Dialogo con Antonella Corsani
Patrick Fontana
In occasione della recente pubblicazione del suo libro, Chemins de la liberté. Le travail entre hétéronomie et autonomie (https://editions-croquant.org/sociologie/650-chemins-de-la-liberte-le-travail-entre-autonomie-et-heteronomie.html), abbiamo invitato Antonella Corsani ad approfondire presupposti e implicazioni della sua ricerca.
Questo libro si iscrive in una prospettiva critica delle tesi sul capitalismo cognitivo – concetto che Antonella Corsani ha contribuito in modo importante ad introdurre nel dibattito teorico-politico – ed è scritto a partire dalla sua esperienza di inchiesta di più di quindici anni, prima nel movimento degli intermittenti dello spettacolo, poi nel movimento delle cooperative di attività e di impiego. È contemporaneamente uno studio di ampio respiro, insieme militante e teorico, che investe trent’anni di elaborazione critica e pratica del pensiero post-operaista, e ricostruisce in maniera chiara e puntuale la nascita negli anni ‘90 e la successiva articolazione delle tesi sul capitalismo cognitivo. Uno studio che ha il coraggio e il merito di fare un bilancio sulle coordinate teoriche fondamentali di un concetto, che è stato centrale nella teoria dei movimenti radicali. Riuscendo a tenere coesa, in una visione militante e rigorosa, sistematica e severa, la teoria e l’esperienza politica in un tentativo di situare questi diversi piani in maniera relata. In corso d’opera, durante il periodo di elaborazione ho avuto il piacere di dialogare con Antonella Corsani e ora quello di poterle rivolgere alcune domande sugli intenti e sulle tesi contenute nel suo libro per poterlo far conoscere e discutere. Qui di seguito riporto questo dialogo.
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D. Vuoi fornire, ai lettori, qualche elemento sul percorso teorico e politico che ti ha condotta a scrivere Chemins de la liberté. Il progetto come è nato? Come si è inserito tra la contingenza del tuo attuale lavoro di ricerca in Università e i tuoi precedenti studi e ricerche militanti? Come hai pensato che fosse l’occasione di fare il punto di un percorso collettivo…?
Il mio percorso teorico e politico non è lineare, è fatto di molte biforcazioni, anche di vicoli ciechi. Si tratta allora di ritornare indietro, capire gli errori, iniziare nuovi percorsi, ma sempre alla ricerca di cammini verso la libertà intesa come autonomia. Questo percorso è stato segnato dall’incontro in Francia di due esperienze, quella degli intermittenti dello spettacolo in lotta contro la riforma del regime di protezione sociale contro il rischio di disoccupazione e quella del movimento delle cooperative d’attività e di impiego (Cae). Queste sono delle cooperative in cui il collettivo di lavoro è costituito da persone formalmente dipendenti ma realmente autonome: gli imprenditori salariati associati. In altre parole, la Cae è una impresa senza padroni e senza divisione gerarchica del lavoro. Coopaname, la piu grande Cae (850 membri), costituisce un vero laboratorio politico permanente. Dopo aver fatto delle CAE delle «imprese condivise», agli inizi degli anni 2010 ha aperto un nuovo grande cantiere: inventare delle «mutue del lavoro». In questo contesto, Marie-Christine Bureau ed io abbiamo cooperato con loro qualche anno mettendo in piedi qualcosa che chiamo «conricerca-azione». Chemins de la liberté è il luogo dove raccontare queste due storie allo specchio, prima di esplorare nuovi sentieri. Attraverso la narrazione soggettiva di queste due esperienze collettive parlo del capitalismo contemporaneo, analizzato come capitalismo cognitivo neoliberale, e delle possibilità di una uscita non barbara, come lo sperava André Gorz. Una uscita seguendo dei cammini verso la libertà come autonomia che queste esperienze, in particolare quella di Coopaname, indicano e che certo non hanno frontiere. Voglio dire che se queste esperienze si configurano in un quadro istituzionale locale, i cammini che indicano non sono limitati alle frontiere della Francia. L’inchiesta partecipa al tracciamento dei cammini. Ma io non penso la conricerca come ricerca militante. Il mio tentativo è di affermare un’altra epistemologia e un’altra pratica della ricerca in scienze sociali. In questo senso la mia battaglia è anche dentro le istituzioni dell’insegnamento e della ricerca, ed è femminista. Il mio femminismo è sempre stato quello di Carla Lonzi, cioè un femminismo della differenza, ma differenza intesa come desiderio e come obiettivo politico. Nel campo della produzione delle conoscenze in ambito universitario produrre differenza significa prima di tutto affermare attraverso la pratica e la teoria un’altra epistemologia che, liberando le scienze dalle credenze positiviste nella neutralità e dalle pretese di universalismo, afferma delle visioni parziali e l’oggettività dei saperi situati. Rinunciando all’illusione, alla pretesa, al mito divino di vedere tutto e dappertutto, si tratta di imparare a vedere con gli altri, senza pretendere di vedere al posto degli altri, come scriveva Donna Haraway nel suo bellissimo saggio Situated Knowledge. In questa prospettiva epistemologica mi riconosco allora più che nella ricerca militante, nella «ricerca implicata». Le parole chiave sono allora, responsabilità rispetto alle conseguenze dell’agire e del conoscere, impegno come valore epistemico, condivisione dei saperi come pratica collettiva. Ricerca implicata dentro una delle fabbriche del capitalismo cognitivo neoliberale.
D. Mi ha colpito che da te la nozione di capitalismo cognitivo sia messa in discussione senza pregiudizi, sia come concetto analitico, sia come concetto politico; c’è la volontà di liberare la critica dalle icone? Quali passaggi fondamentali individui per scandire la ricostruzione critica delle tesi del capitalismo cognitivo e farvi i conti individuando non solo i suoi punti di forza, ma i suoi limiti anche nella sua storicizzazione nelle diverse fasi della ricerca militante?
Vorrei insistere solo sui punti di forza. Negli ormai lontani anni 1990, le prime formulazioni dell’ipotesi del capitalismo cognitivo erano state lanciate in Italia da Lorenzo Cillario. Nel dibattito dell’epoca, Enzo Rullani aveva sviluppato una tesi in qualche modo disorientante: il capitalismo è sempre stato cognitivo, nel senso che è impensabile senza prendere in conto il ruolo delle conoscenze – ed in particolare, ma non solo, delle conoscenze scientifiche – nella dinamica di accumulazione capitalista. Ma sono le forme contemporanee della produzione e della circolazione delle conoscenze e le tensioni e i mismatching fra capitale e conoscenza, esasperati dalle tecnologie numeriche, che ci svelano l’impensato del passato. Questa tesi ci costringe quindi a ripensare la storia del capitalismo, a fornirci di una nuova boite à outils (cassetta degli attrezzi, n.d.r.) concettuale e ci conduce ad abbandonare, se non già fatto in seguito alla critica femminista e post-coloniale, ogni possibile lettura progressista del capitale. Enzo Rullani sollevava poi una questione di fondamentale importanza: come il capitale può valorizzare la conoscenza, stante le difficoltà di astrazione necessaria perché la conoscenza possa funzionare come capitale ed entrare quindi nel circuito del valore astratto, cioè del denaro? Ponendoci una tale questione dobbiamo necessariamente cambiare il modo di ragionare, costruire nuovi strumenti, analizzare i processi di sussunzione formale e reale della sfera della conoscenza sotto il capitale...Questo ci permette allora di liberarci finalmente del dibattito sulla neutralità della scienza, e soprattutto ci permette di rinnovare gli strumenti teorici e politici per far fronte alle crisi sanitarie che vengono, alla crisi ecologica e alle loro conseguenze sociali. Se il capitalismo è stato dunque sempre cognitivo, definisco neoliberale la fase contemporanea del capitalismo cognitivo, per significare le forme specifiche di governo della società e le forme della soggettività.
D. La tua riflessione si articola a tutto campo su alcuni importanti assi tematici che individui passando dalla critica al concetto di capitalismo cognitivo alla sua relazione con il neoliberismo come tecnica di governo sino alla definizione della trasformazione postfordista nella scomposizione del lavoro salariato. Rimandando all’ampio dibattito che negli ultimi anni si è sviluppato in Francia nel libro ci parli di zone grigie e della fine della dicotomia tra lavoro salariato e lavoro indipendente. Annalisa Murgia e io abbiamo conosciuto e partecipato tramite te al network di ricerca che vi fa riferimento. Pensi che questa elaborazione innovativa possa aiutarci a uscire dalle secche in cui si è attualmente incagliata l’individuazione del soggetto, tra precariato e self-employment? Ci sono secondo te dei possibili punti di contatto con la figura del precario–impresa che è stata importante soprattutto in Italia ma non solo?
Zona grigia del lavoro è una categoria mobilizzata per descrivere delle relazioni di lavoro irriducibili alla logica binaria che separa lavoro salariato e lavoro non salariato. La frontiera fra le due è data nella maggior parte delle società occidentali dal legame giuridico di subordinazione, il lavoro salariato è quindi un lavoro dipendente e eteronomo, il lavoro non salariato è un lavoro indipendente e autonomo, cioè non subordinato. La zona grigia può essere compresa come la manifestazione della crisi tanto del lavoro salariato che del lavoro indipendente e delle loro metamorfosi. Più spesso, questa zona è analizzata come zona non coperta dal diritto, occupata da una molteplicità di nuove figure precarie. Fra queste sicuramente quella del precario-impresa in Italia, ma anche quella dell’imprenditore salariato della Cae in Francia. Ma la differenza fra le due è importante. La Cae è nata come resistenza all’ingiunzione a creare la propria impresa, la Cae è un luogo di resistenza alle politiche sociali e alle strategie di «uberizzazione» delle imprese che danno luogo alla figura del precario-impresa. La CAE si appropria e perverte i dispositivi neoliberali dell’auto-imprenditoria precaria e si appropria, adattandole, le istituzioni del salariato, secondo la logica del copyleft che la ha ispirata. In tal senso, organizza la sovversione all’interno della zona grigia.
Ma zona grigia è anche e soprattutto un concetto politico sviluppato da Primo Levi nel suo saggio del 1986, I sommersi e i salvati. La zona grigia è quella occupata dai prigionieri-funzionari, una figura assolutamente necessaria per governare i campi di concentramento. Prendendo il rischio di banalizzare il concetto, ma seguendo una indicazione data proprio da Primo Levi, cioè utilizzare la sua teoria come teoria più generale del potere, ho tentato di mobilizzare questo concetto per comprendere i dispositivi neoliberali di governo, laddove per governo si intende con Foucault «la condotta della condotta degli altri». In questa prospettiva, le zone grigie del lavoro, dentro e fuori le imprese capitaliste, possono essere comprese come zone di produzione d’ una soggettività divisa, una soggettività schizofrenica. Per me non si tratta tanto di individuare un soggetto, quanto di comprendere i processi di desoggettivazione, cioè i processi individuali e collettivi che ci permettono di disfarci della soggettività cosi come è prodotta. Ed è esattamente qui che la questione della soggettività incontra quella dell’autonomia.
D. L’autonomia mi sembra che sia posta da te come una delle cifre essenziali del lavoro autonomo e non. Una questione centrale che percorre in filigrana la tua elaborazione richiamando il pensiero di Andrè Gorz che leggeva l’autonomia nella eteronomia, sia come elemento di forza sia come aspetto ambivalente e contradditorio. Ritrovi delle assonanze teorico politiche nel modo in cui la questione dell’autonomia è stata trattata in questi anni da autori come Sergio Bologna? Mi sembra che per te e per lui autonomia e la cooperazione non siano dati come déjà là, ma posta in gioco, terreno di contesa con la controparte, spazio di soggettivazione da raggiungere. Dico bene? Dunque la libertà come autonomia nel senso spinoziano.
Esattamente. I lavori di Sergio Bologna sul lavoro autonomo di seconda generazione sono stati per me molto importanti. E condividiamo certamente una interrogazione maggiore: quanto autonomo è il lavoro autonomo? O cosa intendere per autonomia del lavoro, per cooperazione e per autonomia della cooperazione? E proprio su questa questione che la distanza dalle teorie neo-operaiste del capitalismo cognitivo mi appare irriducibile. Le tesi neo-operaiste sul capitalismo cognitivo affermano il superamento della base industriale del capitalismo, il capitalismo cognitivo è pensato dunque come una nuova fase del capitalismo, dopo la fase industriale. La matrice comune di tali tesi è data da una lettura del general intellect marxiano: nella fase storica del capitalismo cognitivo il general intellect si presenta immediatamente come lavoro vivo, come cooperazione sociale e circolazione dei saperi da cui dipende la produzione di valore come plus-valore. La funzione del capitale non è più una funzione di organizzazione e di comando sul lavoro, essa è ormai semplice captazione della potenza produttrice della società tutta intera, ed è in questo senso che il capitale è parassita e che il profitto diventa rendita. Queste tesi sono astratte in questo senso: il discorso sull’autonomia della cooperazione sociale non tiene al confronto con i fatti, con l’esperienza. Ed i fatti che emergono dall’inchiesta sono l’autonomia controllata, l’eteronomia nella determinazione delle finalità della produzione e la concorrenza generalizzata fra «capitali umani», i fatti sono le strategie di fuga lungo cammini da inventare...
L’autonomia non è un déjà là, l’autonomia è piuttosto, come tu dici, la posta in gioco nel capitalismo cognitivo all’epoca neoliberale in cui l’autonomia del lavoro, salariato e non, è prescritta, incitata, ma non meno controllata, limitata, come l’autonomia del prigioniero-funzionario. L’autonomia è sotto tensione. E se il neoliberalismo è come ce lo insegna Foucault, un governo non dell’economia ma della società che fa della concorrenza fra imprenditori di se stessi il principio regolatore della società, si tratta di inventare ovunque delle scuole dove riapprendere la libertà, la libertà come autonomia, si tratta di inventare delle pedagogie della cooperazione e dell’autonomia. In qualche modo direi che alcune Cae, e certamente Coopaname, è questo: una pedagogia dell’autonomia e della cooperazione. L’autonomia come processo individuale e collettivo, l’autonomia non come mito virilista dell’indipendenza, ma come interdipendenza.
D. La prospettiva che viene da te delineata è quella di un nuovo mutualismo contro la tendenza all’individualizzazione che è dominante nella fase capitalistica attuale, dove il ruolo dell'inchiesta e della conricerca è fondamentale come momento di soggettivazione per la produzione di capacità di agire. A me piace molto questa parte del tuo libro, il rapporto con la conricerca di impronta alquatiana e con l’inchiesta intesa anche auto-inchiesta di matrice femminista. Qui si potrebbe parlare di livello cerniera tra la composizione tecnica e la composizione politica? E quali affinità, continuità e divergenze ci sono tra le tue passate esperienze di inchiesta con gli intermittenti e quelle più recenti con la cooperativa Coopaname?
Questa parte del libro ne è il cuore ed il perno, l’inchiesta è il metodo di desoggettivazione e di invenzione di una nuova soggettività collettiva, esattamente come l’autocoscienza femminista. Al tempo stesso, l’inchiesta è il metodo per fuggire al fascino indiscreto dell’idealismo, del pensiero astratto che si pensa pensando ed a partire dalla pretesa di vedere tutto e dappertutto.
Gli intermittenti in lotta, organizzati nella forma coordinazione, avevano elaborato, a partire da una autoinchiesta che ha coinvolto centinaia di persone, un Nuovo Modello, cioè delle nuove regole per determinare le indennità di disoccupazione, in modo da garantire al più grande numero la continuità di reddito in situazione di discontinuità dei contratti di lavoro. Questo modello è caratterizzato da un grado elevato di mutualizzazione. In altri termini, le indennità di disoccupazione compensano le inuguaglianze di salario determinate dal mercato dei prodotti culturali e dello spettacolo. Comprendere questa lotta come una lotta guidata da una passione per la giustizia, residuo del socialismo utopico, sarebbe un errore. Si tratta di comprenderla piuttosto come lotta propria al capitalismo cognitivo neoliberale. Il neoliberalismo opera nel senso di individualizzare, di mettere in concorrenza...mutualizzare il reddito è un modo per disinnescare i dispositivi della fabbrica della soggettività neoliberale, ma anche per permettere una molteplicità di forme artistiche e culturali esterne e critiche dell’industria della cultura e dello spettacolo. Nel caso delle Cae, la mutualizzazione è pensata invece come mutualizzazione del lavoro. Se la Cae agisce come strumento per liberare il lavoro (libertà di decidere quando, come, per chi e con chi lavorare), la mutualizzazione del lavoro può rispondere a più obiettivi: lavorare altrimenti, permettere la multiattività diacronica e sincronica cioè permettere a tutti di «dipingere senza essere pittore»; lavorare meno lavorando insieme, liberarsi infine dal lavoro riducendo, grazie alla mutualizzazione, i bisogni. La definizione degli obiettivi e il modo per raggiungerli sono l’oggetto della inchiesta come ricerca-azione. Tanto per gli intermittenti quanto per gli imprenditori-salariati l’inchiesta è costitutiva del collettivo ed è strumento di desoggettivazione ma anche di affermazione positiva di una nuova soggettività collettiva. In tal senso, a Coopaname, il passaggio semantico graduale da imprenditore salariato a cooperatore/trice mi sembra tradurre l’emergenza, certo ancora discreta, di una nuova soggettività collettiva.
D. Un’ultima domanda, sull’emergenza del dibattito più recente. Volevo chiederti come leggi la trasformazione della soggettività alla luce della crisi ecologica e pandemica. Gli ultimi lavori di Bernard Stiegler, pubblicati in francese, riguardano la ricerca ecologica. Il neo e il post-operaismo sembrano essere in una impasse nel momento in cui continuano a evocare la ricerca del soggetto continuando a pensarlo come una sorta di invariante della storia, in un rapporto pressoché immutato con la natura, marxisticamente parlando. Boh, forse sarebbe ora di fare un bilancio anche su questo aspetto se non altro perché le conoscenze della vita e la riproduzione della vita biologica e sociale sono al cuore della dinamica di accumulazione...Sei d’accordo?
Sono d’accordo con te. Prendiamo le tesi neo-operaiste sul capitalismo cognitivo. Dobbiamo riconoscere certo la presa in conto della soggettività negata dagli approcci economicisti del capitalismo e delle sue mutazioni, ma questa soggettività è pensata come una invariante della storia. Questo perché manca una categoria, l’esperienza, e manca il metodo dell’inchiesta. Si tratta esattamente della stessa critica che Edward P. Thompson faceva del sistema teorico di Althusser, del suo concetto di «motore della storia», e finalmente del suo idealismo. Eppure l’inchiesta è nei geni propri dell’operaismo…il riferimento maggiore resta Romano Alquati. Ma c’è altro, le tesi neo-operaiste non dicono nulla sulla natura delle conoscenze, tutto funziona come se si potesse affermare la neutralità della scienza e della tecnologia, ed al limite, si potrebbe comprendere che, ipoteticamente eliminato il potere capitalista di captazione, di estrazione di valore, cioè di sfruttamento, si avrebbe il paradiso in Terra mentre che la Terra sta morendo del «progresso» del capitalismo cognitivo. No, non si può contentarsi di aggiungere la parola ecologia nel discorso, cosi come non si può aggiungere la variabile razza o quella di genere per risolvere la critica femminista e post-coloniale; è la traiettoria del pensiero critico che bisogna cambiare.
E se si vuol parlare di capitalismo cognitivo si deve analizzare la conoscenza, la tecnologia, la scienza, le loro traiettorie, il modo della loro produzione, e della distruzione di molte...il loro impatto, i conflitti intorno alle conoscenze che contano...tutto questo è paradossalmente assente nelle tesi neo-operaiste. L’ultimo libro di Bernard Stiegler ha per titolo «Qu’appelle-t-on panser?» e per sottotitolo «La leçon de Greta Thunberg». La questione che poneva Bernard Stiegler è di sapere se la scienza pensa ancora, e con un gioco di parole, se «panse» ancora, cioè se «cura» ancora. La sua visione delle conseguenze antropologiche, sociali, ecologiche, politiche della rivoluzione digitale, della ragione automatica, era estremamente critica. Bisogna cambiare traiettoria, è una urgenza, questa era un po’ il suo imperativo e per questo sperimentava, non senza difficoltà ed errori, delle forme territorializzate di economia contributiva, basate sul principio di riappropriazione delle conoscenze e della coproduzione di saperi che implichino scientifici e popolazioni locali. Non si tratta di condividere o meno l’analisi di Bernard Stiegler, la questione della riappropriazione della conoscenza si impone, e non è riducibile ad una questione di proprietà intellettuale. Riappropriarsi collettivamente della conoscenza significa riprendere il controllo sociale sui processi di produzione di conoscenze, poter cambiare traiettoria. La generazione di Greta Thunberg questo lo sa, le nuove soggettività non sono quelle della generazione ‘68 o ‘77. La vera posta in gioco è la vita, e non tutte le vite hanno lo stesso valore...Si tratta allora di ripensare il capitalismo e la sua storia partendo piuttosto che dalla produzione di beni e servizi, dalla riproduzione della vita, seguendo in questo il cammino tracciato dalla critica femminista, penso in particolare a Silvia Federici, ma anche a tante altre e altri...
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