Un ricordo di Toni Negri
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Siamo lieti di pubblicare questo ricordo di Toni Negri, scritto da Antonio Casano, che non si limita ad omaggiare il Maestro ma ricostruisce i nessi politici e teorici che condussero lui e i suoi compagni di Palermo a fondare, intorno alla metà degli anni ’70, l’Autonomia Operaia nel capoluogo siciliano. C’è da dire che il rapporto di Toni Negri con la Sicilia era precedente, dei primi anni ’50, quando, appena ventenne, provò uno di quei momenti di chiarezza che lo accompagnarono per tutta la vita: «mentre la laica religiosità di Danilo Dolci mi aveva sconcertato e insospettito, avevo conosciuto alcuni proletari, militanti comunisti – raccontarono delle occupazioni delle terre e mi mostrarono i feroci e possenti risvolti della lotte di classe agraria […] quando i carabinieri mi cacciarono da Partinico, la mia ingenuità si fece per un momento selvaggia. Traversando le montagne sopra Palermo provai uno di quegli adolescenziali momenti di chiarezza nella ribellione che garantiscono per la vita. Bisogna ribellarsi, è giusto ribellarsi. La miseria era insopportabile. Dovevo dunque conoscere il movimento operaio – e reinterpretare il senso di giustizia e di trasformazione collegandolo ad un soggetto più reale di quello cui mi ero – genericamente e pacificamente – fin lì riferito». Insomma, negli anni ’50 è la Sicilia che spinge il cambiamento di Toni Negri, mentre negli anni ’70, come vedremo nel testo di Antonio Casano, è Toni Negri che spinge al cambiamento i giovani siciliani. Buona lettura a tutti (FMP).
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Il mio «incontro» con Toni Negri risale al ’77. Credo che prima di allora, anche a Palermo, nessuno fra i militanti più giovani avesse sentito mai parlare di lui né mai – a quel che mi risulta – s'erano fatti nella nostra realtà locale seri studi sulla vicenda dell’operaismo, di cui scoprivamo post festum la rilevanza che aveva avuto nelle lotte operaie dell'autunno caldo e nel movimento di contestazione giovanile del mitico ’68. Era questa la storia che direttamente o indirettamente ci apparteneva e che veniva rivisitata nei dibattiti dell'area dell'Autonomia palermitana. L’operaismo ci consentì di riappropiarci dell'essenza rimasta intrappolata nelle maglie del settarismo gruppettaro, della quale si intuiva una diversità sostanziale da quel che era stato l'esperimento posto in essere da Potere Operaio. Di esso sapevamo di un generico autoscioglimento, basti pensare che, nel periodo d'oro dell'extraparlamentarismo più o meno rivoluzionario, quasi tutte le formazioni politiche sessantottine avevano avuto loro sedi in città, ad eccezione di Pot.Op. che non l'ebbe mai; forse vi fu un qualche timido tentativo durato lo spazio di un mattino. Ma la fine dell'organizzazione operaista per eccellenza, che aveva deciso di chiudere la sua esperienza nel ’73, destava un notevole interesse politico in particolare fra i compagni che, come me, guardavano con grande empatia alle varie esperienze dell'Autonomia Operaia sparse lungo la penisola. In questo periodo gli Opuscoli Marxisti ci furono di grande aiuto.
Nel merito del dibattito congressuale di Rosolina – assieme agli altri compagni dell'Autonomia Operaia aderenti alla posizione di Negri, che dichiarava esaurita la funzione politica esercitata dal vecchio Pot.Op – riconoscevamo un salto analitico decisivo verso l'inizio di una nuova fase: da un lato, si prendeva atto delle trasformazioni del sistema produttivo capitalistico che, con l'avvio del processo di ristrutturazione, depotenziava la centralità dell'operaio-massa mediante l'introduzione di dosi sempre più massicce di automazione sostitutive di forza-lavoro, accompagnate dal decentramento del ciclo di produzione fuori dalla grande fabbrica, investendo così in un sistema micro-imprenditoriale socialmente diffuso. Dall'altro, si volgeva lo sguardo verso le nuove determinazioni resistenziali dal basso, cercando di capire i passaggi teorici che potessero legare le istanze di lotta dell'operaio-sociale. Insomma l'autoscioglimento di Potere Operaio, nel nostro immaginario, era l'atto che segnava la fine della composizione di classe attorno alla città-fabbrica, guardando invece all'intera spazialità sociale della fabbrica-città come il nuovo terreno della ricomposizione della conflittualità rivoluzionaria, di cui il proletariato giovanile era la manifestazione più avanzata.
Più in generale, bisogna osservare che l'esperienza di Pot.Op. in tutta l’area dell’autonomia del movimento palermitano veniva percepita come un'eccezione rispetto agli altri gruppi extraparlamentari, così come meno impietoso era il giudizio su Lotta Continua che, scioltasi nel ’76, vide quasi tutti i suoi aderenti partecipare attivamente – molti nell'area più creativa – alle sorti del movimento autonomo. Invece, con tutto quel che rimaneva in piedi delle formazioni gruppettare, si aprì un solco profondo, vista la deriva opportunistica intrapresa coll’embrassons-nous demoproletario che finì col reggere la coda del PCI, sempre più legato alle sorti della «razionalità governamentalista».
Col movimento del ’77 nelle facoltà occupate, grazie anche ai seminari autogestiti e in contrapposizione alla cultura dominante (e al potere esercitato anche dalle «baronie rosse»), cominciarono a circolare nuove letture critiche sulla società capitalistica che mettevano in discussione l’intera tradizione della dottrina marxista. E data l’influenza che ebbe Negri sul movimento autonomo palermitano, durante l'occupazione della facoltà di Lettere (la prima in assoluto in Italia) fu dedicato un gruppo di studi a La forma Stato che, in verità, ruotava attorno all’intera produzione di Toni, da quella accademica a quella militante.
Per noi giovani compagni cresciuti nel movimento degli studenti medi, ingabbiati nei gruppi extraparlamentari formatisi sull’onda del ’68 (che erano già attraversati a metà degli anni Settanta da una profonda crisi dovuta al livello di burocratizzazione in cui erano piombati), fu una vera e propria liberazione: fuori da quell' autoreferenzialità ci sentivamo proiettati in una nuova soggettivazione dentro cui vennero abbattute tutte le gerarchie. Ma soprattutto, ognuno di noi voleva conquistare la piena coscienza di un’attività politica e sociale che non separasse più il piano teorico da quello della militanza. In un certo senso, il movimento autonomo divenne un vero grande laboratorio di ricerca collettiva che, al tempo stesso, risultò essere una fucina di affettività umana che scuoteva le fondamenta della microfisica del potere.
Cosicché, a catena, sulla spinta di Lettere, presero corpo altre occupazioni di facoltà dell’ateneo palermitano che, oltre a legarsi alla concretezza dei bisogni sociali sul territorio (bioriqualificazione urbana, medicina preventiva, condizione giovanile, ecc.) inauguravano un nuovo modo di concepire la militanza politica a partire dai propri bisogni e desideri, dando vita a quel che diverrà l’esperimento di un nuovo modello di organizzazione sociale: il movimento. Questa entità divenne l’essenza di una comunità di singolarità dentro cui il privato era immanente al politico, spazzando via in un sol colpo la stanca pratica gruppettara e, con essa, i modelli piramidali ereditati dalla tradizione marxista-leninista del movimento operaio ufficiale, ideologicamente infarcita di dogmatismi, tradimenti e settarismi.
Di punto in bianco avevamo scoperto la nostra affinità con la pratica dell’Autonomia, a cui informalmente si rifacevano i circoli del proletariato giovanile che avevano anticipato il ’77. In un batter di ciglia una parte di quel che era stata la nostra vita militante (quella ideologizzata) ci apparve del tutto estranea, mentre «autovalorizzavamo» quella parte che ci vedeva direttamente investiti dentro le lotte studentesche antimeritocratiche. Queste si caratterizzavano, anche fuori dall’istituzione scolastica, come movimento giovanile proletario: si veda la leggendaria «settimana rossa» del ’75, con gli studenti al centro della protesta cittadina contro il «caro-autobus» e per la «libera mobilità urbana» che cercava di andare oltre il «rivendicazionismo studentesco della buona scuola» tanto caro ai riformatori socialdemocratici di ogni epoca. Insomma, imparavamo a fare indagine sociale a partire dal nostro autonomo antagonismo non più subalterno alla centralità della fabbrica. Percepivamo questo protagonismo collettivo come prassi dell'inveramento dell’operaio sociale, la cui concezione non aveva più nulla a che fare con il movimento operaio ufficiale egemonizzato dal lavorismo del PCI. Si compiva così una netta cesura. L’autonomia soggettiva si dispiegava nella sua pienezza in assenza di memoria: s'era spezzata la continuità verso il «sol dell'avvenir», mentre il comunismo era «ora e subito!».
Alla rilettura della nostra soggettivazione contribuì in modo determinante l'esserci, nel nostro piccolo, appropriati della cassetta degli attrezzi dell’operaismo di cui, grazie a Toni Negri (un punto di riferimento teorico-pratico altissimo), apprendemmo le modalità d'uso. Ricordo quanto era diventato importante per il movimento palermitano l’uso del lessico marxiano, proprio a partire dalla distinzione che gli operaisti facevano dal classico utilizzo del termine «marxismo». Personalmente ricordo di essere stato molto sorpreso per l'uso del termine «marxiano»: capii subito di essermi imbattuto in un percorso di ricerca difficile ma stimolante, fondamentale per la ricostruzione di una pratica politica; e, soprattutto, trovai la chiave di lettura metodologica in quel che Negri definiva come il «processo di spiazzamento», disarcionando il soggetto dalla dialettica hegeliana che si era insinuata nel marxismo dogmatico. Questo strumento teorico ci spiegava sostanzialmente la dinamica dell'operaismo: dapprima aveva messo in discussione tutte le certezze del marxismo sviluppatosi attorno la figura dell’operaio-professionale, poi aveva scoperto la concrezione storica della ricomposizione di classe del soggetto antagonista sulla base dell’operaio-massa, per spiazzare ancora il piano del conflitto con la scoperta dell’autonomia nella nuova composizione dell’operaio sociale.
Dopo la lunga stagione della determinazione storica dell'operaio-professionale, nel giro di poco più di due decenni, con una velocità impressionante, il conflitto sociale aveva mutato rapidamente la soggettivazione antagonista nei rapporti di classe all'interno della produzione. Pertanto l’oggetto della ricerca rivoluzionaria eravamo diventati noi stessi, in quanto operai sociali, schiudendo l’orizzonte alla moltitudine del lavoro immateriale. D'altro canto, però, giacché la proletarizzazione della società era divenuta un fatto inarrestabile, da quel momento in poi si sono progressivamente occupati tutti gli spazi vitali, senza lasciare inesplorato alcun interstizio possibile entro cui la sussunzione capitalistica esercitasse il biopotere come determinazione del suo dominio assoluto.
Detto in altri termini, la figura di Toni Negri fu un vero e proprio collante per quella che era stata l'Autonomia Operaia palermitana, anche perché prima del ’77 – soprattutto nella mia generazione di compagni – non è che fossimo tanto avvezzi alla pratica della elaborazione teorica: di tanto in tanto, all'epoca dei gruppi salva qualche eccezione, si organizzavano perlopiù delle letture di indottrinamento sui classici del marxismo, che somigliavano terribilmente ad una sorta di esercizi spirituali sulla vulgata Marx. Diversamente dal dogmatismo, studiare l'operaismo e gli sviluppi del pensiero negriano non era uno stare punto per punto sui suoi libri o su quelli del collettivo di elaborazione a lui vicino (una fucina di intellettuali-militanti che con lui producevano una quantità di materiali, molti dei quali hanno arricchito le nostre librerie), ma era l’utilizzare lo stile di lavoro e la «conricerca» come metodo per allargare il nostro campo di indagine sui processi della soggettivazione antagonista, cominciando da quelli che ci avevano visto protagonisti nel conflitto degli anni Settanta. Sostanzialmente riprendevamo la cifra della dimensione politica, cioè la pratica laboratoriale collettiva, ispirandoci alla dinamica tracciata nei primi anni Sessanta dalla scuola operaista dei Quaderni Rossi, proseguita con le varie esperienze delle quali Negri è stato uno straordinario filo conduttore, capace di rappresentare magistralmente le anticipazioni delle trasformazioni sociali che quei laboratori individuavano tendenzialmente. Per noi dell'Autonomia Operaia palermitana guardare al percorso di Negri era una sollecitazione magistrale, maieuticamente fondamentale nella ricerca d'essere dentro il processo di soggettivazione. In questo senso, mi sembra assolutamente felice la definizione di Toni come «il singolare comune che ci ha accompagnati per oltre mezzo secolo».
Voglio precisare che ho impostato questo mio tributo dando risalto alla dimensione collettiva, senza la quale non mi sarei potuto alimentare nel corso della mia formazione politica. Si tratta di un percorso che mi accomuna ad altri compagni, con i quali ho continuato nel tempo ad avere rapporti fraterni ed una comunanza attivistica proseguita negli anni nelle realtà intersezionali dei movimenti di lotta. Non a caso con diversi di loro ritroviamo ancora oggi in uno spazio laboratoriale, per continuare ad interrogarci sui possibili sviluppi della conflittualità sociale nel ventunesimo secolo. E tuttavia questa mia narrazione non impegna nessun altr* dei protagonisti di quel soggetto collettivo nato nel ’77.
Personalmente ho conosciuto Toni in occasione della sua venuta a Palermo per la presentazione di Impero al teatro Agricantus, mai visto così straripante di persone come in quella giornata. Ma fu all'indomani che ebbi un contatto diretto, nel corso di un'assemblea con i movimenti cittadini, tenutasi alla libreria Modusvivendi. Intervenendo in quel dibattito chiesi a Toni cosa ne pensasse delle necessità di aprire una nuova fase organizzativa sulla confederalità sindacale (allora ero un quadro sindacalmente attivo nel comparto del lavoro pubblico). In sintesi, con estrema chiarezza, rispose che nessun confederalismo sindacale né vecchio né nuovo sarebbe stato adeguato a rappresentare la nuova organizzazione sociale del lavoro cognitivo, disseminato nei meandri della società postindustriale, prefigurando, in alternativa alle categorie verticali storicamente confederate nel sindacato classico, un vero e proprio «sindacalismo sociale» che intercettasse tutto il potenziale vertenzialismo diffuso.
Ci ritrovammo poi la stessa sera a cena. Assieme a lui Judith Revel e Saro Romeo (compagno catanese con il quale siamo diventati fraterni amici) e alcuni compagni palermitani. Lo tempestammo di domande sulle nuove prospettive che il costrutto di Impero apriva alla moltitudine. In quegli anni v'era stata una grande mobilitazione del cosiddétto «popolo viola», in risposta alla chiamata di alcune personalità celebri, Nanni Moretti in testa, che sollecitava l'allora governo ulivista guidato dalla sinistra dalemiana a sganciarsi dall'abbraccio mortale con Berlusconi nella famosa «bicamerale». Avevo posto dei dubbi su questo movimento, ritenendolo tutto interno alla pratica riformista istituzionale. Mi sorprese la risposta di Toni che esaltava, invece, il grande desiderio di partecipazione democratica dal basso che quel movimento esprimeva, al di là della collocazione fattane dalle esemplificazioni mediatiche, individuando in quella straordinaria mobilitazione il manifestarsi della moltitudine. In un certo senso, sia nella risposta sul sindacalismo sociale sia sulla grande manifestazione romana «dei viola», ho ritrovato le stesse considerazioni espresse da Toni sulle lotte in Francia: per esempio, come non collocare i gilets jaunes nel solco di un vertenzialismo sociale autonomo e fuori dal sindacalismo classico? D'altro canto, parimenti, come non riconoscere alla moltitudine la libertà di utilizzare gli spazi offerti dal vecchio armamentario della sinistra novecentesca, così come, ad esempio, si è determinato nelle recenti lotte contro la riforma delle pensioni del governo Macron organizzate dai sindacati tradizionali francesi?
Dopo anni ho avuto modo di incontrare Toni in altre due occasioni: una di nuovo a Palermo, al teatro Garibaldi occupato, l'altra a Roma alla Summer School di Euronomade. La cosa sorprendente è che a distanza di anni egli si ricordasse dei compagni palermitani con cui aveva cenato quella sera in trattoria, mostrando nei nostri confronti una assoluta simpatica cordialità. Ma era del tutto evidente il grande affetto che egli nutriva verso tutti i compagni, dai più giovani a quelli più avanti nell'età, attraversando un ampio arco intergenerazionale. In quel di Roma conobbi diversi altri compagni con i quali ancora costruiamo attività ed iniziative, sapendo di esser parte di una più grande comunità che nel solco di più di mezzo secolo ha tracciato con le sue diacronie un pensiero rivoluzionario, capace di intercettare e riscrivere le trasformazioni storiche della società dal punto di vista della soggettivazione. Toni Negri di questa comunità intergenerazionale di ricerca è stato sicuramente un faro insostituibile, un vero cattivo maestro di cui terremo vivo il pensiero, ma di cui soffriremo terribilmente la mancanza. Ciao Toni.
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Antonio Casano è giornalista, saggista, blogger. Attivista dei movimenti sociali e sindacali. Ha animato – come redattore o direttore – diverse riviste e collaborato con numerose testate cartacee ed online. Ha fondato e coordina il blogmagazine NoteBlock ed è co-curatore per le Edizioni Multimage della Collana «I Libri di Pressenza».
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