Intervista a Giuseppe Campesi a partire da Che cos’è la polizia? Una introduzione critica (DeriveApprodi, 2024)
Ho avuto modo di porre a Giuseppe alcune questioni sul suo volume Che cos’è la polizia? in occasione di una presentazione a Bologna. L’opportunità di questa breve intervista mi ha permesso di ritrovarlo per approfondire alcuni punti rimasti in sospeso dopo quel primo incontro. Il testo si presenta come un’agevole introduzione critica allo studio della polizia nelle sue declinazioni istituzionali, culturali e politiche. Senza alcuna pretesa d’esaustività, l'intervista a Giuseppe è utile a presentare il suo lavoro, valorizzando la meticolosa attenzione alla contemporaneità che emerge da quelle pagine. (R.L.)
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Riccardo Lazzara: Uno degli elementi che più colpiscono del tuo lavoro è il taglio critico attraverso cui la polizia è messa in relazione alle strutture istituzionali che ne fanno da cornice. Il delicato rapporto che sussiste tra forze dell’ordine, democrazia e diritti è spesso al centro del dibattito pubblico. Poche volte però se ne parla col rigore che è possibile riscontrare nella tua analisi. Il quarto capitolo del volume s’intitola «Polizia, democrazia, diritti» e mette a tema i rapporti e le potenziali contraddizioni che emergono dall’intersecarsi di questi piani. Ti chiedo: cosa possiamo intendere per «polizia democratica» e perché questa locuzione oggi rischia di risultare così problematica?
Giuseppe Campesi: Partirei da una definizione generale del termine «polizia democratica». Noi tendiamo oggi ad associare questo concetto al movimento per la democratizzazione e la smilitarizzazione della Polizia di Stato, conclusosi nel 1981 con una riforma che sotto molti profili giunge a chiudere un ciclo storico di lotte che hanno trasformato lo Stato italiano lungo l’intero corso degli anni ’70. Tra i risultati di questo processo vanno sicuramente ricordati la riforma dell’ordinamento penitenziario, la legge Basaglia, lo statuto dei lavoratori e la legge sull’aborto. Quando in Italia parliamo di polizia democratica siamo dunque portati ad accostare questo concetto all’idea che i corpi di polizia siano smilitarizzati e che abbiano il diritto di riunirsi in associazioni sindacali rappresentative della categoria (elemento quest’ultimo che connota in senso stretto quell’importante riforma).
Esiste tuttavia un inquadramento più ampio della questione, riguardante l’assetto complessivo dei poteri di polizia e il rapporto tra il loro esercizio e il potere politico. Per polizia democratica potremmo dunque intendere l’idea di una polizia che esercita i poteri che le sono conferiti in maniera imparziale e libera da condizionamenti politici. Una polizia la cui capacità d’impattare sulle libertà individuali dei cittadini – e non solo di essi – è strettamente regolata e disciplinata dalla legge: nel caso del nostro ordinamento dal Titolo I della Costituzione e dalla legislazione ordinaria che ne consegue e che dà attuazione a quelle norme poste a tutela dei diritti fondamentali dei cittadini. Da un lato abbiamo dunque l’idea di una polizia che nell’esercizio delle sue prerogative rispetta i diritti fondamentali, dall’altro quella di una polizia che nello svolgimento delle sue funzioni sia imparziale e non condizionata dagli indirizzi politici di governo. Ora, qui bisogna intendersi: i governi hanno il diritto di dare un indirizzo politico amministrativo all’azione di mantenimento dell’ordine, cioè di definire delle priorità, però non possono condizionare l’esercizio imparziale delle funzioni di polizia, soprattutto là dove queste toccano le libertà individuali delle persone.
Abbiamo due questioni fondamentali: il tema della regolazione giuridica dei poteri di polizia, ossia il quadro di garanzie che circonda l’esercizio di tali poteri; e il problema del rapporto tra politica e gestione concreta delle forze di polizia, cioè la necessità di mantenere un certo grado di separazione tra l’attività politica e le decisioni tecniche che rientrano nell’area della discrezionalità operativa di tali forze. In altre parole, l’esecutivo che rappresenta l’indirizzo politico del governo non dovrebbe ingerirsi nell’assunzione di decisioni riferite a come e quando utilizzare certi poteri: esso dovrebbe lasciare la questione alla competenza tecnica degli operatoti di polizia. Questo a grandi linee quello che noi intendiamo per «polizia democratica». Naturalmente è chiaro che un modello di questo tipo rimane essenzialmente ideale: probabilmente in nessuna delle democrazie industriali avanzate abbiamo visto una piena realizzazione di questo modello.
R.L.: Negli ultimi anni venticinque anni, a cominciare almeno dal global war on terrorism per giungere in tempi recentissimi alla «guerra» condotta contro la pandemia da Covid-19, abbiamo assistito a un processo di contaminazione fra spazi nazionali e sovranazionali, pubblici e privati, fisici e digitali. Le forze di polizia hanno riflesso questa trasformazione, facendosi spesso vettori di comunicazione e condivisione di modelli a livello internazionale. In che modo gli Stati hanno tradizionalmente utilizzato le forze di polizia sullo scacchiere globale e quali trasformazioni possiamo scorgere oggi in questa forma di comunicazione transnazionale?
GC: Le forze di polizia dei principali paesi occidentali hanno sempre cercato un modo di proiettare verso l’esterno la loro capacità di controllo della popolazione e di gestione dei rischi. Questa proiezione può essere svolta in diversi modi: in primo luogo possiamo indicare il piano della cooperazione internazionale, in relazione al quale fa scuola il caso di Interpol, un’agenzia di raccordo tra le varie forze di polizia nata per la condivisione di informazioni e la cooperazione per l’arresto e l’estradizione dei ricercati. Queste forme di collaborazione sono parecchio collaudate e nascono con la repressione dei movimenti anarchici e socialisti già alla fine dell’Ottocento. Abbiamo poi un’altra questione, legata alla capacità che alcune potenze hanno di proiettare la propria influenza verso l’esterno, sui territori annessi al loro dominio coloniale o sui paesi che subiscono la loro egemonia. Esempio recente di un’esperienza di questo tipo è il ruolo che gli Stati Uniti hanno avuto nel supporto e nella formazione delle forze di sicurezza di molti paesi Centroamericani e Latinoamericani nel quadro della lotta al crimine organizzato e al traffico internazionale di sostanze stupefacenti. Oltre a fornire supporto tecnico e a formare le forze di sicurezza in molti di quei paesi, gli Stati Uniti ne hanno anche influenzato gli indirizzi politici e amministrativi, condizionando riforme e modelli istituzionali. Molti paesi sono in grado di esercitare un’influenza di questo tipo a maggiore o minore scala: per non andare troppo lontano, pensiamo al ruolo che l’Italia ha avuto nei confronti delle forze di sicurezza albanesi nel contrasto al contrabbando e alle immigrazioni irregolari. Dalla fine degli anni ’90 a oggi il nostro paese ha collaborato, finanziato e formato le forze di sicurezza albanesi.
Fin qui siamo però rimasti su un piano in un certo senso tradizionale di relazioni internazionali: o collaborazione o influenza e condizionamento su paesi assoggettati alla propria egemonia. Quello che invece emerge al livello dell’Unione Europea è un modello completamente nuovo di polizia transazionale. In particolare con la nascita e lo sviluppo di Europol e Frontex, due agenzie volte rispettivamente a combattere il crimine di natura internazionale e a gestire le operazioni di frontiera, assistiamo alla cessione di prerogative esecutive da parte degli Stati membri dell’Unione e alla conseguente acquisizione di un certo grado di autonomia operativa da parte di queste organizzazioni. Le agenzie in questione possono fare affidamento su molte risorse e infrastrutture, godendo per giunta di una certa libertà nell’esercizio di forme coercitive che spesso incidono sulle libertà individuali delle persone coinvolte. In questi casi non è più l’autorità di uno Stato ad adottare i provvedimenti ma comincia ad essere un’agenzia sovranazionale: qui torna sotto una nuova luce il discorso fatto prima sul rapporto tra polizia, democrazia e diritti. Il controllo dell’esercizio dei poteri di polizia diventa estremamente urgente e questi sviluppi pongono degli interrogativi completamente diversi che nel caso di Frontex sono particolarmente evidenti: è spesso balzata all’onore delle cronache la questione della responsabilità di questa agenzia per episodi di violazioni anche molto gravi commesse ai danni d’immigrati richiedenti asilo alle frontiere europee.
RL: Nel volume emerge già dalle prime pagine quello che potremmo chiamare il potere definitorio dei corpi di polizia, associato nei moderni Stati democratici al dispositivo giuridico della cittadinanza. La polizia traccia delle linee di demarcazione, è essa stessa «una “sottile linea blu” (the thin blue line) tracciata per proteggere i cittadini rispettabili dal disordine e dalla criminalità»[1]. Da questo punto di vista essa incarna un’ambiguità costitutiva del moderno Stato di diritto: il rapporto tra legge e coercizione. È in riferimento a questo problema che la linea di demarcazione rappresentata dalla polizia si manifesta come «il bordo tagliente del governo», il punto in cui «il diritto si trasforma nella concreta esperienza fisica dell’essere governati»[2]. La dialettica tra cittadino che esercita la propria libertà e suddito che subisce il richiamo all’ordine rimane aperta nelle nostre democrazie e la polizia ne rende manifesta la problematicità col suo operato.
GC: Questo è un punto di vista particolarmente interessante attraverso cui analizzare il ruolo della polizia all’interno della società. Nel volume faccio riferimento al lavoro di Waddington, il quale ha sostenuto che in fondo il ruolo della polizia non è altro che quello di presidiare i confini della cittadinanza, di tracciare la linea di separazione che distingue chi è incluso all’interno del consesso sociale e chi ne è escluso. L’escluso, sia esso esterno o interno al paese, è in quanto tale percepito come minaccioso: la sua semplice presenza testimonia le ingiustizie della struttura sociale iniqua e stratificata in cui si vive. Attraverso di lui si manifesta l’esistenza di popolazioni tenute ai margini della cittadinanza ed è questo a essere problematico, dirompente, intrinsecamente sovversivo perché contraddice i valori di uguaglianza e inclusione che caratterizzano le nostre costituzioni. È molto interessante guardare la polizia da questo punto di vista, come quell’istituzione che presidia la linea di confine tra gli inclusi e gli esclusi, ma anche tra le classi pericolose e quelle laboriose alle quali riconosciamo cittadinanza e appartenenza.
Questa attività di presidio del confine tra inclusione ed esclusione emerge facendosi particolarmente violenta quando le fasce di popolazione tenute ai margini della cittadinanza rivendicano attivamente inclusione e partecipazione politica. Qui, quello che mi sembra interessante sottolineare è come l’evoluzione di questo ciclo della violenza nella gestione del conflitto dipenda dalla dialettica politica democratica, non dalle pratiche di polizia in sé. Come in altre parole l’approccio delle forze di polizia sia in questi casi condizionato da quanto si allarga o si restringe l’arco costituzionale: se a un’istanza viene riconosciuta legittimità politica è più difficile per le forze di polizia gestire in modo esplicitamente violento i gruppi che si fanno portatori di quelle domande d’inclusione. La violenza in questo caso viene percepita come una grave compressione dei diritti di partecipazione e quindi di manifestazione del pensiero. Viceversa, se l’arco costituzionale viene ristretto e quindi una certa istanza non trova cittadinanza è molto più facile per le forze di polizia gestire in maniera più violenta quella manifestazione esercitando forme di controllo più intenso. Nella dimensione delle manifestazioni di massa ci sarebbe poi da analizzare anche tutta un’attività di gestione del conflitto che la polizia fa in maniera molto meno visibile attraverso l’attività d’intelligence e il controllo di gruppi sociali considerati pericolosi, dissidenti, da attenzionare.
Ripeto, parlo qui delle condizioni di possibilità delle azioni di polizia. La questione delle responsabilità specifiche rispetto a un episodio di gestione violenta dell’ordine pubblico è tutta da determinare nei casi singoli. Quello che m’interessa sociologicamente nell’analisi delle pratiche di polizia è il prodursi di quelle condizioni che rendono possibile e in un certo senso più facile per gli operatori agire in una certa maniera, favorendo per esempio la percezione che un approccio più muscolare sia politicamente legittimato e tollerato. Poi si possono anche dare situazioni in cui questo atteggiamento sia frutto di una sorta d’indicazione esplicita, ma saremmo in uno scenario in cui la separazione tra sfera politica e attività tecnica di polizia è saltata. Al di là della legittima possibilità che noi abbiamo di dimostrare un esplicito condizionamento politico o la devianza degli agenti in casi specifici, trovo più interessante da un punto di vista scientifico la riflessione sulle condizioni strutturali che facilitano una gestione violenta dei conflitti sociali.
RL: Giuseppe, ti lascio con una domanda provocatoria. Ritieni che lo scenario delineato possa suggerire una crisi del modello tradizionale di gestione dell’ordine pubblico nelle democrazie occidentali?
GC: Senza dubbio, ma questo non sono solo io a dirlo. Ci sono studiosi di queste tematiche che hanno segnalato già da tempo la questione. Potremmo dire che si è chiuso un ciclo lungo di gestione dell’ordine pubblico che aveva visto un progressivo ampliamento dell’arco costituzionale e quindi una graduale inclusione dei movimenti dal basso nella dialettica democratica. La chiusura di questo ciclo si è accompagnata a un indebolimento del quadro di partecipazione delle masse popolari alla vita politica delle democrazie industriali avanzate. È andato in crisi quel quadro istituzionale partitico e sindacale di canalizzazione delle istanze politiche e di costruzione delle soggettività. Tutto quello che è emerso sul piano dei movimenti sociali e delle rivendicazioni d’inclusione – anche di quelle forse meno consapevolmente articolate sul piano del linguaggio politico – fatica oggi a trovare un inquadramento nell’arco costituzionale e viene quindi gestito in maniera tendenzialmente più violenta e conflittuale da parte delle forze di polizia. È un processo di lunga durata che può essere guardato in linea di continuità con episodi di gestione violenta dell’ordine pubblico avvenuti negli ultimi venticinque o trent’anni. Sullo sfondo di questo quadro destrutturato e stratificato possiamo sicuramente dire di vivere una crisi del modello di gestione dell’ordine pubblico.
Note
[1] G. Campesi, Che cos’è la polizia? Una introduzione critica, DeriveApprodi, Bologna 2024, p. 17.
[2] Ivi, p. 9.
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Giuseppe Campesi è professore associato presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Bari «Aldo Moro», dove insegna dirige il Master in Criminologia e Politiche per la Sicurezza. I suoi interessi di ricerca sono spiccatamente interdisciplinari e si concentrano sulla teoria sociale contemporanea, gli studi critici del diritto, le politiche migratorie e per la sicurezza. Tra le sue pubblicazioni recenti:A Genealogy of Public Security. The Theory and History of Modern Police Powers(Routledge, 2016)e Policing Mobility Regimes: Frontex and the Production of the European Borderscape(Routledge, 2022). Per DeriveApprodi ha pubblicato: Polizia della frontiera. Frontex e la produzione dello spazio europeo (2015) e Che cos'è la polizia? Una introduzione critica (2024).
Riccardo Lazzara è ricercatore indipendente. Laureato in Filosofia presso l'Università di Bologna, affianca all'attività di ricerca la militanza politica.
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