Con grande piacere pubblichiamo questo bel testo di Claudio Dionesalvi, dal quale è possibile trarre considerazioni sociologiche e politiche di rilievo, soprattutto oggi che viviamo, come ci ricorda Claudio, in un mondo dove siamo «diventati tutti clienti e cediamo pezzi di esistenza all’algoritmo sovrano in cambio di molecole dopanti». Si tratta di un breve racconto biografico, con conseguenti riflessioni, situato a Cosenza, che potrebbe essere esteso a molte altre piccole città meridionali, ma che trova vitalità e caratterizza in particolare la città bruzia. E non certo per caso, ma perché se è vero che ogni angolo del Mezzogiorno ha avuto una «cummare» e un «onorevole», non è altrettanto vero che tutte le altre piccole città videro nascere, negli anni ’80, «gruppi informali che generarono significative forme di rivolta esistenziale». Sì, proprio cosi, proprio negli anni del nostro scontento e Claudio, come sa chi lo conosce, è stato un protagonista di questi gruppi, con coraggio e a viso aperto, anche quando l’asfissiante conformismo dei cosentini ti etichettava come un pericoloso deviante per qualsiasi atto irrispettoso dei valori tradizionali, che nei fatti servivano a consacrare quelle clientele che nel titolo vengono definite «immanenti»: figuriamoci lo stigma per l’occupazione di uno stabile da adibire a Centro Sociale, per la creazione di un gruppo ultras, per l’audacia di prendere pubblicamente la parola e discutere a voce alta di sovversione, e cosi via. Ma voglio aggiungere che, a mio modesto ma informato parere, non si trattò solo di una rivolta esistenziale o, meglio, si trattò di una rivolta esistenziale che però influenzò enormemente il cambiamento culturale della città e, quando le circostanze furono favorevoli, anche quello politico con inedite forme di municipalismo. Se oggi Cosenza è per alcuni aspetti irriconoscibile rispetto agli anni di cui si tratta nel testo, se la città bruzia è ancora attraversata da dinamiche culturali, politiche e soggettive di un certo interesse, io credo che sia dovuto al fatto che i gruppi informali di cui parla Claudio agirono quotidianamente per tutti gli anni ottanta e seppero guardare con attenzione, reinventare e contestualizzare quel che c’era stato prima di loro. Sarebbe importante che i ragazzi di oggi riuscissero a fare la stessa cosa, soprattutto perché, come dice Levy Strauss, «i grandi rivolgimenti della storia che i libri ci fanno apparire risultato di un gioco di forze anonime e tenebrose, possano compiersi invece, in un determinato momento, grazie alla decisione virile di un pugno di ragazzi in gamba». Buona lettura.
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In una sera d’autunno la mia cummare mi chiese di accompagnarla a fare una passeggiata. Da Napoli in giù, «compare» non è solo chi ti ha tenuto a battesimo o ti ha fatto da padrino della cresima. È una figura più importante dei parenti di sangue, ti aiuta a vivere, sostituisce i genitori nel caso in cui muoiano anzitempo. Senza questo antico istituto consuetudinario, sarebbe stato davvero difficile sopravvivere a sud in epoche remote.
Ricordo bene che quella sera, camminando, la cummare mi stringeva forte la mano. Ebbi l’impressione che la sua tensione fosse dovuta alla paura di incappare in una delle frequenti sparatorie che in quel tempo scuotevano le nostre strade. Erano gli anni Ottanta, «c’era una volta a Cosenza». Dopo una cinquantina di morti ammazzati e centinaia di agguati, la guerra di mafia stava declinando verso una tregua concordata tra i clan rivali, con la benedizione del ramo vincente dei costruttori edili e delle famiglie politiche. Senza voler correre il rischio di resuscitare Lombroso, tante di quelle facce pulp rimangono ancora oggi nel proprio hortus conclusus, dove conservano ricchezze e privilegi, garantiti dalla fratellanza di un apparato giudiziario e inquirente locale, la cui improbità è ormai letteratura scientifica.
Comunque la mano della cummare non tremava per l’atavico terrore della malavita in azione. Lessi nel suo sguardo un senso di colpa, la volontà di occultare un’azione di cui non voleva informare nessuno. Io stavo per divenire testimone di quel gesto. Lei mi considerava suo complice omertoso. Sapeva che avrei mantenuto assoluto riserbo. Ma cosa doveva fare? Cominciai a sospettare che avesse una relazione segreta, una tresca amorosa, sebbene mi sembrasse strano: non era più giovanissima e frequentava la chiesa persino durante la settimana. Ai miei occhi però questo non la poneva al riparo da possibili cadute etico-sentimentali. Proprio in quel periodo, a scuola, stavamo leggendo i Promessi Sposi ed ero rimasto turbato dai casini sessuali che avvenivano nel più moralista dei romanzi storici. Mentre avanzavamo con passo furtivo verso destinazione a me ignota, continuavo a ripetermi che se una monaca del XVII secolo era stata capace di combinare tutti quei pasticci, figuriamoci la mia cummare! Come minimo doveva avere una relazione con uno dei killer dei clan cosentini in guerra e mi stava usando come innocente scudo per consumare qualche bestiale imboscamento. Compiangevo già i suoi due figli. La maggiore era emigrata al nord, subito dopo essersi laureata. Al mare aveva conosciuto un romagnolo DOC, in vacanza al seguito di calabresi trapiantati al nord. Si erano fidanzati, poi sposati, e se n’era andata a vivere lassù. L’altro figlio, il minore, anche lui laureatissimo, era disoccupato e viveva in casa coi suoi.
Entrammo in un portone nei pressi della chiesa di Santa Teresa. Al secondo piano ci infilammo in un appartamento buio e maleodorante di nicotina. Una signora ci fece strada in un corridoio punteggiato di quadri scialbi, nature morte, ritratti melanconici. La presenza di questa donna mi rincuorò: se c’era una segretaria in quell’oscuro ufficio, la cummare non si sarebbe appartata per consumare un amplesso con qualche maschio calabro-latino neanderthalensis, a meno che il soggetto non fosse un medico, una categoria professionale che all’epoca visitava ancora i pazienti dal vivo e spesso richiedeva che si spogliassero. In questo caso, il flirt sarebbe stato più agevole. Entrammo in un’anticamera e vi trovammo tre o quattro signori dai pancioni Super Santos, arenati su cigolanti poltroncine. Operai o contadini, forse. Di sicuro, a giudicare dalle mani ruvide e dalle loro braccia possenti, persone abituate a lavorare duro. «L’onorevole vi riceverà tra poco», fu l’ultima frase che sentii pronunciare dalla segretaria. Poi, spalmai la testa sulle gambe della cummare e precipitai in un sonno d’esodo. Quando, almeno un paio d’ore dopo, mi destai, era arrivato il nostro turno e la cummare mi stava tirando per un braccio scuotendomi un po’ per scrollarmi il torpore residuo. Entrammo in uno studio arredato con una tonalità fissa: il marrone. Tutto era di questo colore lì dentro: la mobilia, il cestino dei rifiuti, una macchina da scrivere, il telefono, il portacenere ingolfato da mozziconi. Mi colpì una mancanza. Di solito negli studi professionali ci sono sempre dei libri. Non in questo. Gli scaffali della libreria marrone erano vuoti. Nel vuoto si perdeva anche lo sguardo dell’assistente vestito di marrone, che in piedi guardava le spalle di un uomo stempiato, anch’egli panciuto, con le gote rosse, la barba incolta, l’espressione indagatrice e la voce impostata, spaparanzato dietro la scrivania dinanzi a noi. «Avevi preso un appuntamento. In che cosa posso aiutarti?».
L’uomo si rivolse alla cummare come se la conoscesse. Si intuiva dal tono algido che in realtà era la prima volta che la vedeva.
«È per mio figlio. Si è laureato col massimo dei voti, però non lavora…».
Squillò il telefono, lui rispose. Parlottò per qualche minuto, poi riattaccò e tornò a porle la domanda: «Allora, mi dicevi, tuo marito è disoccupato…».
«No, quello che non lavora è mio figlio».
Lo interruppe la cummare. Lui riprese: «Ah già, scusa, sì, tuo figlio…».
«Sì, lui è laureato col massimo dei voti, ma non ha trovato niente. Sta tutto il giorno a casa, buttato sul divano. Legge libri, guarda la tv, nient’altro. Se continua così, cade in depressione. E io vorrei che lui…».
Di nuovo squillò il telefono. Stavolta rispose l’assistente: «Onore’, vi vogliono».
L’uomo sbuffò e afferrò la cornetta. Rimase a conversare per una ventina di minuti; quindi, sempre più seccato, tornò a rivolgere lo sguardo alla cummare.
«Stavi dicendo che hai questa figlia che non lavora».
«No, veramente si tratta di mio figlio. La femmina invece se n’è già andata al nord. Ha sposato uno di là ed è rimasta a viverci. Sia a lei che al marito sarebbe piaciuto stare qui, ma non hanno trovato niente. Adesso quello che dovrebbe trovare una sistemazione è mio figlio. Non vorrei che se ne andasse pure lui».
«Vabbe’, allora facciamo così…».
La porta si aprì ed entrò la segretaria.
«Onore’, sono arrivati quegli amici da Roma. Vi aspettano in hotel per la riunione».
L’uomo si alzò di scatto e si diresse subito verso l’uscita, lasciandoci seduti davanti alla sua scrivania. Alla cummare non rivolse neanche un saluto. Si limitò a lasciare disposizioni al suo assistente: «Scrivi il nominativo della signora e del marito, cioè della figlia, no, del figlio… insomma scrivi. Così vediamo che cosa possiamo fare. Segnati pure il seggio dove votano. E diamole un po’ di materiale».
Sparì dietro la porta. Noi due rimanemmo con l’assistente che ci consegnò una manciata di santini elettorali e fac-simile delle schede per votare, dopo averle concesso una stretta di mano che aveva il tono delle condoglianze. Poi uscimmo da quello studio. Non chiesi spiegazioni alla cummare.
Sono trascorsi quattro decenni da quel noioso pomeriggio. In un certo senso, il clientelismo non esiste più, perlomeno non come condotta estranea all’ordinaria visibilità delle relazioni. È prassi immanente, connaturata all’essenza stessa dei rapporti di lavoro e della politica. Non è più connotato «etnico», localizzabile nel Mezzogiorno: le cronache giudiziarie e la vivace narrativa d’inchiesta sui luoghi di lavoro ci mostrano quanto sia radicato anche nelle regioni del centro nord e nel resto d’Europa. Come le scuole calcio aperte da blasonati club in territori distanti da quelli d’origine, o le improbabili ambasciate degli Stati che fungono da paradisi fiscali, persino le aziende più innovative affidano i processi di reclutamento a uffici periferici gestiti da segreterie riconducibili a signorotti locali. La scuola pubblica italiana, che negli ultimi 25 anni è stata riconvertita al verbo della competenza e del sapere fare, spogliata del sapere critico, quindi deviata dalla fondamentale e indispensabile funzione di impartire conoscenza, è funzionale a questo sistema: sforna intelligenze perlopiù ignare della stessa possibilità di costruire un’esistenza imperniata sulla felicità nel godimento del tempo, inclini piuttosto all’accettazione passiva dello sfruttamento da lavoro come condizione ineluttabile. Ecco perché gli anni ottanta sono tornati di moda. Conoscerli, studiarli, capirli, può davvero aiutarci a comprendere meglio il presente. Soprattutto, potremmo indagare i gruppi sociali che in quel periodo, a dispetto di chi lo descrive arido e rifluente, seminarono ribellione, alterità, consapevolezza. Non servirebbe cercare di trapiantare nel presente le forme e i contenuti ormai obsoleti. Eppure quella carica di autonomia del pensiero e della prassi risulterebbe stimolante per provare a sollevarci dalla melma. In una città piccola e periferica, furono preziosi gli esperimenti sociali del Centro Rat [1], del Laboratorio di Poesia [2], di Radio Ciroma [3], della curva Sud [4] e del Centro Sociale «Gramna» [5]. Non erano comunità separate. Interagivano, aggregavano, spingevano le intelligenze locali verso modalità alternative di relazione, sia col potere che col resto della città. Propugnavano una rivolta umana e prepolitica di cui fatichiamo a rintracciare le orme nel presente. È difficile cogliere quanto e cosa abbiano seminato quelle esperienze. Le odierne avanguardie stentano a contaminare la società. Viviamo appesi alle liane spioventi dagli alberi piantati dal neoliberismo in quel periodo storico, con l’aggravante che all’epoca ogni tanto si poteva scendere a terra per abbeverarsi ai rigagnoli di ricchezza che il «sistema delle imprese» lasciava scorrere per motivi funzionali. Oggi i piccoli corsi d’acqua sono prosciugati. Anche quando, per effetto di qualche fenomeno temporaneo, i loro letti si riempiono, il terreno sociale, inaridito da decenni di aggressioni ai diritti essenziali e privato della coscienza di sé, non riesce ad assorbirne una goccia. La ricchezza così tracima e sfocia in un mare navigabile da pochissimi, mentre tutti gli altri annaspano tra i flutti e prima o poi finiscono per annegare.
Oggi il sud non esiste più. È un’invenzione funzionale all’accademia [6]. Assistiamo impotenti al trionfo del blocco sociale degli avvantaggiati, che dal tempo in cui il capitalismo attecchì in un contesto ostile [7], ancora oggi mantiene in piedi gran parte del verminoso ceto politico meridionale. Sono i figli e i nipoti di quella classe media «gonfiata» nel sud, dalla DC, tra gli anni settanta e ottanta del ‘900, per «garantire coesione sociale, governabilità del territorio e stabilità elettorale», di cui scrive Francesco Pezzulli nell’articolo pubblicato una settimana fa su Machina. Sono le famiglie che hanno potuto trattenere i propri figli quaggiù, e che nel tempo si sono garantite una serie di micro e macro privilegi. Votano e fanno votare a destra i milioni di asserviti alla loro gleba, ma ce ne sono anche tantissime legate ai club del compromesso storico, spudoratamente schierate con la dominanza neoliberista. Che con buona pace di chi ne teorizza il tramonto, continua a dilaniare e affamare i quattro quinti del pianeta. Alle latitudini meridiane, il neoliberismo ha trovato una valida alleata. Il tramonto della borghesia imprenditoriale degli anni Ottanta, quella che ancora riusciva pure a inventare e produrre qualcosa per arricchirsi, ha favorito l’avvento di una borghesia accattona, ma non per questo meno arrogante nella pretesa di spolpare l’osso e pavoneggiarsi del proprio status. Non «borghesia mafiosa», dunque, bensì «mafia borghese». Perché in oltre un secolo e mezzo la malavita organizzata [8] è riuscita a completare il processo di accumulazione originaria e oggi investe ovunque. Le acrobatiche operazioni dell’antimafia, mantenendo uno stato di guerra permanente al sud, lasciano impuniti i livelli più alti e depredano qua e là gli strati inferiori di questa borghesia. Così alimentano collera sociale, revanscismo, xenofobia. Non più «tirare a campare», dunque, bensì «campare a tirare»… la corda cui sono legate le vite di milioni di sfruttati.
Sono trascorsi quattro decenni da quando entrai con la mia cummare in quelle stanze. Il faccione dell’onorevole lo vedo ancora girovagare tra manifesti elettorali, interviste televisive e post sponsorizzati su facebook. Nel frattempo il figlio della cummare si è chiuso in se stesso, asserragliato in casa. Come migliaia di altri frustrati, la condizione di emarginato ha contribuito a peggiorare le sue condizioni psichiche. Il lavoro è sottrazione del tempo di vita, quindi è sottrazione della vita stessa. Chi non lavora, dovendo impegnare tutto il tempo, se non ha maturato soggettive passioni e una catartica ricerca della gioia, sprofonda nell’inanità. Il lavoro non ha mai curato le ferite della mente, eppure un’attività lavorativa stabile può servire a rendere meno liquide alcune precarie esistenze. L’impossibilità di lavorare, avere un reddito, quindi identificarsi con i propri simili, in questa condizione adolescenziale coatta, alimenta crisi individuale, disperazione, isolamento. Se non puoi vestirti come il tuo ex compagno di classe, se non hai i soldi per il drinkettino del venerdì [9], la vita ti prende male.
Meno male che la cummare è ancora viva. Altrimenti, fra un Trattamento Sanitario Obbligatorio e l’altro, non so come sarebbe finito suo figlio. Le famiglie dei mattacchioni poveri si tengono in casa i figli pur di non lasciarsi sfuggire le pensioni di invalidità. Le famiglie borghesi invece se li tengono nascosti per sfuggire allo stigma che in occidente aleggia sul disagio psichico.
Dunque, ognuno si tiene in casa qualcosa. Fuori esce solo chi si rende presentabile. Diventiamo tutti clienti di noi stessi, cediamo pezzi di esistenza all’algoritmo sovrano in cambio di molecole dopanti [10]. Un possibile ritorno al conflitto potrebbe scaturire dall’incunearci nell’ingranaggio della riproduzione sociale, reso permeabile dalla natura volatile della mutazione digitale. Più che una prospettiva concreta, è un auspicio. Così agirono quei gruppi informali che negli anni ottanta insidiarono le sovrastrutture locali: generarono piccole ma significative forme di rivolta esistenziale. Guai se ci lasciassimo trasportare da nostalgie e mitizzazioni. Eppure, chissà, magari, un giorno la follia che alleviamo riprenderà a tracimare.
Note
[1] La storia in dettaglio, in «teatrodellacquario.it»(estratto il 31/05/2023) https://www.teatrodellacquario.com/la-storia/la-storia-in-dettaglio/.
[2] F. Dionesalvi, Diritto alla cultura e politiche culturali. Le teorie di una prassi, Coessenza, Cosenza 2008.
[3] Radio Ciroma è un’emittente comunitaria nata 33 anni fa. Ha una sede nel centro storico di Cosenza, trasmette in streaming e raggiunge oltre 40 Comuni sui 105,700 MHz. È punto di riferimento per le lotte sociali. Tra i suoi fondatori, Franco Piperno e Carlo Cuccomarino. I ciromisti intervengono da sempre nel dibattito cittadino con una proposta teorica fondata sulla democrazia deliberativa e il federalismo municipale. Hanno partecipato alle elezioni comunali con la propria lista. (http://www.ciroma.org).
[4] G. De Vincenzo – C. Dionesalvi, Breve storia sociale del movimento ultras a Cosenza in Andrea Ferreri (a cura di), Ultras, i ribelli del calcio, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni 2008 (http://www.inviatodanessuno.it/?p=1105).
[5] C. Dionesalvi – S. Messinetti, 20 anni di Gramna, in «il Manifesto» del 28/01/2010
[6] G. Sole, L'invenzione del calabrese. Intellettuali e falsa coscienza, Rubbettino, Soveria Mannelli 2015
[7] G. Arrighi - F. Piselli, Il capitalismo in un contesto ostile, Donzelli, Roma 2017
[8] S. Di Giorno, Sodomia. Vita di un boss e di un operaio nella città del potere, youcanprint 2023
[9] La figura del drinkettista è ampiamente trattata dai ciromisti Marcello Gallo e Francesco Febbraio nel loro Talk mattutino «Appunti di sopravvivenza» (http://www.ciroma.org/appunti-di-sopravvivenza/).
[10] R. Curcio, L’algoritmo sovrano, Sensibili alle foglie, Roma 2018.
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Claudio Dionesalvi è nato a Cosenza nel 1971. Insegna Letteratura italiana nella scuola media ed è impegnato nella scolarizzazione dei bambini di origini rom presso la «Scuola del vento». E’ stato tra i fondatori, nel 1986, del gruppo ultrà del Cosenza calcio «Nuova Guardia» e del Centro Sociale Autogestito «Gramna». Attualmente lavora all’associazione editoriale «Coessenza», dirige il blog «www.inviatodanessuno.it» e collabora con diverse testate, tra cui «il Manifesto». È autore di numerose pubblicazioni, tra le quali: Mammagialla (Rubbettino Editore); Za Peppa. Come nasce una mafia (Coessenza); Scritti ultrà (Coessenza). Ha curato la traduzione di Subcomandante Marcos, Così raccontano i nostri vecchi (Intra Moenia).
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