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Ripoliticizzare l'economia

Alcune riflessioni su un libro di Clara E. Mattei

 


Ripoliticizzare l'economia Clara E.Mattei
Immagine: Andrea Salvino

Francesco Tucci riflette su L’economia è politica (Fuori scena, 2023), testo di Clara E. Mattei che si pone il fine, attraverso un’analisi radicale del sistema economico contemporaneo, di ripoliticizzare il modo in cui guardiamo alle relazioni economiche, mettendo a critica il metodo di studio degli economisti mainstream, spiegando come la depoliticizzazione sia stata funzionale sul piano ideologico al mantenimento dell’ordine contemporaneo, discutendo l’incompatibilità tra capitalismo e democrazia.


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 In conclusione alla sezione introduttiva del proprio volume, Clara Mattei dichiara esplicitamente quali siano gli obiettivi intellettuali ma soprattutto politici del proprio scrivere:

 

Voglio invece chiarire quali sono i meccanismi oppressivi e quali i nemici da combattere. Scrivo queste pagine esplicitamente militanti in opposizione alla tipica maniera distaccata degli economisti. Ciò non significa rinunciare al rigore scientifico nell’indagine. Al contrario, vuol dire rivendicare l’inestricabile posizionamento sociale dell’intellettuale, che non può che essere situato nel mondo e, come ricordava Gramsci, organico alla lotta di classe (Mattei, 2023, pag. 30).

 

In questo breve passaggio troviamo tutti i temi che animano L’economia è politica, uscito nel novembre 2023 per Fuori Scena. Clara E. Mattei è professoressa associata al Dipartimento di Economia della New School for Social Research, e la sua ricerca nel corso degli anni si è concentrata in particolare sulla relazione tra la filosofia del pensiero economico e le ideologie politiche. Tra i temi sollevati, a mio avviso ne emerge soprattutto uno, che rappresenta indubbiamente la spina dorsale del libro. L’economia è politica è infatti un volume che attraverso un’analisi radicale del sistema economico contemporaneo si pone il fine di ripoliticizzare il modo in cui guardiamo alle relazioni economiche, le percepiamo e ne discutiamo all’interno della società. Un obiettivo indubbiamente ambizioso, ma anche indispensabile nella sua attualità. La sveglia collettiva suonata da Mattei è infatti quantomai importante, in un periodo storico in cui, dopo anni di retorica mediatica sulle decisioni economiche appannaggio dei «tecnici», decenni di riforme negoziate con enti con scarsa legittimazione politica (ovviamente non mi riferisco solo all’Italia, crisi del debito greco docet), il sapere economico è sembrato sempre più appannaggio di una ristretta cerchia di esperti al di sopra dell’agone politico, con le sue contraddizioni e i suoi compromessi.

A volere andare alla radice dei temi sollevati da Mattei, riconducendoli alla loro matrice fondamentale, il libro ne solleva principalmente tre. Come detto in precedenza, il primo è la denuncia della depoliticizzazione dell’analisi e dello studio dell’economia portato avanti, volenti o nolenti, dagli economisti mainstream (o in italiano ortodossi, comunque torneremo più avanti sul significato di queste espressioni). Il secondo è come tale depoliticizzazione sia stata funzionale sul piano ideologico al mantenimento dell’ordine economico costituito all’interno della dinamica capitalista, sia all’interno di regimi politicamente più liberali, con una maggiore dispersione e separazione dei poteri, sia all’interno di vere e proprie dittature e autocrazie. Che poi la storia, anche recente, insegna che dai primi si può scivolare facilmente nei secondi, aspetto che Mattei attribuisce esplicitamente alle repressioni che ad un certo punto si rendono necessarie per contrastare le richieste economiche dei lavoratori e dei ceti meno abbienti. Il terzo, pesantissimo da digerire, è l’incompatibilità tra capitalismo e democrazia, per via della separazione tra libertà politiche, da esercitare meramente in cabina elettorale, e libertà economiche, che non abbiamo. E per via della falsa alternativa rappresentata dalla sinistra partitica quando si tratta di mettere in discussione l’ordine del capitale.

In questa recensione mi concentrerò sul primo tema chiave sollevato dal libro di Mattei, ovvero il corto circuito tra teoria economica e potere politico, anche perché il secondo mi sembra in qualche modo seguire consequenzialmente. Seguirò quindi Mattei nel suo scagliarsi contro gli interventi degli esperti economici nel dibattito pubblico e nel suo denunciarne l’atteggiamento quasi ieratico nell’illustrare la giusta traduzione in policy di leggi economiche universali, provando a tracciare le origini e le cause di questo fenomeno.

L’atteggiamento giustamente denunciato da Mattei tradisce la storica convinzione degli economisti mainstream, affermatasi nel mondo anglosassone a partire da fine Ottocento, che la scienza economica condivida metodi e strumenti epistemologici con le «scienze dure», piuttosto che con quelle sociali. Come le scienze dure infatti, gli economisti ortodossi leggono la realtà sulla base di leggi matematiche controllabili e misurabili con un basso margine d’errore. Non importa il contesto storico, le specifiche istituzioni nazionali, i diversi usi e costumi. Esistono solo esseri umani che rispondono a incentivi sulla base di comportamenti prevedibili e definibili a priori, sulla base di semplici assiomi (di difficile dimostrazione empirica). E se non lo fanno pazienza, è il materiale umano che va raddrizzato, sicuramente non la teoria.

A questo punto un chiarimento è d’obbligo, ovvero cosa si intenda nel dibattito accademico con il termine mainstream (o ortodosso). Associando tale termine ad un economista si indica uno studioso dell’economia che si rifà alla tradizione dell’economia neoclassica o marginalista (nell’articolo userò entrambi i termini, la cui specificità riflette esclusivamente la maggiore diffusione nei diversi stadi di sviluppo della teoria). Tale approccio è oggi largamente egemonico all’interno dei dipartimenti di economia. A volerli ridurre all’osso, i cardini dell’economia neoclassica sono:

1) l’individualismo metodologico, ovvero il fatto che l’analisi economica si fondi a partire dallo studio delle scelte degli individui, considerati però ciascuno in isolamento e in una sorta di vacuum spazio-temporale, cioè al di fuori di legami e appartenenze di classe, etnici o qualsivoglia altra relazione sociale, indipendenti nelle loro scelte rispetto alle altre persone (il famoso homo economicus). Le uniche due categorie in cui un individuo può ricadere sono quelle di consumatore-lavoratore o produttore, con buona pace delle analisi di Marx.

2) La razionalità degli individui, che hanno piani coerenti, li perseguono con determinazione e calcolano il modo più efficiente di ottenere ciò che vogliono utilizzando risorse scarse.

3) La nozione di equilibrio, ovvero che gli aggregati economici (sia a livello micro di singolo mercato, sia a livello macro di nazioni e stati) tendano «naturalmente» a tornare ad una situazione di stabilità, nella quale nessuno ha incentivi sufficienti a modificare il proprio comportamento. L’economista austriaco Joseph Schumpeter definiva la nozione di equilibrio come la magna charta dell’economia esatta. E qual è la forza di gravità che spinge gli aggregati economici all’equilibrio? Il perseguimento del proprio interesse da parte degli individui, che effettuando transazioni su mercati competitivi riportano eventuali oscillazioni degli aggregati verso una situazione di quiete e stabilità.

Questo apparato analitico nasce in Inghilterra verso la fine dell’Ottocento e fin da subito sembra tradire una certa invidia verso l’esattezza e la misurabilità delle scienze dure, in particolare della fisica. D’altronde il termine inglese per le scienze economiche, economics, venne introdotto da Alfred Marshall, uno dei maggiori consolidatori dell’approccio marginalista, nel 1890, per sottolineare la discontinuità con la political economy (economia politica in italiano) degli economisti classici (i cui principali esponenti sono Smith, Ricardo e Marx) e per evidenziare la maggiore affinità con le scienze dure, come appunta la physics o la mathematics (Roncaglia, 2019).

Oltre ai concetti chiave richiamati in precedenza, da subito nell’approccio marginalista si affermano due tendenze che lentamente si sono calcificate come veri e propri pilastri della disciplina. Il primo è l’utilizzo di assiomi teorici costruiti sulla base di introspezioni o intuizioni dirette circa la natura umana (si veda ad esempio il concetto di massimizzazione dell’utilità da parte degli individui), piuttosto che sull’osservazione prolungata di fatti economici dai quali estrarre tendenze ricorrenti che possano poi essere oggetto di analisi. Tali assiomi teorici, proprio per come vengono originati, non sono sottoposti a verifiche empiriche rigorose e quindi, secondo gli economisti ortodossi, non sono di fatto confutabili, il che solleva importanti quesiti dal punto di vista della filosofia del metodo scientifico. Il secondo pilastro è l’uso pervasivo della matematica come strumento di ricerca di una soluzione esatta ai modelli, caratteristica che ha portato alcuni osservatori a sottolineare come spesso l’aspetto principale nel determinare l’oggetto di studio sia la trattabilità matematica dello stesso, piuttosto che la sua rilevanza a fini sociali.

Il libro di Mattei sottolinea nettamente come da una disciplina economica così concepita si sia arrivati alla depoliticizzazione delle relazioni economiche, soprattutto quando si tratta di analizzare la distribuzione del potere all’interno del processo produttivo e nella società. In un capitolo di un volume edito nel 2021, What’s wrong with economics? A primer for the perplexed (ancora non pubblicato in italiano), Robert Skidelsky, professore emerito di politica economica all’università di Warwick, traccia le origini epistemologiche e storiche della depoliticizzazione dell’analisi dell’economia. In particolare, sottolinea Skidelsky, un ruolo centrale in questo processo è stato giocato dalla rimozione totale da parte degli economisti del concetto di potere all’interno delle relazioni economiche (Skidelsky, 2021). In un mondo in cui le persone sono impegnate, ciascuna per conto suo, esclusivamente a massimizzare con razionalità la propria utilità all’interno di mercati competitivi, in cui i fattori della produzione (capitale e lavoro) in equilibrio ricevono esattamente come compenso il proprio contributo marginale alla produzione, in cui il mondo finanziario è un semplice intermediario tra produttori e consumatori e non persegue interessi propri, è chiaro che il potere all’interno dei rapporti economici non esista. O meglio, sia reso invisibile. E come affermato dall’economista John Kenneth Galbraith:

 

nessuna affermazione è tanto importante per il moderno sistema delle corporation quanto quella che il potere non esista; che tutto il potere possa essere delegato al gioco impersonale del mercato. Niente è più funzionale [sempre al sistema delle corporation, NdA] che la conseguente aderenza dei giovani a tale convinzione (Galbraith, 1983, pag. 120).

 

Mattei esprime lo stesso concetto, riflettendo sui rapporti di forza nelle relazioni economiche e sulla base ideologica della loro natura, con toni anche più duri:

 

Per esempio, nel corso del feudalesimo, il signore viveva espropriando una parte del grano che il servo coltivava […] Come abbiamo visto, questa appropriazione avveniva alla luce del sole, tramite mezzi politici. Lo sfruttamento propriamente capitalista è, invece, implicito. Dato che non è visibile di primo acchito, non ci rendiamo conto che si tratta di un fenomeno strutturale anche della nostra società (Mattei, 2023, pag. 54).

 

È evidente che parlando del rapporto tra teoria economica e potere si interseca inevitabilmente la teoria marxista sul rapporto tra struttura e sovrastruttura. E la critica rivolta dai marxisti, fatta propria anche da Mattei – che d’altronde non si fa nessun problema a dichiarare nella sezione introduttiva di adottare consapevolmente nel corso del libro «una posizione anticapitalista» (ivi, pag. 30) –, è proprio quella che la teoria economica mainstream, ammantandosi di rigore scientifico, precisione matematica e obiettività da scienza dura, persegua gli interessi delle classi dominanti. Alcune politiche e configurazioni economiche radicatesi negli ultimi anni lo rappresenterebbero in maniera plastica. La prima, ad esempio, sarebbe l’indipendenza delle banche centrali dal potere politico, come nel caso della Bce a livello europeo. Una conformazione che si tende a dare per scontata, ma che per tanto tempo non lo è stata e anzi, secondo Mattei, è stata la risposta ad una maggiore attenzione e richiesta di controllo democratico sulla politica monetaria da parte della cittadinanza. Un’indipendenza funzionale sia ad alimentare la narrativa che gli economisti delle banche centrali perseguano fini tecnici, neutri (qualcuno dovrebbe invece spiegare cosa c’è di più politico dell’inflazione e del costo della vita), sia una prescrizione della teoria economica ortodossa accolta con grande favore dall’establishment economico, favorevole ad una politica dei prezzi di stampo prudenziale, dato che l’inflazione è sempre stata causa e conseguenza di grandi cambiamenti sociali. La seconda sarebbero le politiche di compressione salariale di cui nel corso degli anni si sono fatti portavoce alcuni dei più influenti economisti a livello mondiale, come il professor Alberto Alesina di Harvard che nel 2010 auspicava «politiche di moderazione salariale» e addirittura «la cancellazione della tredicesima per il Natale» (ivi, pag. 155) (per fortuna le festività ci proteggono ancora da certi accanimenti). O come Larry Summers, per anni consigliere economico di Barack Obama, oltre che influente accademico, che in risposta alla rampante inflazione del 2022 firmava un rapporto insieme ai colleghi Olivier Blanchard e Alex Domash in cui si caldeggiava un aumento della disoccupazione per raffreddare l’economia (Blanchard, Domash, Summers, 2022).

Una disciplina quindi ideologicamente al servizio dell’ordine economico costituito non solo negli anni più recenti, ma anche in alcuni passaggi cruciali della storia del Novecento. Mattei infatti attribuisce un ruolo centrale alla teoria economica marginalista, che negli anni Venti era arrivata in Italia dal mondo anglosassone attraverso i lavori di Maffeo Pantaleoni e Vilfredo Pareto, nell’aver influenzato le politiche di austerità attraverso cui il regime fascista imbrigliò e fece regredire molte delle conquiste economiche che i lavoratori avevano ottenuto nell’immediato dopoguerra. In questo senso, sono molto esemplificativi alcuni passaggi riportati da Mattei sulle reazioni che Alberto de’ Stefani, ministro delle Finanze e del Tesoro nel primo governo fascista nel 1922, e Umberto Ricci, consigliere economico di de’ Stefani, ebbero nel leggere le opere di Pantaleoni. Quest’ultimo veniva definito «un Arcangelo con la spada» che lottava per diffondere «una parte teorematica della scienza, un nucleo di dottrine, indipendente dalle opinioni e predilezioni etiche, politiche, religiose degli individui. Qualcosa di simile alla fisica o alla matematica» (Ricci, 1939, pag. 44). Riecheggia anche qui il fascino delle previsioni misurabili in quantità precise, della neutralità degli strumenti e dell’universalità delle leggi, cui abbiamo già accennato in precedenza come fattori di attrazione verso la materia. Ancora de’ Stefani sulla teoria economica di Pantaleoni e Pareto:

 

mi avevano sedotto quelle analisi in cui l’utile e il danno, il piacere e il dolore e i più complessi fatti dell’ordine economico che vi si riferiscono erano condotte con le formule del calcolo e descritte con rappresentazioni grafiche (...) Gli equilibri diventavano punti di intersezione di sistemi di curve e valori risolventi sistemi di equazioni. L’animo si quietava in quelle verità formali (de’ Stefani, 1923, pag. 1187).

 

Lungi dall’essere un delirio di de’ Stefani, in queste parole troviamo molti degli aspetti della teoria economica mainstream che nel corso dei decenni successivi hanno sedotto innumerevoli studiosi.

Di fronte alla visione apolitica e astorica dell’economia promulgata dalla teoria egemone, e al suo pervasivo apparato ideologico nel discorso pubblico odierno, Mattei fa un passo indietro e compie un lavoro di recupero della storia del pensiero economico. Riprende e rispolvera il lavoro dei classici (quelli, per intenderci, da cui Marshall voleva distanziarsi definendo la propria disciplina economics) e della political economy, nella quale i fenomeni economici sono analizzati come parte di uno studio più ampio della società nella quale sono inseriti, una società fatta di classi e di gruppi sociali i cui interessi sono più o meno in contrasto tra loro (più se si guarda alla prospettiva di Marx, meno se si fa riferimento a quello di Adam Smith). In particolare, Mattei si rifà esplicitamente alla teoria economica di Marx, che, come quella di Smith e Ricardo prima di lui, era incentrata su un’analisi dei prezzi dei beni legati al costo di produzione e alla distribuzione del valore tra le varie classi sociali (lavoratori, proprietari terrieri, capitalisti). Nell’analisi di Marx, la parte del valore che confluisce al capitalista (che rappresenta quindi anche una misura dell’intensità dello sfruttamento) è data dalla differenza tra il valore della merce prodotta e il valore di quella necessaria alla sussistenza della forza-lavoro (in altre parole, il salario). Questa per Marx è l’appropriazione capitalistica, frutto esclusivo del potere conferito dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. E questa è anche per Mattei la radice ineliminabile dello sfruttamento insita nella nostra società, che fino a quando non sarà messa adeguatamente a fuoco ci impedirà di fare veri progressi verso una maggiore libertà.

Un’altra idea centrale nell’analisi di Marx e ripresa con forza anche da Mattei riguarda la relazione tra inflazione e disoccupazione. L’analisi mainstream, ben incarnata da Summers nelle dichiarazioni viste in precedenza, predica una politica di inasprimento dei tassi d’interesse per raffreddare l’economia (fino al punto talvolta da mandarla in recessione) e per frenare così le richieste salariali dei lavoratori, aspetto che negli Stati Uniti sta acquisendo nuovo vigore grazie a una ritrovata vitalità sindacale e a scioperi di larga portata in settori chiave dell’economia (si pensi in particolare agli scioperi nell’automotive). Mattei adotta invece una lente diversa. Se è vero che l’inflazione che abbiamo sperimentato nel 2022-2023 è stata soprattutto un’inflazione da profitti, e non una spirale prezzi-salari (ci sono tante analisi in questo senso a confermarlo), le politiche monetarie restrittive hanno il solo fine di peggiorare le condizioni economiche dei lavoratori (in particolare di chi si trova con una posizione debitoria pendente, pensiamo ad esempio ad un mutuo), al fine di ricreare quello che Marx definiva «l’esercito industriale di riserva», ovvero un numero sufficientemente alto di disoccupati tale da impedire che i salari possano salire oltre una certa soglia, per la paura degli occupati di perdere il lavoro. Le politiche monetarie restrittive, applicate in situazioni come queste, sono quindi un classico esempio di quelle che Mattei definisce «politiche di austerità», e altro non sono che strumenti funzionali a non disturbare l’ordine del capitale.

La teoria economica dei prezzi di produzione di Marx ha incontrato poi nel corso del tempo numerosi problemi di natura analitica, superati solo nel corso del primo Novecento grazie al lavoro dell’economista italiano Piero Sraffa (gigante del pensiero economico relegato nel dimenticatoio delle teorie neglette), in particolare nel mettere in relazione il prezzo come costo di produzione in termini di lavoro e le dinamiche di domanda e offerta (Roncaglia, 2019). Ma al di là dei limiti analitico-matematici delle sue teorie, è indubbio che molte delle sue intuizioni sulle dinamiche di sfruttamento all’interno del capitalismo siano ancora con noi, e per restarci, come afferma Mattei. Proprio tali intuizioni aiutano infatti a capire i problemi principali degli sviluppi successivi della teoria economica, cioè l’espulsione dalla scena di due fattori fondamentali:

1) le relazioni di potere politico tra gruppi sociali;

2) il contesto storico in cui diverse teorie acquistano consenso: l’analisi keynesiana non avrebbe goduto dell’attenzione che ha avuto se non fosse stata sviluppata nel contesto della Grande Depressione degli anni Venti, così come il monetarismo non sarebbe stato sviluppato se le previsioni dei modelli cosiddetti neo-keynesiani non avessero cominciato ad incepparsi di fronte alle crisi degli anni Settanta.

Se queste sono tra le mancanze principali della teoria economica ortodossa, oggi, nonostante l’egemonia pervasiva della scuola neoclassica, altri approcci sopravvivono cercando di inglobare tali aspetti all’interno delle proprie analisi, mantenendo così vivo il pluralismo delle idee. Dall’economia post-keynesiana, all’istituzionalismo, all’economia ecologica, passando per altre scuole, un certo numero di accademici cerca, con difficoltà di fondi e di accesso a posizioni stabili nei dipartimenti, di offrire risposte differenti ai problemi economici della contemporaneità. Inoltre negli ultimi anni, in particolare dopo che la crisi del 2008 ha reso evidente l’inadeguatezza della teoria neoclassica nello spiegare aspetti cruciali della realtà economica, si sono costituite meritoriamente a livello internazionale alcune reti di studenti e accademici che contribuiscono ad una maggiore diffusione del pluralismo delle idee economiche. C’è ad esempio la rete Rethinking Economics[1], o anche l’Institute for New Economic Thinking[2], che organizza regolarmente seminari e conferenze con relatori appartenenti a scuole di pensiero differenti. Ciò che a mio parere è cruciale mantenere in vita, oltre ai fattori richiamati in precedenza (dimensione politica, storicità dei contesti), è la consapevolezza dell’appartenenza dell’economia alle scienze sociali, aspetto che le consentirà in futuro di confrontarsi con maggiore incisività con altre discipline, e anche con una certa dimensione etica dell’analisi economica. Ci si potrebbe legittimamente chiedere cosa c’entra l’etica a questo punto del discorso, ma, come sottolineato anche da Skidelsky nel proprio libro, è importante sottolineare come, tra i tanti aspetti negletti in nome della precisione matematica, la teoria economica egemone abbia completamente espulso dal proprio ambito di considerazione qualsiasi considerazione etica sui mezzi e sui fini di un sistema economico (Skidelsky, 2021). Secondo l’economista mainstream, una volta che un agente economico ha trovato il modo più efficiente in termini di mezzi e di risorse scarse per soddisfare i propri bisogni, il proprio lavoro può considerarsi concluso.

Anche se parlare di etica in una società liquida e atomizzata come quella occidentale richiederebbe già un discreto lavoro di comprensione reciproca, un buon economista dovrebbe riuscire ad interrogarsi su questioni come la moralità dei mezzi utilizzati, sulla scarsità delle risorse e su quanto questa sia spesso il risultato di assetti politici piuttosto che un dato di natura incontrovertibile, sulla proporzionalità dei bisogni e dei desideri. Senza tirare in ballo Maslow e la sua piramide dei bisogni (Maslow, 1973), un conto sono infatti i bisogni primari materiali e di socialità, un conto è l’accumulazione consumistica di otto piattaforme di streaming diverse. Per non parlare poi del mantra della crescita perenne, quando forse il punto di molte questioni sociali sta più nella distribuzione della torta che nella sua dimensione generale.

In conclusione, L’economia è politica rappresenta sicuramente un invito urgente, urlato a gran voce, a tornare a parlare di economia e di teoria economica in termini politici, uscendo quanto prima dal paradigma che Joe Earle, Cahal Moran e Zach Ward-Perkins (fondatori della Post-Crash Economics Society) hanno definito «l’econocrazia», ovvero una rete di istituzioni tecnocratiche (banche centrali, dipartimenti del Tesoro, grandi istituzioni finanziarie e corporation) che hanno fondamentalmente sottratto il potere di determinare le scelte economiche alla cittadinanza. Su questo Clara Mattei non indica percorsi di lotta su priorità specifiche, ci aiuta a vedere più chiaro all’interno dello stagno opaco dell’oppressione. L’unico invito che fa è quello, nel cercare di cambiare il paradigma, di ispirarsi quanto più possibile alla tradizione gramsciana dell’unione di teoria e pratica, della «prassi», come attività umana trasformatrice della realtà e produttrice di storia: «azione è pensiero e pensiero e azione, ovvero le rivoluzioni istituzionali vanno a braccetto con le rivoluzioni metodologiche. La teoria e la pratica sono quindi un tutt’uno e devono muoversi insieme per rafforzarsi a vicenda e per sostenere le dinamiche trasformative condivise da una collettività» (Mattei, 2023, pag. 119).

 


Note

[1] La rete Rethinking economics ha tra l’altro pubblicato un’ottima introduzione al pluralismo delle teorie economiche. Si veda: Rethinking Economics, An introduction to pluralist economics, Taylor & Francis, 2017.



Bibliografia

 O. Blanchard, A. Domash, L.H. Summers, Bad news for the Fed from the Beveridge Space, Peterson Institute for International Economics, Policy Brief, luglio 2022.

A. de’ Stefani, Vilfredo Pareto, «Gerarchia», II, gennaio 1923

J. Earle, C. Moran, Z. Ward-Perkins, The Econocracy: The Perils of Leaving Economics to the Experts, Manchester University Press, Manchester 2016

J. K. Galbraith, The Anatomy of Power, Houghton Mifflin, New York 1983

A. H. Maslow, Teoria della motivazione umana, Pirelli, Milano 1973

U. Ricci, Tre economisti italiani: Pantaleoni, Pareto, Loria, Laterza, Bari 1939

A. Roncaglia, L’età della disgregazione. Storia del pensiero economico contemporaneo, Laterza, Bari 2019

R. Skidelsky, What’s wrong with economics? A primer for the perplexed, Yale University Press 2021.


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Francesco Tucci, laureato in Scienze economiche, è dottorando in Studi Sociali ed Economici presso il Dipartimento di Economia e Diritto dell'Università La Sapienza di Roma. La sua ricerca finora si è concentrata sulle relazioni tra politica e gruppi d'interesse, con particolare attenzione al finanziamento delle campagne elettorali e al lobbismo.



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