 1983, 27,3/ nel 1987, 35,9% nel 1992, 43,1 nel 1996, 44,6 nel 2000[10].
La politica, che aveva riempito la vita di tanti giovani, militanti di gruppi extraparlamentari e del movimento negli anni Settanta, perdeva la sua dimensione pervasiva, quella che faceva dire pochi anni prima: «tutto è politica», comprese le relazioni interpersonali. Diventava o ridiventava uno dei tanti aspetti dell’esistenza, uno dei modi possibili di usare il proprio tempo di vita. Per la nuova generazione non tutto era politica, anzi il personale e il privato tornavano a essere tali. La politica tornava a essere una dimensione della vita quotidiana, che occupava un pezzetto sempre più piccolo fra i molti interessi che si potevano coltivare: non aveva più quel valore che definiva e dava un senso alla propria esistenza.
Un’esistenza il cui significato era sempre più difficile da definire, perché sembrava collocata in un vuoto di prospettive, il quale anticipava l’ideologia della fine delle ideologie, la storia della fine della storia, connotazioni tipiche degli anni Novanta. Sostituiva in parte il tracollo dell’impegno politico quello sociale, soprattutto nelle organizzazioni del volontariato composte da un universo di piccoli gruppi tematici e specifici, pragmatici, spesso focalizzati al raggiungimento di un solo ed unico scopo, limitato e preciso, privo di grandi progetti di trasformazione complessiva della società.
Nuovi luoghi di socializzazione
In quegli anni nuovi luoghi di confronto e socializzazione erano frequentati dai giovani. I concerti, la discoteca, il tifo calcistico, sostituivano i precedenti spazi di socializzazione offerti dalle parrocchie, dai gruppi politici della nuova sinistra, dal movimento, dalle organizzazioni giovanili legate ai partiti. Concerti e discoteche assolvevano questo compito e diventavano luoghi dove migliaia e migliaia di giovani s’incontravano costituendo delle comunità fondate sul bisogno di evadere, di rompere la monotonia quotidiana, vivere in spazi differenti esperienze formative. Come era stato per la partecipazione ai movimenti, il ballo di gruppo in discoteca fungeva da «stanza degli specchi», dove ognuno, individualmente o aggregato in sottogruppi, rifletteva e interagiva «per confondersi in nuovi modelli di identità e comunicazione», in «comunità effimere e momentanee» basate su forme di partecipazione tattili, empatiche, di corpi che si muovevano «toccandosi» e «pensando» [11], assieme e contemporaneamente. Le discoteche esercitavano, negli anni Ottanta e Novanta, un’attrazione crescente sui giovani. La percentuale di quelli che non si erano mai recati in discoteca scendeva dal 47,2% del 1983 al 34,9% del 1992, mentre quelli che la frequentavano passavano dal 52,8% al 65,1% [12].
In quel decennio iniziava la colonizzazione della notte. Per i giovani protagonisti di questa conquista, voleva dire appropriazione di spazi di libertà, quelli della notte, appunto, «dove gli individui possono temporaneamente svestirsi dei ruoli sociali per indossare gli abiti dell’evasione e le sembianze del gioco» [13]. Le ragioni della colonizzazione della notte erano motivate dal bisogno di frequentare le discoteche, di gironzolare con amiche e amici, frequentare bar, pub e birrerie, frequentare palestre e praticare sport, suonare, andare in pizzeria, al cinema, ai concerti.
Nelle città italiane si diffondevano gruppi giovanili di pari sulla base di affinità di stili di vita, musica, frequentazioni di locali e modo di fruizione del tempo libero, che frammentavano la condizione giovanile in sottogruppi e sottoculture, spesso in contrasto, dando vita a vere e proprie bande, riconoscibili tra loro. Una miriade di nomi di «tribù» animava la scena giovanile degli anni Ottanta: punk, dark, paninari, mods, skinhead, i ragazzi da stadio, che si identificavano con tifoserie opposte. I contrasti e le liti, anche violente, tra questi gruppi giovanili abbandonavano il diretto alla politica (destra/ sinistra, fascisti/ antifascisti), diventavano scontri tra costumi, stili di vita, propensioni musicali.
Era negli anni Ottanta che nascevano e si diffondevano i centri sociali. Essi rappresentavano il punto di unione e di transizione dalle forme della socialità e della controcultura giovanile degli anni Settanta a quella degli anni Novanta. Nascevano come reazione alla sconfitta dei movimenti, si insediavano in edifici in disuso nei centri urbani o nelle periferie metropolitane, secondo una pratica già adottata dai giovani che alcuni anni prima avevano dato vita ai circoli del proletariato giovanile. L’azione di gruppi giovanili fortemente suggestionati da esperienze politiche degli anni Settanta, quali ad esempio l’autonomia operaia o, ancor prima, l’anarchismo, si intersecava con i bisogni di stare assieme, di socializzare e di sentire musica di una parte delle nuove generazioni. Si formavano delle «enclave sociali» [14], «per resistere/ per difenderci/ per non cedere/ per sopravvivere con la musica al silenzio che c’è», per segnalare che si era vivi e si voleva sfuggire al destino postmoderno della fine della storia, non essere sepolti in «un metrò che non parte mai» [15].
Un finale da pantera
Gli anni Ottanta si concludevano col movimento della Pantera che si sviluppava in Italia nel gennaio del 1990 con una serie di occupazioni universitarie, seguite da quelle liceali, per protestare contro il disegno di legge del ministro Ruberti che prevedeva l’ingresso delle aziende e dei privati, con i loro finanziamenti, nell’Università e, quindi, nella determinazione dei curriculum culturali, professionali e formativi degli studenti. Il movimento si autobattezzava «della Pantera» perché, proprio in quei giorni, un felino di tal genere era fuggito dallo zoo di Roma e i giornali e la televisione enfatizzavano la sua pericolosità. La colonna sonora del movimento era la musica rap, quella delle «posse», gruppi di musicisti italiani che si erano formati suonando nei centri sociali occupati da giovani che in questo modo avevano voluto consumare una sorta di secessione, di separazione, di marginalizzazione, direbbero i sociologi, dalla società, dall’ambiente che ritenevano culturalmente e socialmente degradato delle città. Nelle università occupate dalla Pantera, la «periferia» dei centri sociali muoveva verso il centro delle città, entrava nelle facoltà, organizzava spettacoli musicali, presentava la propria alterità, diversità e rivendicava una rabbiosa quanto disperata voglia di vivere. Tra denunce e sgomberi della polizia il movimento della Pantera finiva nell’estate del 1990.
[1] Riprendo con tagli e aggiunte, parte del mio testo, Fra riflusso e vite spericolate: forme di resistenza umana negli anni Ottanta, pubblicato su «Il Presente e la Storia», n. 62, dicembre 2002. [2] M. Cacciari (intervista a cura di G. Padovani), “Non criminalizzate il movimento”, «La Stampa», 10 agosto 2001. [3] B. Bongiovanni, La caduta dei comunismi, Garzanti, Milano 1995, p. 29 [4] L. Ricolfi, L. Sciolla, Senza padri né maestri, De Donato Bari 1980. [5] M. Ilardi, Delitto e castigo. I giovani ribelli di fine millennio, in Ragazzi senza tempo, Costa e Nolan, Genova 1996, p. 96. [6] F. Garelli, La generazione della vita quotidiana, Il Mulino, Bologna, 1984, p. 313. [7] M. Ilardi, cit., p. 97. [8] Il riferimento è a due canzoni di Vasco Rossi: Vado al massimo del 1982 e Vita spericolata del 1983. [9] I termini «deflazione della politica» e «triennio maledetto» sono usati da L. Sciolla, L. Ricolfi, Vent’anni dopo. Saggio su una generazione senza ricordi, Il Mulino, Bologna 1989, p. 135 e p. 145. [10] Cfr., Giovani del nuovo secolo. Quinto rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia, a cura di C. Buzzi, A. Cavalli, A. De Lillo, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 261. [11] Così scriveva M. T. Torti, I riti del ballo, «Aut Aut», n. 303, maggio-giugno 2001, p. 132 e p. 137. [12] Dati rielaborati dalla tabella riportata in A. Cavalli, A, de Lillo, Giovani anni 90, Il Mulino, Bologna, 1993. [13] M. T. Torti, Musica e notte, in Giovani del nuovo secolo. Quinto rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia, a cura di C. Buzzi, A. Cavalli, A. De Lillo, Il Mulino, Bologna 2002, p. 464. Di M. T. Torti si veda anche Abitare la notte, Costa & Nolan, Genova 1997. [14] A. Cavalli, C. Leccardi, Le culture giovanili, in Storia dell’Italia repubblicana, volume terzo, Einaudi, Torino 1997, p. 795. Sui centri sociali vedi tra le ricerche coeve, AA.VV., Comunità virtuali: i centri sociali autogestiti in Italia, Roma 1994, P. Moroni (a cura di), Centri sociali: geografie del desiderio, Milano, 1996. [15] Le citazioni sono tratte dalla canzone di Scialpi, Rockin’ n’ rollin’, 1983.
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Diego Giachetti (1954) vive a Torino. Si è occupato di movimenti giovanili e di protesta attorno al ’68 e delle lotte operaie nel corso dell’autunno caldo. Molteplici le sue pubblicazioni, tra le quali La rivolta di corso Traiano (1997-2019); Un Sessantotto e tre conflitti (2008). Con DeriveApprodi ha pubblicato Nessuno ci può giudicare (2005) e Il sapere della libertà. Vita e opere di Charles Wright Mills (2021).
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