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Pilotare il clima planetario: un disegno autoritario





Con questo testo Franco Piperno contesta, con argomentazioni che rimandano a fondamenta scientifiche, le tesi a sostegno dell’allarmismo per un incombente e irreparabile catastrofismo climatico causato principalmente dalle attività umane.


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Per rendersi conto del cambiamento climatico occorre preliminarmente capire cosa significa «clima».

Il clima è un sistema complesso che ha come componenti l’atmosfera, gli oceani, le terre emerse e le regioni coperte dal ghiaccio e dalla neve, regioni chiamate nel loro insieme criosfera.

Ogni componente è caratterizzato da «variabili di stato», e.g. la temperatura atmosferica, la salinità dei mari, l’umidità della terra, lo spessore del mantello di neve e così via.

Il cambiamento climatico interviene quando una perturbazione – detta «forcing» nel gergo tecnico –genera un flusso che altera le variabili di stato.

Più precisamente si definisce mutamento climatico ogni alterazione, che si sviluppi lungo una durata almeno decennale, dei flussi o delle variabili fisiche, chimiche, biologiche caratteristiche del sistema. La scala temporale delle decadi è usata per distinguere i cambiamenti climatici dalle vicende metereologiche che si svolgono a corto termine.

Va da sé che il clima muta continuamente da miliardi di anni; sicché il termine «cambiamento climatico» è in una certa misura ridondante.

Basterà qui ricordare che la temperatura in Egitto all’epoca a della costruzione della piramide di Giza era superiore di ben otto gradi centigradi rispetto a quella attuale; o che i ghiacciai erano scomparsi quando, durante la guerra annibalica, i Cartaginesi e i loro elefanti valicarono agevolmente le Alpi; o ancora che nel basso medioevo, in tutta Europa, si ha un raffreddamento seguito, secoli dopo, all’inizio dell’Ottocento, da un nuovo riscaldamento che è ancora in corso.


I) Il rischio climatico

Al mutamento del clima contribuisce l’attività antropogenica, così come quella degli altri animali e della vita in generale; ma i fattori «forcing» rilevanti sono quelli interni come le correnti oceaniche e quelle atmosferiche; così come quelli esterni, ovvero l’intensità dell’irraggiamento solare, le eruzioni vulcaniche nonché la radiazione che proviene dallo spazio profondo.

Tuttavia nei mezzi d’informazione e nel dibattito politico è ormai entrato nell’uso che con «cambiamento climatico» s’intenda la variazione riconducibile alla sola attività umana.

La discussione pubblica sul cambiamento climatico si è focalizzata su una sola metrica: la temperatura media della superficie terrestre in funzione della quantità di anidride carbonica immessa nell’atmosfera dall’attività umana. Questa restrizione è risultata evidente alla Conferenza parigina sul Clima organizzata dal Comitato Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC) – i negoziati infatti si sono svolti attorno all’aumento globale di un mezzo grado centigrado: 1.5 ºC o 2 ºC, per il 2100.

Ma ridurre le variazioni climatiche al rapporto tra effetto serra, dovuto all’anidride carbonica e aumento della temperatura media della superficie terrestre, comporta una semplificazione che finisce con l’occultare la diversità delle influenze dell’animale uomo sul clima nonché le conseguenze stesse della variabilità naturale sul lungo periodo.

Per la verità, nessuno è in grado d’esperire l’effetto dell’aumento di un mezzo grado centigrado nella temperatura media della Terra entro la fine del secolo.

Come scrive Gordon Bonan del National Center for Atmospheric Research, il mutamento della superficie boschiva di una determinata regione influenza il clima locale in misura più che doppia rispetto all’inquinamento atmosferico provocato dall’anidride carbonica.

Del resto se si esamina, senza preconcetti ideologici, la letteratura sull’argomento emerge, con bella evidenza, come la modificazione nell’uso antropico del terreno o nella sua manutenzione – segnatamente per via dell’espansione e dell’intensificazione dell’attività agricola – abbia avuto un impatto di tutto rilievo su scala locale e regionale, e questo perfino quando il loro effetto medio globale risulti trascurabile o addirittura nullo. Si stima che la superficie terrestre totale coltivata a cereali sia cresciuta, tra il 1700 e il 2000, da 300 a 1530 milioni di ettari; mentre la superficie destinata a pascolo è aumentata in quello stesso lasso di tempo di oltre dieci volte.


II) Oltre l’effetto serra

A differenza della immissione antropica d’anidride carbonica nell’atmosfera che ha un effetto omogeneo su scala globale, i mutamenti dovuti alla coltivazione e alla manutenzione delle terre introducono dei «gradienti spaziali» ovvero delle significative variazioni climatiche da un luogo a un altro.

Questi mutamenti sono per altro i «forcing» che più influenzano i fenomeni metereologici locali e regionali.

Si tratta quindi di assegnare a questi fattori almeno la stessa importanza che fino a ora, nella ricerca, è stata attribuita alla anidride carbonica e più in generale ai gas dell’effetto serra.

In altri termini, si impone una drastica ridefinizione teorica nel modo di identificare i rischi del cambiamento climatico.

Possiamo riassumere quanto siamo venuti argomentando, affermando che la ricerca deve includere tutti i «forcing» e non solo le emissioni dovute alla combustione di carburanti fossili.

Occorre di conseguenza incorporare i rischi che derivano dalla modificazioni antropiche del mantello terrestre, incluso quello provocato dall’uso del suolo sulla metereologia locale.

Bisogna partire dalla ricostruzione dell’ecosistema locale per determinare i rischi che comportano le minacce alle varie risorse, locali o regionali che siano.

Raffrontando questo approccio con quello convenzionale – che si colloca nell’orizzonte qualche po’ paranoico del modello di clima planetario – si può costatare come esso sia più adatto ad affrontare la diversità e la complessità delle perturbazioni climatiche, di origine umana o ambientale che siano.

Così, le decisioni politiche sul cambiamento climatico sono in grado di tener conto non solo di come l’attività antropica influenzi il clima ma soprattutto di come il mutamento climatico comporti un rischio per quella attività stessa.


III) Pilotare il clima planetario: un disegno autoritario

Le decisioni collettive, che vanno prese per mitigare il mutamento climatico ed eventualmente elaborare delle strategie di adattamento, hanno, come riferimento, i luoghi dove questi stessi cambiamenti si svolgono. L’azione, quella vera, è sempre locale.

Ripromettersi, come accade ai protagonisti dell’IPCC, di costituire a Parigi una cabina di regia – dalla quale pilotare il cambiamento climatico tentando di limitare l’aumento della temperatura media globale – equivale a proporre una sorta di dispotismo climatico mondiale che prima d’essere un male peggiore di quello che s’intende evitare, si rivela una impresa ridicola, propriamente donchisciottesca.

Basterà ricordare che il pianeta non è in pericolo, i mutamenti climatici ci sono sempre stati, la Terra ne ha viste ben altre, la sua salvaguardia è, più modestamente, solo la protezione del «nostro mondo» in quanto ambiente che ci consente di vivere e riprodurci in maniera confortevole.

Del resto, risulta evidente che lo stesso riscaldamento medio globale, che è in corso a partire dall’inizio del XIX secolo, ha effetti disuguali nelle diverse zone geografiche – una maledizione per la fascia compresa tra i due Tropici, una occasione straordinaria per le terre situate alle estreme latitudini tanto a Nord quanto al Sud.

D’altro canto, se davvero i mutamenti climatici fossero attribuibili principalmente all’immissione antropica di anidride carbonica allora la scelta di usare l’energia nucleare sarebbe quella più saggia – perché le centrali nucleari non alimentano l’effetto serra... anche se, in compenso, producono scorie radioattive che decadono su un intervallo temporale di decine di migliaia di anni.

Mette conto aggiungere qui un’altra osservazione critica nei confronti dell’approccio convenzionale, quello IPCC, al riscaldamento globale: diminuire in misura efficace le immissioni antropiche di anidride carbonica nell’atmosfera richiede un abbandono delle fonti fossili a favore di quelle rinnovabili; e questo vuol dire una gigantesca reindustrializzazione, una nuova fase d’accumulazione capitalistica dai costi sociali enormi; il tutto per scongiurare un incremento massimo di qualche grado entro l’anno 2100 come previsto dai modelli statistici.

Solo un regime dispotico planetario potrebbe tentare d'imporre sacrifici a milioni di esseri umani sulla base di una previsione statistica riferita alla fine del secolo, quando saremo quasi tutti morti.

Basterà ricordare a questo proposito le erronee proiezioni che hanno caratterizzato nel passato la climatologia: fino agli anni Settanta del secolo appena trascorso i modelli statistici prevedevano tutti un raffreddamento netto del nostro pianeta.

Del resto, non c’è poi niente di cui meravigliarsi: mettendo al lavoro tutti i computer in uso nelle Università italiane non riusciamo a sapere chi vincerà il prossimo derby tra il Milan e l’Inter, a maggior ragione è fuori dalle nostre possibilità stabilire la temperatura nella piazza principale di Zagarolo il 28 di luglio del 2100.


IV) Conclusioni

Per chiudere senza concludere, ciò che viene rimosso nella discussione pubblica internazionale, promossa dall’IPCC nell’intento di pilotare il mutamento climatico, è l’acquisizione di base della Termodinamica: non v’è alcuna crisi energetica per il buon motivo che l’energia si conserva; quel che stiamo vivendo è piuttosto una crisi dovuta all’aumento dell’entropia, ovvero al crescere del disordine.

Il punto è che non esiste nessuna possibilità di impedire questa crescita d’entropia perché qualsiasi trasformazione energetica – sia essa dovuta alla combustione dei materiali fossili o alla captazione della radiazione solare o ancora all’uso dei forza eolica o di quella delle maree così come delle reazioni nucleari – tutto questo, per fare qualche esempio, e altro ancora, non sfugge alla Seconda Legge della Termodinamica che impone una imposta entropica, più o meno severa, a ogni trasformazione reale.

Il riscaldamento o il raffreddamento della Terra – così come quello degli altri pianeti – è un fenomeno ciclico che si verifica da milioni di anni ed è reso possibile dalla circostanza che il sistema solare non è isolato ma collocato nello spazio profondo; sicché quest’ultimo funziona come un immane serbatoio che assorbe con «divina indifferenza» qualsivoglia surplus d’entropia si determini sulla Terra o, più in generale, nel sistema solare.

Ciò che la natura consente alla specie umana è una diminuzione locale dell’entropia ovvero un aumento locale dell’ordine – compensato da una crescita più che proporzionale dell’entropia ovvero del disordine in quel «altrove assoluto» che è, appunto, lo spazio profondo.

In altri termini, contrastare il surriscaldamento globale, prima ancora d’essere impossibile, è del tutto inutile.

Ciò che viceversa risulta utile, oltre che possibile, è diminuire il disordine localmente, su una area che è una frazione irrilevante della superficie terrestre, nei luoghi dell’abitare; e questo tramite la pedonalizzazione dei centri urbani, la ricopertura arborea delle zone deforestate, il recupero dell’acqua piovana, il risparmio energetico e così via; per ultimo ma non ultimo la drastica riduzione dell’inquinamento ottico – quello che ha sottratto i corpi celesti al paesaggio notturno – impiegando per l’illuminazione pubblica le lampade «cutoff» che irradiano la luce verso il basso, sulla strada, con un riverbero del tutto modesto verso l’alto, nella direzione del cielo stellato.



Immagine: Nanni Balestrini, Tristanoil, 2012


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