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Sacco di pulci, pianeta a scelta e poesia


 



Daniela Piegai fantascienza
Immagine: Teresa Murak, Sculpture for the Earth, 1974

Un racconto inedito (approssimativamente del 2015) di una delle figure più rappresentative della fantascienza italiana, gentilmente condiviso con «Machina» da Laura Coci e Roberto Del Piano (che ringraziamo immensamente) che stanno portando avanti un ponderoso lavoro di recupero degli scritti di Daniela Piegai.

  

***

 

 Cammino lungo le mura fortificate della città, e di fronte a me, appena oltre la luce fioca della torcia, sento un ringhio sommesso. C’è un cane, arrotolato su un mucchio di stracci, e mi guarda, immobile, con le pupille luminose.

– Buono… buono… non ho intenzione di farti del male… – brontolo avanzando.

Lui snuda i denti.

– Mhmm… potresti essere un buon cane da guerra… fatti vedere, amico… ti potrei addestrare, se hai così voglia di lottare…

Una piccola mano sudicia sbuca dagli stracci, seguita subito dopo dal più straordinario mucchio di capelli che abbia mai visto.

– Non avanzare oltre, soldato – dice una vocina – o ti lancerò contro il mio cane.

Mi fermo prudentemente, ma mi viene da ridere: – Possiedo una spada e la capacità di usarla, ragazzo. Tieni a cuccia il tuo animale, o ne scapiterà. E dopo di lui, temo che toccherà a te. Ma non voglio combattere contro un sacco di pulci. Stavo semplicemente andando per la mia strada quando ha cominciato a ringhiare.

– Hai detto che volevi addestrarlo…– mormora la vocina esitante – cosa volevi dire?

– Il mio mestiere è la guerra, ragazzo. Un cane bellicoso il giusto può sempre fare comodo. Me lo venderesti?

– No.

– Capisco: siete compagni. Ma potrei assumere anche te come addestratore, Che ne dici? Si ottiene molto di più con l’amicizia che con la forza, dagli animali. Io lo so, anche se molti sostengono il contrario.

Non è un ragazzo, è un bambino, quello che si srotola dal buio e mi si drizza davanti, magro come un’acciuga pescata da un mese. Tiene orgogliosamente una mano sulla testa del cane, in atteggiamento da proprietario, e mi studia attento.

– Puoi fidarti di me. – gli dico.

Due paia di occhi mi guardano, ugualmente brillanti, alla luce gialla della torcia. E l’enorme massa di capelli del bambino si muove come una massa compatta, nel vento.

– Quant’è che non ti lavi? – gli chiedo curioso. E poi, guardandolo meglio: – E quant’è che non mangi?

Non c’è niente da fare, ogni volta che vedo un bambino, mi viene in mente mio fratello. Inoltre, il luogo da cui provengo mi ha fornito di parametri igienici leggermente diversi da quelli che vanno per la maggiore qui nella Città.

– Adesso andiamo al mio alloggio, – gli dico severamente – dove entrambi vi laverete, e tu ti taglierai i capelli. Dopo potrete mangiare.

Mi seguono incerti, all’inizio, poi più decisi.

Presento loro una tinozza, una spazzola e un paio di forbici, indico il paiolo di acqua bollente sul camino, e i secchi di acqua fredda lì accanto: – Quando sarete presentabili, venite nell’altra stanza. Qui c’è un asciugamano e una mia vecchia camicia pulita. Getta nel fuoco i tuoi stracci. – dico. E vado a cercare una ciotola per il ragazzo e un osso ben vestito di carne per il cane.

Sento sbuffi, latrati, esortazioni a mezza voce, e perfino risatine, e dopo mezz’ora mi compaiono davanti due spaventapasseri umidi e imbarazzati. Il cane, dopo essersi scrollato l’acqua di dosso, ha riacquistato una parvenza di volume, anche se gli si intravedono le costole, ma il bambino, adesso che non ha più lo strato protettivo dello sporco e dei capelli, è uno scheletrino pallido a cui balla addosso la mia camicia.

Sospiro e li nutro.

Si gettano sul cibo e per dieci minuti nessuno parla.

Di sopra Jesti fa risuonare un accordo di chitarra, poi si leva piano la sua vecchia voce: ruggine e miele, qualcosa che gratta l’anima, la trafigge e la consola.

Il bambino e il cane sembrano diventati due statue di sale. E i loro occhi sono ancora simili, come nel vicolo: perduti nell’incanto che suscita sempre l’ascolto del bardo che ospito a casa mia da quasi un mese. Canta di notti passate, Jesti, di stelle, di eroi, di amore. E ogni parola sembra scolorare e tingere di sé l’aria intorno. Si attacca dietro gli occhi, come una lente rovesciata, e costringe a vedere tutto attraverso una nebbia luminosa.

Chi l’ha ascoltato anche una sola volta non dimentica mai più la bellezza che la sua poesia ha prestato al mondo.

Ma io sono un soldato in missione, non posso permettermi di volare. Non troppo, almeno.

E poi questo è uno strano luogo, fatto di nostalgie multiple non bene accordate tra loro: ci si sono radunati tutti i sognatori del passato, quelli che sono convinti di trovare solo indietro la salvezza. Forse perché costruirla per il futuro offre molte più incertezze.

– La salvezza da cosa? – ho chiesto a Jesti la prima sera che si fermò da me.

– Non vedi che stiamo andando verso il precipizio? – ha risposto lui.

Ma io non ne sono affatto convinto: stiamo andando, questo sì. Ma nessuno può sapere dove. E comunque la strada è interessante.

– Tu sei più aperto, rispetto ai tuoi colleghi. – dice Jesti.

– E tu hai i soliti pregiudizi su chi veste la divisa. – gli ribatto io. E poi mi viene da ridere, perché la divisa che indossiamo quando entriamo in questo spazio è una cosa che ci fa assomigliare alle guardie svizzere che stanno intorno al papa. Una buffa congerie di abiti medievali/rinascimentali, e armi da taglio che ho dovuto imparare a usare quando mi hanno distaccato qui.

Ogni tanto provo una lancinante nostalgia per il mio vecchio kalashnikov, soprattutto quando vedo le ferite che sono in grado di provocare le asce da guerra stile vichingo, e quando mi imbatto nei feriti delle loro battaglie. Un morto di mitraglia è più immediato e radicale. Non si sopravvive ridotti a pezzi d’uomo che hanno gli stessi bisogni di un bambino.

– Qui è tutto naturale, – dice Jesti – e si dà importanza alle cose che contano davvero, come la poesia.

– La poesia puoi trovarla ovunque. Anche da noi. – gli rispondo.

– Certo, – sogghigna lui – sotto le suole di vibram degli scarponi.

Siamo in grado di andare avanti a discutere per ore, ma preferisco quando canta.

– Possiamo dormire? – chiede il bambino spalancando la bocca in uno smisurato sbadiglio. Il cane è già acciambellato ai suoi piedi, con gli occhi chiusi.

– Vieni. – gli dico. E lo conduco nella stanza della legna, dove c’è una brandina di pronto intervento per chiunque ne abbia bisogno. – Per ora dormirete qui. Domani ti sistemerò meglio.

Il cane, immediatamente sveglio appena il bambino si è mosso, si riaccuccia pesantemente accanto alla brandina, mentre il piccolo ci si butta sopra, addormentato già prima di appoggiare la testa.

Lo copro col plaid piegato ai piedi del materasso, ed esco portandomi dietro la candela. Mi sento una specie di chioccia fuori misura.

Jesti scende barcollando le scale: – Ho finito l’alcol. – brontola. E la sua voce adesso è solo ruggine.

– Dov’è finita la poesia? – gli chiedo.

– Nel mio stomaco insieme all’ultimo sorso. E tra poco la piscerò fuori. Me ne serve ancora.

Prendo l’ultima bottiglia dall’armadietto: – Amico, se non torno alla base a fare rifornimento, temo che resterai a secco. Fattela durare.

Lui la prende, se la stringe al petto, con tenerezza: – Grazie. – dice – La poesia te ne è grata.

Lo sento ancora cantare, nella notte. Una cometa di luce che scintilla nel buio, una freccia da seguire, che indica una strada, anche se non so quale. Ma io il bambinello per stanotte l’ho già trovato. Era sporco come il suo cane, con capelli afro impastati di fango. E in dono, al posto di oro incenso e mirra, gli ho portato carne e cavolo stufato. E gli ho fatto tagliare i capelli… mi addormento in un sogno strano, con Dalila che taglia la chioma a Sansone, e Sansone si raggomitola senza forze su di una brandina, sotto un vecchio plaid a quadretti, e un grosso re mago armato di spada combatte con Erode, sotto una stella, e sta giusto per perdere appena prima che arrivi la regina rossa armata di mitragliatrice, con Alice che fa capolino da uno specchio veneziano. La poesia shakera uno strano cocktail, stasera, e forse è arrivato il momento di tornare a casa, nel mio familiare secolo incasinato, prima che in testa mi si confonda tutto.

Se gli dèi esistono, devono essere dèi del caos, come diceva un’antica religione. E gli uomini sono solo uno dei loro strumenti.


***


Daniela Piegai, giornalista (ha lavorato per «Paese Sera» e l’ANSA) e scrittrice di fantascienza, tra le «autrici italiane più rappresentative» del genere per Delos, ha vinto due «Premio Italia» e un «Premio Europa». È autrice di numerosissimi racconti e ha pubblicato sei romanzi e diversi romanzi brevi. Tra le opere più note Parola di alieno (Nord 1978), Ballata per Lima (Nord 1980), Nel segno della luna bianca (con Lino Aldani, Nord 1985). Di recente pubblicazione per Delos digital:  Il mondo non è nostro 2022), Incanti alieni (2023), Strega di sera bel tempo di spera (con Nicoletta Vallorani, 2023), Linee d’ombra (2024). Gran parte della sua produzione è tuttora inedita.

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