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Quali servizi di salute mentale?


Quali servizi di salute mentale?
Il cavallo blu ribattezzato «Marco Cavallo» costruito in cartapesta dai pazienti di Franco Basaglia, Ospedale psichiatrico di Trieste, Febbraio 1973

L’autrice, Flaminia Ricci (24 anni, romana) propone alla rivista «Machina» un estratto della sua tesi di laurea magistrale (Scienze Filosofiche, UniBo, sotto la supervisione del Prof. Paolo Savoia) che approfondisce l’epistemologia medica in ambito psichiatrico. L’articolo delinea le coordinate dell’attuale approccio dei servizi di salute mentale attraverso le parole di quattro testimoni privilegiati intervistati: Benedetta Altavilla, Edgardo Reali, Riccardo Ierna e Stefano D’Offizi, psichiatri e psicoterapeuti. Attraverso le loro voci, l’autrice restituisce lo stato dell’arte della cura della salute mentale del nostro paese, offrendo, allo stesso tempo, una possibile «linea di fuga» rispetto ad una situazione oramai drammatica e insostenibile.


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Il 25 febbraio 1973 un centinaio di ricoverati dietro ad un cavallo blu fatto di legno e cartapesta sfilano orgogliosamente, sventolando bandiere colorate e suonando strumenti musicali. Il manicomio di Trieste viene finalmente aperto: le persone escono per mostrare all’intera cittadinanza il loro lavoro artistico. Questo grande cavallo, finalmente, come del resto gli internati, viene liberato. Quel muro così ingombrante, che separava i normali dai matti, destituendo gli ultimi dai diritti propri di cittadini, viene finalmente abbattuto tramite un gesto dalla portata straordinaria.

Torino, 1889. In via Carlo Alberto abita Friedrich Nietzsche e in quel luogo, si narra, la vita del filosofo cambiò per sempre. È mattina e Nietzsche si sta dirigendo verso il centro della città quando improvvisamente vede un cocchiere colpire forte il suo cavallo perché restio ad avanzare. È in quel momento che, inorridito dalla percezione del dolore dell’animale, il filosofo si avvicina al cavallo compiendo quel gesto che tutti noi associamo all’irrompere della sua follia: un abbraccio che lascia immediatamente spazio alle lacrime. La polizia viene informata circa l’accaduto e il filosofo viene prima arrestato per disturbo dell’ordine pubblico e, successivamente, portato nell’ospedale psichiatrico Nervenklinik di Jena.

In entrambe queste storie il cavallo incarna condizioni esistenziali molto lontane, opposte diremmo, che, tuttavia, sembrano convivere nella storia degli internati, come coesistono, ieri ma anche oggi, in tutte le storie delle vittime delle disuguaglianze di classe e delle oppressioni sociali: l’animale personifica, al contempo, il dolore di un’esistenza vessata e la liberazione che segue, inevitabilmente, quando le si riconosce la sua propria dignità.

Che sia una leggenda o meno (e proprio perché le storie che vengono costruite in una determinata epoca sono eloquenti, alla stregua di fatti realmente accaduti) è interessante notare come la follia del filosofo tedesco sia messa in correlazione con un gesto profondamente umano; anzi, addirittura la commozione di Nietzsche suscitò un problema di ordine pubblico, al punto da dover allontanare l’elemento disturbante attraverso un dispositivo di reclusione. È proprio l’idea di ordine pubblico che la manifestazione colorata del 25 febbraio 1973 vuole riconcettualizzare: non più uno spazio segmentato, asfittico ed “eterotopico” ma uno spazio, in questo caso urbano, integrato, pronto ad accogliere l’incontro di universi differenti. Fu attorno a Marco Cavallo, un manufatto artistico, che si ebbe una visibile ridefinizione dei ruoli.


Sono l* interlocutor* delle interviste, Stefano D’Offizi, Edgardo Reali, Benedetta Altavilla e Riccardo Ierna, a ribadire come il lavoro di oggi debba comprendere quell’impegno del movimento basagliano, come di tutti coloro che si impegnarono negli anni della rivoluzione psichiatrica, rivolto tanto al malato mentale, nell’ottica di una sua riabilitazione come soggetto umano portatore di diritti, quanto ai cittadini “normali”, i quali erano stati severamente educati a percepire l’alterità e tutto ciò che è estraneo da sé come elemento pericoloso, così da coltivare nel proprio mondo interiore quel meccanismo di violenza segregativa visibilmente messo in atto nella struttura sociale.


Per un recupero dei diritti sociali

Responsabilizzare la cittadinanza attraverso iniziative dal basso; stringere alleanze tra psichiatria e tessuto cittadino; permettere alle persone di uscire dal circuito psichiatrico per reintegrarsi all’interno della società; sono alcuni dei punti di cui abbiamo discusso in queste interviste. A tal proposito, Riccardo Ierna, psicoterapeuta che attualmente lavora nel centro diurno sperimentale per la salute mentale di comunità «Marco Cavallo» di Latiano in Puglia, parla di una cittadinanza decolonizzata dagli psichiatri mettendo in luce una delle contraddizioni possibili che anche un sistema apparentemente avanzato come quello riabilitativo può comportare: «[...] Ma cosa significa riappropriarsi dei diritti di cittadinanza? [...] Negli ultimi anni si è puntato molto sulla partecipazione degli utenti all’interno del servizio psichiatrico riabilitativo. Il che si è tradotto nel permettere alle persone, in quanto soggetti e soggette psichiatrizzate, di esprimersi in diversi contesti pubblici e assembleari. Tuttavia, quella che viene considerata una “esigibilità diretta” resta costretta all’interno di un settore molto specifico. Il punto, invece, è che la questione riguarda tutti e s’interseca con una serie di problemi molto più ampi rispetto all’area specifica e settoriale della persona, connessi alla sfera dei diritti sociali: per esempio, l’area del lavoro, della produttività e della non produttività. Mentre il discorso della partecipazione degli utenti è interiorizzato e messo in atto da parte di tutti i dipartimenti di salute mentale, se si va a vedere l’impatto della loro voce nelle decisioni prese sui loro percorsi, sulle loro situazioni di vita, si nota l’enorme scarto che sussiste tra il grado di partecipazione che dovrebbero avere e invece quello che effettivamente hanno. Dunque, a mio avviso, il problema di oggi è cercare di capire come recuperare questo livello di partecipazione. Ho cercato di indicare una strada percorribile, sicuramente impervia, che vada in questa direzione, la quale riguarda tutte quelle forme di auto determinazione che a livello sociale

la cittadinanza mette in atto quando si trova di fronte ad una serie di problemi che possono concernere, per esempio, la convivenza in uno spazio o la vivibilità di una città. Quando sono arrivato in Puglia nel 2017, una delle prime cose che ho fatto è stata quella di cercare delle iniziative esterne legate a gruppi che, in un determinato territorio, promuovevano aggregazione sociale in modo da spingere le persone che venivano al centro a usufruire di queste situazioni nella speranza che, ad un certo punto, potessero cogliere queste opportunità lavorative e aggregative e che questo consentisse la loro uscita dal circuito psichiatrico».


L’eredità di Gorizia

Anche Stefano D’Offizi, psichiatra che lavora nel centro di salute mentale di Gorizia, riflette sul ricorso massiccio alla delega nei confronti degli specialisti, i quali, oberati dal lavoro che caratterizza i centri di salute mentale (sono sempre meno supportati nel concreto dalla politica), incorrono in semplificazioni grossolane a spese dei loro pazienti (come gesti di violenza e iperfarmacologizzazione), o, in senso contrario, come attesta la sua stessa esperienza, si vedono costretti a contare sulla «buona volontà del singolo» e chiudere l’anno con 200 ore di straordinario. Nel CSM di Gorizia, luogo emblematico nel quale in parte resistono le pratiche basagliane, ci racconta Stefano che «le dimensioni di piccolo centro aiutano affinché si rispettino alcuni principi fondamentali della cura quali la continuità, la relazione, l’accessibilità: la persona in cura è seguita in tutte le sue fasi, anche una volta uscita dal programma di riabilitazione, e il centro di salute mentale si impegna a stringere alleanze con familiari e amici così da poter pensare insieme un progetto».

Ma perché – ci siamo chiesti – quando si parla di pratiche basagliane Gorizia resta un’eccezione nel panorama psichiatrico italiano? Stefano riconduce questa mancanza alla più generale crisi che la psichiatria attualmente sta attraversando: «Sicuramente, parte delle responsabilità sono attribuibili alla politica ma in buona parte è stata anche l’ingenuità dei capi storici della rivoluzione psichiatrica, i quali non hanno saputo costruire un’eredità umana». Difatti quella preminenza strategica della prassi sulla teoria voluta all’epoca da Basaglia e dal movimento antistituzionale in genere, pensata per scongiurare la degenerazione della teoria in ideologia, ha impedito – concordano gli intervistati – una teorizzazione e, dunque, una possibile trasmissione di quelle pratiche rivoluzionarie che ebbero successo in determinati contesti italiani. Restano in pochi eredi ad aver visto e appreso il senso di quelle pratiche sul campo. Ancora Stefano: «siamo in difficoltà; io e altri quattro della mia generazione siamo gli ultimi interpreti di questo modello in cui crediamo fortemente. C’è un problema di trasmissibilità. [...] La situazione che viviamo è attribuibile alla politica ma anche a chi ha fatto la rivoluzione: non sono stati in grado di valorizzare i loro sottoposti. A Trieste c’è sempre stata la trasmissione orale, che era un punto fisso di Rotelli: l’idea di non teorizzare perché nel momento in cui lo fai rischi di perdere di vista l’essere umano. Quello che si è fatto qui da quaranta anni è stato trasmettere il senso delle pratiche senza il bisogno di dover teorizzare. L’unica cosa che si è teorizzata è la struttura organizzativa del Centro di Salute Mentale 24h. Oggi ritengo sia stato un errore: la comunità scientifica, che misura il valore a seconda delle pubblicazioni, non riconosce il valore di questo modello, e se non sei scientifico, sei retrivo. Tutto nacque da una scelta molto seria e umana ma, oggi, del tutto anacronistica. Io pubblico su riviste sociologiche e non prettamente scientifiche e questo produce un vuoto nella comunità scientifica psichiatrica».

Anche la non contaminazione con l’universo accademico fu una decisione consapevole, in larga parte anche obbligata, assunta dal movimento negli anni Settanta e Ottanta che oggi, però, sembra riversarsi sulla formazione inadeguata che ricevono operatori e operatrici: quelli universitari sono insegnamenti estremamente tecnici ma lontani – concordano gli intervistati – da quello con cui si andranno a confrontare i nuovi e le nuove psichiatre. Edgardo Reali, psicoterapeuta specializzato in riabilitazione psichiatrica, si trova d’accordo con gli altri nel rilevare come nodo problematico della formazione universitaria l’assenza di un orizzonte politico entro il quale esercitare il mestiere: «serve, citando Franco Rotelli, un’idea di riabilitazione strettamente connessa ai diritti di cittadinanza affinché si possa ridare al paziente dignità e identità, offrirle possibilità laddove, nel momento della richiesta d’aiuto, ci sono solo ostacoli e disperazione».


La necessità di un’alleanza dinanzi alla frammentazione dei saperi

D’altronde oggi sembra non essere semplice occuparsi di teoria in un mondo dove anche la ricerca in ambito medico riflette l’ipercompetività del nostro sistema neoliberista. Su questo si pronuncia Edgardo: «la cosa che soffro di più nel mio mestiere è la frammentarietà e la non integrazione tra discipline e saperi. Il fatto che la frammentazione dei saperi e delle discipline non si ricompongano in dialoghi interdisciplinari e costruttivi in cui tanti elementi darebbero un quadro chiaro. Pensiamo alla fenomenologia che nasce in contrasto al positivismo e cento anni

dopo nasce la neuro fenomenologia che inquadra i neuroni a specchio, che ti fa vedere come la nostra mente non è chiusa nel cervello ma è un processo che si instaura nella relazione tra cervello e altri cervelli, tra cervello e mondi, cervello e corpo e, dunque, dimostra come noi saremmo in una costante relazione decentrata. Noi risentiamo del riflesso di scontri acerrimi appartenenti ad altri decenni, come quello tra le teorizzazioni delle psicoterapie e la riflessione sull’organizzazione territoriale dei servizi pubblici, che un tempo avevano molto senso ma se adesso li ereditiamo senza ricontestualizzarli, senza aprirci alle nuove circostanze, secondo me, è un limite pazzesco. La frammentazione in diverse scuole, chiese, sette, sistemi non comunicanti di pensiero, riflette più il contrasto tra ego e le storie personali delle persone che sono state protagoniste della difficile stagione dell’implementazione della legge 180 piuttosto che la possibilità effettiva di comunicazione dei contenuti della ricerca. C’è la necessità di stringere alleanze. Anche negli ambienti di sinistra, più progressisti, ci sono delle gerarchie che rispecchiano il nostro mondo iper-competitivo».

In questo quadro non è da sottovalutare l’approccio e il protagonismo dei pazienti, caratterizzato da forti ambivalenze. I pazienti – afferma Edgardo – insieme ai clinici, nel libero mercato della cura, si scelgono reciprocamente perchè condividono la stessa visione: «[...] il paradigma con cui abbiamo spesso a che fare è quello dei consumatori: i pazienti si percepiscono come consumatori e riportano la stessa logica di domanda-offerta del mercato al clinico. Una larga fascia di popolazione sta intraprendendo un’alleanza con la chimica in un’ottica iperfarmacologica. Ormai, si parla di cosmesi farmacologica: ci sono persone che prendono farmaci per performare di più. A volte, mi capita di discutere con pazienti che hanno questo approccio».


Il rapporto medico-paziente nell’epoca neoliberista

Il mondo della psichiatria sembra essere largamente caratterizzato da un’alleanza in ottica iperfarmacologica tra clienti richiedenti farmaci e tecnici ben volenterosi di eliminare in fretta il sintomo. Ma – ci siamo chiesti – a quale ruolo dovrebbe orientarsi «il tecnico» di fronte a questo tipo di domande? Su questo risponde Stefano: «per me il tecnico deve essere solo un traduttore dal linguaggio del folle al linguaggio del razionale: il suo compito è far comprendere al folle ciò che la ragione chiede e spiegare ai razionali che esiste la follia e che questa, seppure ha un senso privato, ha un senso. Nel momento in cui metti in fila i pezzi, quei discorsi sconclusionati

iniziano ad avere un valore molto profondo. Il dramma, per assurdo, è chi non delira, le cosidette «psicosi povere»: le vite più difficili. Il sintomo è un campanello d’allarme, può essere d’aiuto. Mentre se tu non sviluppi i sintomi significativi, rimani nella sofferenza pura e nell’ombra. Il sanitario distratto non coglie la drammaticità di queste vite che non producono sintomi».

A questo discorso è legato il valore della protesta che, se nei repartini psichiatrici è spesso vista come una forma di resistenza su cui lavorare per ammorbidirla fino, possibilmente, ad annientarla, per Stefano è una qualità da preservare: «[...]quando qualcuno in manicomio si arrabbiava e per questo veniva punito, questo non voleva dire altro che era ancora un pezzo d’esistenza vera, un ultimo frammento di umanità che l’istituzione zittiva, umiliava, azzerava. Oggi sta succedendo la stessa cosa. In un mondo individualista, frammentato, in cui tutti siamo separati, in cui non esiste né comunità né movimenti collettivi, chiunque protesterà verrà passato per pazzo. Come ti permetti di protestare? Chi ti credi di essere per farlo? Sei pazzo se non capisci che la tua protesta è fuori luogo. Quindi se tu non hai un lavoro e sali su una gru, ti mandano da uno psichiatra. Non è che pensano che tu sia disperato e trovano un modo per aiutarti. La psichiatria qui presta il fianco all’individualismo della nostra società per impedire una protesta collettiva. Sono decenni che non se ne verifica una con impatti significativi. Non ci si riesce a incontrare per discutere sui diritti. Per me la rabbia e l’aggressività, anche se fanno paura, sono strumenti fondamentali che, se vuoi, puoi travisare ma se hai pazienza riesci a indirizzare per cambiare le cose. Te lo dico venendo dall’esperienza carceraria perché lì c’è molta aggressività e le persone vengono punite con i farmaci. Quando la società mette in atto queste risposte, mi sembra di essere in un’unica istituzione totale dove nessuno è più libero di fare nulla se non di nascosto o in modo illegale. Nel nostro servizio ce lo diciamo spesso: il nostro lavoro sta nel fare delle cose amministrativamente e giuridicamente rischiose necessarie per non ricadere in paradigmi finalizzati al silenziamento della realtà con le sue contraddizioni, paradigmi che conosciamo bene perché sono quelli con cui ci formano».

Compagna stretta della protesta è la sessualità, ancora fortemente stigmatizzata all’interno dei servizi psichiatrici. Stefano D’Offizi ci racconta delle difficoltà iniziali incontrate nel momento in cui ha pensato un progetto atto a promuovere il dialogo sulla sessualità nei servizi. Finanziato dai fondi regionali, e ottenuto un certo successo, la regione ha deciso di dargli il doppio dei fondi affinché aprisse il progetto anche alla cittadinanza, cosa che gli ha permesso di fare una

formazione interna sulla sessualità nel rapporto con la sofferenza e una formazione aperta al pubblico: «[...] la sessualità, secondo me, è il tema giusto per far scoppiare tutte le contraddizioni perché è quella cosa che nessuno vuole vedere: anche il medico più illuminato fa molta fatica a parlarne. Ci si focalizza sulle conseguenze di un rapporto che potrebbe sussistere tra due persone con disturbo psicotico e per niente sull’atto in sé che rappresenta puro desiderio, puro piacere, pura terapia».


La psichiatria, un mestiere politico

Anche Benedetta Altavilla, psichiatra che lavora nel centro di salute mentale di Casalecchio di Reno (BO), ammette di avere delle difficoltà notevoli nella gestione delle pressioni che i CSM ricevono dalle istituzioni: «ci sono delle pressioni esplicite da parte delle istituzioni e delle forze dell’ordine nella delega del controllo sociale alla psichiatria. Noi riceviamo moltissime e-mail dal comune, dall’assessore come dai carabinieri che ti chiedono informazioni su quei casi che, in genere, disturbano “l’ordine pubblico”. Ci invitano alla “collaborazione tra servizi” che il più delle volte si traduce nell’invitarti caldamente a effettuare dei ricoveri laddove i problemi spesso sono di un altro ordine. Questo sicuramente condiziona il nostro operato da psichiatre. La sensazione è che la società ti chiami a mantenere queste persone fuori, a non reintegrale nel tessuto sociale come, invece, i presupposti della riabilitazione psichiatrica dovrebbero prevedere. [...] I sistemi come il CSM dovrebbero avere la funzione di auto esaurirsi, il che lo trovo molto emancipativo per i pazienti; invece, spesso le persone si trovano a divenire dipendenti da questi servizi, i quali si offrono nella loro veste custodialistica. Per me ciò rappresenta un motivo di grande disagio. Mi sono interrogata privatamente, nel mio percorso di psicoterapia, su questo legame che la psichiatria intrattiene con il potere. Se è ingenuo pensare che non via sia questo tipo di legame o che non ci dovrebbe essere, ritengo che lo spirito con il quale ti approcci al potere faccia la differenza: un conto se questo potere te lo vuoi tenere in mano, diverso è se non vedi l’ora di liberartene e di riconsegnarlo nelle mani di questa persona».

Il rapporto di compromissione che la psichiatria intrattiene con il potere fu ben tematizzato da Basaglia: se, in parte, lo riteneva inevitabile, al tempo stesso provò a delinearne un suo possibile antidoto: rendere consapevole la persona dell’alienazione in cui vive e renderla autonoma nel riconoscimento dei suoi bisogni. Sembra essere difficile, come sospettano l* intervistat*, che la psichiatria attivi dall’interno questo processo emancipativo, mentre risulta plausibile che, facendo capo a terzi e stipulando delle alleanze tra servizi e cittadinanza, movimenti e corpi professionali, anche pubblico e privato si possa imboccare una nuova strada. In apertura a questo articolo abbiamo ribadito attraverso l’immagine di Marco Cavallo come il problema psichiatrico sia un problema che riguarda da vicino tutta la collettività: aprirsi alla possibilità di una coproduzione dei saperi, pensando ad una complicità tra popolazione e tecnici, sembra una prospettiva promettente, in quanto permetterebbe alle persone psichiatrizzate di riscattarsi, rispetto a un sapere che le ha storicamente considerate solo oggetti d’indagine e, aspetto non meno importante, alla totalità della comunità di recuperare una coscienza politica rispetto ai determinanti della salute mentale (che hanno sempre a che vedere con le oppressioni iscritte nel nostro tessuto sociale). A tal proposito, in conclusione, ritengo importante questa dichiarazione di Riccardo Ierna: «credo che la riforma più importante sarà una riforma della cittadinanza intesa come possibilità delle persone di riprendersi uno spazio pubblico e dialettico con le istituzioni, con gli amministratori e con gli operatori. Il territorio, inteso come area di attivazione della cittadinanza, deve contaminare il servizio perché il servizio non ha più la forza per farlo. I manicomi sono implosi perché la popolazione è stata fatta entrare dall’esterno: sono confluite nell’ospedale psichiatrico una serie di soggettività, tra cui volontari, cittadini, e artisti, i quali apportavano nuovi saperi all’istituzione. Deve potersi ricreare una situazione simile a partire, però, da una consapevolezza nuova della popolazione che è quella di riappropriarsi della gestione dei problemi di salute».


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Flaminia Ricci, romana, 24 anni, laureata in scienze filosofiche presso l’Università di Bologna con una tesi in storia sociale della scienza volta ad approfondire l'epistemologia medica in ambito psichiatrico, con Paolo Savoia come relatore, ci propone un estratto della sua tesi in cui delinea le coordinate dell’attuale approccio dei servizi di salute mentale attraverso le parole di quattro testimoni privilegiati intervistati: Benedetta Altavilla, Edgardo Reali, Riccardo Ierna e Stefano D’Offizi.

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