Claudio Dionesalvi, «Mammagialla» e il processo al «Sud Ribelle»
Oggi, il 15 novembre, ma di ventuno anni fa, uno strampalato teorema giudiziario arrestò il cammino del «Sud ribelle», parte meridionale di quel «movimento dei movimenti» che, come scrive Francesco Festa nella recensione che siamo lieti di pubblicare, riusciva a spostare consenso adoperando pratiche conflittuali. La sezione «sudcomune» di Machina intende ricordare quell’esperienza con due testi significativi: la recensione al libro Mammagialla di Claudio Dionesalvi, incentrato sulla violenza e assurdità dell’azione giudiziaria e repressiva, e Space Invaders. Soggetti di movimento e luoghi comuni nello spazio urbano, un saggio di Anna Curcio sulla straordinaria manifestazione di Cosenza del 22 novembre, pubblicato originariamente nel volume del 2006 Spazi Comuni. Reinventare la città (a cura di F.M. Pezzulli e G. Brugellis). Prima di lasciare la parola agli autori, però, approfitto di queste poche righe per un ricordo personale di quell’assemblea romana citata da Festa, nella quale si decise la destinazione cosentina della manifestazione: «Ma a un certo punto chiese la parola l’indimenticabile Carlo Cuccomarino, con tono coinvolgente e le vocali aperte, dell’inconfondibile accento cosentino, propose con fermezza che il corteo e l’assemblea nazionale si tenessero a Cosenza». Posso confermare che le cose andarono in questi termini, nonostante abbia sentito in questi due decenni i più variopinti racconti sull’avvenimento. Carletto arrivò a Roma in pullman, la mattina, ed aveva con se uno zainetto ed un ombrello che, data la bella giornata, fu facilissimo perdere alla prima occasione. Avevo all’epoca un motorino «vissuto» e girammo insieme la città per ore, fino all’inizio dell’Assemblea che si tenne a Portonaccio, se non vado errato al Centro sociale Strike. Più volte negli anni successivi mi ricordò quei giri in motorino, eravamo stati bene, eravamo riusciti a fare qualcosa. Il mio ricordo particolare di quella giornata, invece, riguarda proprio le parole di Festa…. «Ma a un certo punto chiese la parola…». Si, ad un certo punto. Per tutto il tempo infatti è stato massimamente attento verso tutto ciò che accadeva nell’assemblea, ci saremmo rivolti lo sguardo si e no un paio di volte, ma quando ci palesarono la proposta di tenere la manifestazione a Napoli (anche lì c’erano stati degli arresti), dopo un breve momento di pausa durante il quale mi sentivo cedere il terreno sotto i piedi e cercavo di mettere in ordine le idee per dire qualcosa, sentii Carlo prendere la parola e, al termine dell’intervento (che fu insolitamente breve), l’assemblea fu unanime nello scegliere Cosenza come sede della manifestazione nazionale. Quante volte l’ho sfottuto per la risolutezza di quel suo intervento, ma non cedette mai alla provocazione, anche perché c’era poco da sfottere: il corteo, come vedremo in particolare nel saggio di Anna Curcio, fu strepitoso, il più ampio e variegato che la storia della città bruzia ricorda. (FMP)
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Scrivere di un libro pubblicato due anni fa è forse un po’ anacronistico. Ma dipende dal libro. Vi sono libri che, nonostante l’anno d’uscita, una volta ripresi in mano, magicamente, scoperchiano il vaso di Pandora e riaprono il cassetto dei ricordi.
Sono libri che fungono da archivi di una memoria collettiva, proprio perché, anche se scritti alla prima persona singolare, vengono fuori da una penna collettiva, da un’esperienza che fu di molti, da un «ingranaggio collettivo».
E infatti, quando me lo ha dato Claudio, quel libretto dalla copertina cinta di giallo, agile nel portarlo addosso in una tasca della giacca, l’ho divorato in pochissime ore. Ne ho assaporato, riga dopo riga, la scrittura fantastica, a tratti immaginifica, propria di colui che dinanzi a una birra o sui gradoni della curva ti prende sotto braccio e ti racconta storie. E non sai se sia letteratura orale o cultura popolare. Dionesalvi racconta tante storie, provenienti dal suo mondo contenente tanti mondi (militante, insegnante, ultrà, scrittore, animatore sociale e culturale), e intessute l’una nell’altra, così ti porta lontano lontano, come un «piccolo principe» tra incunaboli della memoria, dove non sai se i personaggi siano reali o di fantasia, e non sai più quale crocevia avevi imboccato. Ma poi, con la stessa maestria, arriva un lieve strattone al braccio che ti riporta al centro della narrazione.
Claudio ha una dote eccezionale: è un cantastorie, e questa dote è molto importante per la trasmissione non solo della memoria ma anche dei saperi, in particolare in una società bulimica di informazioni con la memoria del pesce rosso. Quando leggi un suo scritto, sembra di immergersi in un mondo di fiabe ribelli, zapatiste, à la Don Durito della Lacandona, il personaggio di Marcos. Ti conduce in mondi lontani e infine ti riporta per terra. E nell’atterrare ti lascia una cesta di doni, cioè, tantissime immagini della realtà storica, talvolta tristi, da farti uscire le lacrime, talaltre miserabili, così com’è il «realismo capitalista», e altre ancora potenti, com’è potente quel respirare insieme, all’unisono per affermare le proprie idee, che alcuni giudici hanno tradotto in atto giudiziario kafkiano, se non folle e demenziale, come il cospirare contro l’ordine costituito.
E parlo con franchezza – scrive Claudio dinanzi al Gip – affermo serenamente che l’accusa nei miei confronti è troppo folle. Secondo loro, avrei fatto parte di una setta segreta, una specie di superclan, organizzato e coperto, pronto a far scattare chissà quali piani diabolici contro il governo italiano e la globalizzazione. Che un reato abbia un carattere demenziale e inconsistente si deduce già dall’oggettiva impossibilità di capovolgere un fenomeno avvolgente come la globalizzazione dei mercati. Inoltre il fascicolo, viziato da tanti significativi errori di grammatica, si basa su un falso sillogismo, che in estrema sintesi è il seguente: se nel Sud Ribelle esisteva una struttura associativa occulta e violenta, e se Dionesalvi è tra i promotori del Sud Ribelle, allora Dionesalvi è occulto, violento e cospiratore. Lui e gli altri hanno partecipato agli scontri di Genova, ubbidendo a un piano premeditato.
A dispetto di quanto scriverà in seguito, in realtà alla Plastina non rilascio «dichiarazioni», bensì difendo la mia persona, e provo a smontare un castello accusatorio – il classico impianto logico-deduttivo – partendo da considerazioni empiriche e induttive. Dico sostanzialmente due cose: mi sembra paradossale che io abbia fatto parte di presunti gruppi muscolari, perché, al contrario, da tanti anni mi riconosco in tutto il movimento dei movimenti e nella sua complessità bagni, ma pure quelli della Digos, che io rifiuto, almeno dalla metà del decennio scorso, la logica delle fazioni. Non capisco perché adesso i ROS dei carabinieri riscrivano la mia storia personale. Considero l’esperienza del Sud Ribelle una realtà democratica, aperta e in offensiva, che ha agito alla luce del sole. Peraltro, non ho neanche partecipato alla pubblica assemblea in cui è stata fondata la rete, in quanto mi trovavo fuori Cosenza, ma se fossi stato in città, di sicuro pure il peso parte. La seconda cosa che dico è di una semplicità impressionante: a Genova ho manifestato in un corteo, quello della disobbedienza sociale, che bandiva l’uso di strumenti atti a offendere, e che è stato attaccato dai carabinieri quando nessuno se lo aspettava. La violenza l'abbiamo subita. E adesso mi trovo imputato per una causa paradossale, secondo la quale io e i miei compagni l’avremmo pianificata (pp. 81-82).
È un passo significativo di Mammagialla. Diario di una carcerazione (Prefazione Giuseppe Mazzotta, Postfazione Franco Dionesalvi, Edizione Erranti, Cosenza 2021, pp. 132, €12), uno stralcio del primo interrogatorio, dopo gli arresti del 16 novembre 2002, nel carcere di Viterbo, denominato appunto Mammagialla, dinanzi al gip, Nadia Plastina. In quell’occasione si trovava in isolamento, dopo esser transitato prima nel carcere tristemente speciale di Trani e poi sballottolato in una celletta di un blindato per svariate ore fino alla nuova destinazione laziale. È un passo assai prensile del momento storico vissuto da Claudio – e fra le righe se ne coglie l’aggravio – anche dalle altre compagne e dagli altri compagni arrestati, e dal movimento tutto. Erano anni in cui il movimento riusciva a muovere consenso e numeri. Quel passo dà anche la cifra del teorema giudiziario ordito dalla procura di Cosenza, con a capo il magistrato, Domenico Fiordalisi.
Tutto il libro, fra le storie di cui parla l’autore e i ricordi dei giorni di detenzione, ripercorre la discesa agli inferi e le ultime fasi di un movimento collettivo, il movimento noglobal o movimento dei movimenti che, dopo Genova, l’11 settembre 2001 e qualche settimana prima con il milione di persone provenienti da mezzo mondo del Social Forum di Firenze (6-9 novembre 2002), aveva dato l’ultimo colpo di coda prima di essere risucchiato nei gironi della repressione giudiziaria, fatta di processi, avvocati, raccolta fondi per le spese e tempo per districare la matassa nella quale ci avevano avvolto con il loro teorema giudiziario, come un cappio intorno al collo della Rete del Sud Ribelle.
Il 16 novembre 2002 ero a casa dei miei, a Sant’Arcangelo, in provincia di Potenza. Da qualche settimana avevo iniziato il servizio civile, anche se avevo fatto richiesta presso un’associazione di Napoli, chissà perché mi avevano spedito al mio paese, a 400 km di distanza dalla città dove vivevo e dove, in realtà, svolgevo la mia militanza politica. In quegli anni, a cavallo fra i due secoli, l’attivismo politico era qualcosa che mi impegnava tutta la giornata, senza soluzione di continuità, ogni istante della mia vita. E non ero certo il solo. Chi ha vissuto gli anni del «movimento noglobal», ha vissuto un frangente storico in cui era tangibile l’essere soggetto politico in grado di muovere il senso comune, di spostare posizioni, insomma di incidere e fare «egemonia» nella società civile – come Gramsci insegna. Col senno di poi, abbiamo vissuto un periodo storico in cui il corso della storia progressivo, inarrestabile delle classi dominanti è stato interrotto, frazionato, messo in discussione, almeno per alcuni momenti ci siamo riusciti a camminare sulla testa dei re. E in quei momenti abbiamo percepito la possibilità hic et nunc di un altro mondo possibile. Per altri versi, abbiamo vissuto mesi di rivoluzione permanente o – per dirla con un concetto filosofico – una vita dentro e oltre la biopolitica, perseguendo obiettivi politici comuni nel tentativo di cambiare lo stato di cose presenti. Non ho vissuto gli anni ’70, ma ricordo vividamente che quei mesi per me sono stati un rivolgimento quotidiano. Gli Assalti Frontali cantano: «faccio movimento per il movimento». Ed era così: vivevamo giorno dopo giorno per tenere aperto il movimento, inventavamo iniziative, manifestazioni, assemblee per evitare il riflusso di quel movimento che riusciva a spostare consenso adoperando pratiche conflittuali. Conflitto e consenso, una coppia sinonimica come una sorta di imperativo per noi in quegli anni: ogni azione messa in campo doveva tener conto del consenso da spostare a nostro favore - o anche contro.
Il caffè caldo e amarissimo di mia madre lo ingollavo piano piano: uno schiaffo a mano aperta ma capace di svegliarmi seduta stante. Pensavo già a quando sarebbe arrivato il fine settimana per catapultarmi sull’autobus in direzione Napoli.
«Tatatatatataaaaa…», quella sigla stridula del Tg1, che solo a sentirla ti trasmette il pathos della pessima notizia. L’edizione delle 8. «Apriamo il telegiornale con una notizia appena giunta in redazione. È in corso una maxi operazione in Campania, Puglia e Calabria per l’esecuzione di mandati di arresti e perquisizione a carico di esponenti di centri sociali e sindacati di base».
Il volto inchiodato al televisore, quasi volessi attraversarne la sensorialità e raggiungere quei compagni e quelle compagne per liberarli dalle volanti, mentre i pugni mi si chiudevano dalla rabbia e gli occhi mi si inumidivano. Senza pensare un minuto di più diedi un bacio a mia madre, acciuffai lo zaino, vi ci ficcai dentro qualcosa, e corsi, corsi velocemente per prendere l’ultimo autobus per Napoli. Quello delle 8,30, dopo il quale, non ce ne sarebbe stato un altro fino alle 6 del giorno dopo. Si sa, Cristo ancora era fermo a Eboli e ancora oggi non se la cava benissimo.
Ecco, questi sono stati gli attimi in cui ho preso contezza che qualcosa stava cambiando definitivamente nelle nostre vite e il movimento noglobal stava entrando in un’altra fase, quella repressiva, almeno per noi del Meridione. La fase della persecuzione giudiziaria e, di contro, quella della nostra risposta. Ci lasciavamo alle spalle lo statu nascenti, in cui ci sentivamo accomunati da speranze comuni, dalla possibilità di intravedere – o sognare – un altro modo di organizzare i rapporti sociali e la società tutta; ci sentivamo potenti nell’essere in movimento con network internazionali; la nostra voce locale parlava una lingua globale: dal Chiapas a Seattle, da Praga a Göteborg, da Napoli a Genova, aveva tessuto una maglia di contropoteri che denunciava la devastazione ambientale, l’impoverimento delle classi subalterne ma anche dei ceti medi globali, la finanziarizzazione della vita e la privatizzazione dei beni comuni. Insomma quei movimenti intravedevano il «futuro presente» del capitalismo storico, il capolinea di questo sistema-mondo e, così, avevano messo in scacco le potenze occidentali. Cortei moltitudinari, con migliaia e migliaia di persone; la «guerriglia comunicativa», per cui ogni azione, da una semplice assemblea a un sit-in, era oggetto d’attenzione di giornalisti locali per poi rimbalzare nei telegiornali nazionali e internazionali. Pareva che quell’egemonia l’avevamo tutta dalla nostra parte. Mia madre, pur non condividendo le nostre pratiche, aveva condiviso il senso della protesta e come lei quelle migliaia e migliaia di uomini e donne: dagli scout al sindacalismo, dall’associazionismo cattolico ai centri sociali, era diventato appunto un movimento di movimenti. Ebbene, tutto ciò, di punto in bianco mi si chiuse dinanzi. E me ne accorsi sull’autobus in direzione Napoli.
I fatti sono i seguenti: poco avevano a che fare con la giustizia; molto, invece, con il teorema, quando non prosaicamente con la ritorsione. Come a dire: dopo avervele date in piazza e aver ammazzato uno di voi, ora ve la facciamo pagare finché non scomparirete dalla faccia della terra.
Dopo aver viaggiato su e giù per l’Italia, il fascicolo per annientare il movimento noglobal arriva a Cosenza. Dopo un’articolata indagine condotta dai carabinieri del ROS e dagli investigatori della Digos, tredici militanti di mezza Italia sono stati rinviati a giudizio. Sono tutti accusati d’aver fatto parte di un’associazione sovversiva denominata «Rete meridionale del Sud Ribelle», costituita formalmente a Cosenza il 19 maggio del 2001. Al «sodalizio» avrebbero aderito gruppi antagonisti meridionali uniti dall’obiettivo di turbare l’esecuzione delle funzioni del governo italiano, sovvertire violentemente l’ordinamento economico costituito nel nostro Stato, sopprimere la globalizzazione dei mercati economici, alterare l’ordinamento del mercato del lavoro. Attentando in sostanza agli organi costituzionali la «Rete meridionale del Sud Ribelle» sarebbe dovuta progressivamente diventare una vasta associazione sovversiva senza preclusioni all’uso della violenza. I componenti del gruppo, controllati per mesi da ROS e Digos, avrebbero partecipato alle manifestazioni di Genova (nel luglio 2001) prendendo parte agli scontri con le forze dell’ordine e alle devastazioni. La supposta associazione avrebbe inoltre organizzato, il 2 luglio del 2001, l’invasione delle agenzie di lavoro interinale di Taranto, Cosenza e Napoli. Il gruppo, infatti, secondo la ricostruzione avrebbe operato attraverso tre diverse «cellule» attive in Calabria, Puglia e Campania. Le intercettazioni telefoniche e ambientali, i pedinamenti, i controlli di alcuni siti internet avrebbero consentito di accertare l’esistenza di una vasta rete di contestatori che si stava preparando a scendere in piazza in occasione del vertice internazionale fissato a Napoli dal 15 al 17 marzo 2001 a cui prendevano parte i primi ministri delle nazioni più industrializzate e le delegazioni di 122 Paesi. Gli attivisti dell’associazione – a parere del PM Fiordalisi – parteciparono alle manifestazioni e agli scontri, ripetendo nel luglio successivo l’exploit anche a Genova. La vastità dell’operazione, lo sproporzionato numero di reparti dispiegati per l’occasione e le caratteristiche dei penitenziari in cui applicare le ordinanze di custodia cautelare fanno pensare da subito che i diciotto arresti e le cinque notifiche di misure domiciliari avvenuti fra il 15 ed il 16 Novembre 2002 non siano il «solito» abbaglio giudiziario camuffato da operazione antiterroristica ma, piuttosto, una precisa rappresaglia nei confronti di un intero movimento.
Qualche giorno dopo, a Roma, presso un centro sociale a Portonaccio, si tenne un’assemblea del «Social Forum» nazionale per decidere che fare. Affollatissima assemblea, in un cerchio grande dov’era difficile sentirsi da una punta all’altra.
Erano gli anni in cui le assemblee nazionali si tenevano con frequenza maniacale. Fra Napoli e Genova, ogni quindici giorni e poi ogni settimana. Genova Social Forum, prima, e poi rete dei Social Forum territoriali. D’altronde il metodo della rete o dei network funzionava bene, era una forma organizzativa reale: una sorta di soviet. E che Lenin non se la prenda a male. La rete era orizzontale, acefala e radicalmente democratica; raccoglieva molteplici anime e sensibilità politiche; vale a dire, non solo le aree affini, come ad esempio l’arcipelago nelle sue svariate declinazioni dei centri sociali; bensì, i social forum territoriali erano l’assemblaggio di associazioni, centri sociali, sindacati di base e quelli istituzionali, circoli e sezioni di partito, gruppi parrocchiali, ecc. ecc. Ne restituisce il funzionamento la metafora del «rizoma», di Gilles Deleuze e Felix Guattari: «il rizoma collega un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi, e ciascuno dei suoi tratti non rimanda necessariamente a tratti dello stesso genere […] Rispetto ai sistemi centrici (anche policentrici), a comunicazione gerarchica e collegamenti prestabiliti, il rizoma è un sistema acentrico, non gerarchico e non significante». Ed era così: i nodi, le organizzazioni, non centralizzavano, ma raccoglievano linfa dall’essere in rete. In altri termini, la tattica e la strategia, la seconda era affidata al movimento, mentre la tattica (solo la tattica!) alla rete.
Nell’assemblea romana, in quel cerchio enorme, si decise immediatamente di programmare una manifestazione nazionale. Ricordo che molti spingevano per tenerla a Napoli. Ma a un certo punto chiese la parola l’indimenticabile Carlo Cuccomarino, con tono coinvolgente e le vocali aperte, dell’inconfondibile accento cosentino, propose con fermezza che il corteo e l’assemblea nazionale si tenessero a Cosenza, a stretto giro occorreva dare una risposta alla controparte. Due erano gli obiettivi: l’immediata liberazione delle compagne e dei compagni e dire a chiare lettere: se loro sono i sovversivi, allora, siamo tutti sovversivi!
Se la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi e la politica è fatta di numeri, gli arresti erano una dichiarazione di guerra e la nostra risposta doveva essere data con la forza dei numeri. La manifestazione di Cosenza doveva essere quanto più larga, aperta e partecipata possibile. Non è che ci demmo questo come obiettivo, ma stava nelle cose.
Passarono due giorni, giusto il tempo di riassestarci con un’assemblea veloce dell’attivo di Ska e Officina99, e partii insieme a Luca per Cosenza. Andava predisposta la macchina organizzativa in vista della manifestazione. Il corteo del 23 novembre 2002 e l’assemblea del giorno prima presso l’auditorium dell’ateneo di Arcavacata di Rende sono un pezzo indimenticabile di storia della città cosentina e di questo paese. 100 mila persone provenienti da ogni parte d’Italia, con in testa al corteo un grande striscione con su scritto «Liberi tutti», ostentarono la potenza del movimento dei movimenti, e lo sputarono in faccia al potere costituito ormai precipitato in un teorema giudiziario dai contorni demenziali e labirintici. Che, però, nella sua demenzialità ha costretto la potenza dei noglobal nel vicolo della difesa legale. E quando ci si imbatte in quel vicolo cieco è impossibile uscirne. Cosenza è stata l’ultima volta. L’ultima volta del movimento noglobal e del Sud Ribelle.
Il 24 aprile 2008 l’assoluzione di primo grado a Cosenza. 20 luglio 2010 l’assoluzione nel processo d’appello a Catanzaro. 21 giugno 2012 l’assoluzione nella sentenza di Cassazione a Roma. Quasi dieci anni passati ad assistere a uno «spettacolo di teatro» delle giornate di Napoli e Genova 2001 in cui il finale era già conosciuto da tutti. 20 i compagni arrestati il 15 novembre del 2002. 17 i giorni di carcere nelle carceri speciali di Trani, Latina e Viterbo. 359 le pagine dell’ordinanza presentata dal PM Domenico Fiordalisi. Oltre 50.000 pagine di materiale cartaceo raccolto nei due anni d’indagine (2000-2002). 13 i compagni rinviati a giudizio. 3506 i giorni per i tre gradi di giudizio. (Fonte: Supporto Legale)
Ariano Irpino, 8 Novembre 2023
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Francesco Antonio Festa storico di formazione, ha pubblicato numerosi articoli sulla storia del Sud Italia, sui movimenti sociali e sui dispositivi di razzializzazione. Insieme ad Antonio Bove ha curato la trilogia de Gli autonomi (DeriveApprodi 2022), dedicata all’Autonomia operaia meridionale.
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