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Queerizzare lo spazio

Multispecismo e architettura


Lo sherpa apre il nuovo anno percorrendo un sentiero che ancora definiamo multispecie, evidenziando anche i limiti dello stesso strumento linguistico che, come gli altri, necessita di una reinvenzione ed evoluzione. Lo spazio umano al tempo dell’Antropocene si dissolve nelle miriadi di altre possibilità dell’essere.


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La relazione tra l’essere umano e il contesto è molto complessa: non potremmo immaginarci al di fuori dell’ambiente, eppure alimentiamo un paradosso per il quale, pur facendo parte della “natura”, ce ne sentiamo esclusi riferendoci ad essa come a qualcosa che si situa «al di fuori», che ci fa da sfondo e da contenitore. È proprio questo costrutto culturale a causare un bias antropocentrico che enfatizza, da una parte dinamiche di superiorità nei confronti delle altre specie, dall’altra un’eccessiva romanticizzazione della natura come dominio separato da quello antropico, che proprio in quanto separato dev’essere protetto dall’impronta umana distruttiva. La natura non è, tuttavia, una tabula rasa, così come non è “muta e immutabile”.

La narrazione dietro questo artificio, seppur si poggi su basi acclarate (l’origine antropica dell’attuale crisi climatica è scientificamente provata), alimenta una serie di fraintendimenti: l’agire dell’essere umano sul mondo non è intrinsecamente distruttivo; così come artificioso è separare e gerarchizzare l’antropico dal naturale in un’epoca in cui questi due fattori sono inestricabilmente mescolati.

Relegare le prospettive di cambiamento esclusivamente all’interno di processi culturali rappresenterebbe, infatti, una maniera erronea di circoscrivere tutto l’agire nel mondo all’interno del dualismo natural/culturale che il postfemminismo da Haraway, a Butler, a Braidotti (giusto per citare alcune delle voci principali) ha già attivamente contestato e superato.

Inoltre, il non-umano con il quale condividiamo l’esistenza sul Pianeta viene spesso circoscritto alla sola presenza degli «altri esseri viventi», come se tra i non-umani, con i quali sussistono correlazioni che concorrono alla creazione di un ecosistema ibrido, non si debbano includere anche gli attanti tecnologici, gli oggetti e gli iperoggetti; o come se nella rete relazionale sia sempre e comunque necessario stabilire un posizionamento che sia «altro» rispetto a un soggetto principale che resti l’essere umano. Anche il non-umano stesso come costrutto lessicale sembra rimandare a qualcosa di alternativo all’umano, piuttosto che a un insieme di entità interdipendenti ed eterogenee, che vogliono fuggire da un confronto dicotomico in cui «l’essere altro» è spesso declinato in maniera antropocentrica e specista.

Mi impegno ad utilizzare la locuzione «essere umano» per aggrapparmi ad un significato di «umanità» molto più ampio e inclusivo di tutte le sfumature di genere, che si perderebbe se impiegassi semplicemente la parola «uomo» in riferimento alla nostra specie. Obiettivo di questo scritto è, infatti, portare al centro del dibattito una riflessione su nuove pratiche di progettazione dello spazio architettonico che si poggino sulla rottura della dicotomia natura/cultura, per promuovere l’attivazione di processi di inclusività anche nei confronti del non-umano, volti a superare l’atteggiamento specista e antropocentrico, purtroppo ampiamente diffuso e culturalmente radicato.

Come cambierebbe, infatti, la progettazione se si abbracciasse una prospettiva di decentramento?

Il bias antropocentrico sul quale si poggia il posizionamento degli esseri umani in quanto membri della specie dominante è di fatto stato molto ricorrente anche in ambito progettuale: per quanto in tempi più recenti, anche alla luce della pandemia di Covid-19, certi processi di transizione ecologica e di sensibilizzazione verso i temi ambientali abbiano visto un’accelerazione, si è comunque sempre messo al centro dei ragionamenti progettuali il solo interesse umano. Sebbene sia lecito nella disciplina architettonica rispondere a problemi pragmatici che riguardino l’abitare umano e le esigenze ad esso connesse, una visione sistemica nei confronti del più ampio ecosistema di interessi (che riguardino anche le altre specie) non è mai stata integrata nella prassi dell’esercizio progettuale come si dovrebbe. L’attenzione ecologista riguardo l’impiego di materiali, che siano il più possibile rispettosi dell’ambiente e meno impattanti, continua comunque a perpetuare una prospettiva in cui è l’uomo a essere al centro della narrazione e l’ultimo beneficiario dell’intervento. Tuttavia, l’architettura in quanto fatto progettato si interfaccia con delle condizioni al contorno preesistenti che sono sempre frutto di relazioni con entità non-umane che quel contesto già lo abitano e nei confronti delle quali è necessario riconoscere un rapporto di intra-attività. Si utilizza la nozione di «intra-azione», mutuandola da Karen Barad, in antitesi a quella più comune di «interazione», perché quest’ultima presupporrebbe un’esistenza anteriore di entità indipendenti, mentre la svolta concettuale intrinseca nell’intra-attività sta proprio nell’inseparabilità ontologica tra «componenti», che sono aggrovigliate e intra-agiscono materialmente nella riconfigurazione del reale, come accade nel caso di un entanglement quantistico. Ne deriva che, analogamente, l’essere umano è costantemente mescolato con il non-umano e lo scambio tra corpo e ambiente determina un processo di transcorporalità che, nell’accezione proposta da Stacy Alaimo, mira a sottolineare il movimento di attraversamento (insito nel prefisso trans-), per descrivere un rapporto di intersezionalità e interdipendenza tra soggetti coinvolti.

Sulla base di queste premesse, nel suo intra-agire nello spazio come un elemento di perturbazione, l’architettura può essere concepita come soggetto che instaura un dialogo performativo con il contesto, piuttosto che come oggetto inerte che viene semplicemente «inserito». Lo stato di correlazione, interdipendenza e coinvolgimento di più soggetti posti nello spazio e nel tempo porta, infatti, a un continuo ridisegnare lo spazio stesso. Ma anche gli aggregati di materia che quello spazio lo disegnano ne sono ridisegnati a loro volta. Il concorrere attivo dell’architettura alla co-creazione di nuove relazioni implica quindi la necessità di tenere in conto dei diversi soggetti non-umani che generalmente sono esclusi dal processo discorsivo attorno al progetto, ma che sono ontologicamente intrecciati ai fattori umani con cui modellano perfomativamente la realtà.

A tale proposito, vale la pena introdurre il concetto di queerness, applicato allo spazio architettonico. Per farlo, occorre risalire alla radice del termine che, sebbene sia più comunemente associato alle lotte per l’emancipazione sessuale e di genere, concettualmente mira ad un più generico scardinamento e demistificazione di ciò che viene considerato «familiare», normato e categorizzato, attraverso la continua messa in discussione dei binomi identitari sui quali gran parte della cultura occidentale è tutt’ora fondata. Da un punto di vista spaziale-architettonico, queerizzare lo spazio significa pertanto negare la sua neutralità o la sua inscrizione in gerarchie contingentate ed escludenti nei confronti di alcuni dei suoi occupanti. Significa, insomma, leggerlo per quello che realmente è: non più semplice sfondo delle azioni umane, né uno spazio vuoto da colonizzare in maniera antropocentrica; piuttosto, un luogo denso di relazioni intraspecifiche che devono essere valorizzate.

Il progetto diventa a questo punto uno stimolo per enfatizzare il ruolo dell’architettura come interfaccia per una co-esistenza multispecie, facendosi promotore attivo di una pratica che sia sostenibile ed equa non solo nei riguardi dell’essere umano, ma anche verso le altre specie del Pianeta. Ne consegue che lo spazio architettonico possa essere considerato come assemblaggio della materia generata dall’interferenza tra lo spazio e i soggetti (umani e non-umani) che interferiscono.

L’incorporamento di questa prospettiva nella pratica progettuale, porterebbe l’architettura stessa ad assumere il ruolo di «fenotipo esteso» (Dawkins, 1982) dell’uomo, ossia di manifestazione dell’organismo all’infuori del suo immediato confine fisico, che però mostri sintonia con il contesto ambientale dove si sviluppa, così come la diga è parte del fenotipo esteso del castoro, o la ragnatela è parte del fenotipo esteso del ragno.

Guardare ai sistemi costruttivi come organismi in continua evoluzione e adattamento aprirebbe, inoltre, alla possibilità di emancipare l’ambiente costruito da una mera oggettificazione, per concepirlo come assemblaggio di organismi ibridi che si sostengono a vicenda in un rapporto virtuoso.Il riposizionamento dell’essere umano – anche nel suo ruolo di progettista – in un’ottica biocentrica assume, dunque, una funzione cruciale per collocarsi all’interno dei meccanismi naturali al pari delle altre specie della Terra.

Del resto, «koinocene» è uno dei neologismi identificati da Treccani tra quelli salienti per descrivere l’anno 2021, con riferimento a «un’epoca caratterizzata dal riconoscimento e dal rispetto dell’interdipendenza di tutte le forme di vita animate e inanimate presenti sul Pianeta».

Possiamo solo augurarci che non resti solo un buon auspicio per gli anni a seguire, ma una pratica da integrare in maniera attiva per inaugurare un nuovo paradigma culturale, basato su una società più eco-sintonica anche attraverso il progetto.


Immagine: Christopher Wood, Radiographies


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Selenia Marinelli, Architetta PhD, la sua ricerca è improntata sull’implicazione che il paradigma biotecnologico può avere in campo progettuale per la costruzione di nuovi habitat di co-esistenza tra sistemi biologici e antropici. Aderendo ad un approccio postumanista e neomaterialista radicale, scopo è infatti espandere il concetto di architettura, per ridefinirla come possibile luogo di contaminazione e co-abitazione tra umano e non-umano.

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