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Piattaforme e partite Iva. Verso una «terza generazione» di lavoratori autonomi



Ripubblichiamo, in forma lievemente estesa e rivista, uno stimolante contributo di Aldo Bonomi, sociologo autore di numerosi saggi sulla società italiana e le sue trasformazioni, fondatore e direttore del Consorzio AASTER, dedicato alle recenti metamorfosi del lavoro autonomo. Nell’articolo, pubblicato nella rubrica curata dallo stesso autore («microcosmi»), Bonomi ipotizza l’emergere di una «terza generazione» di partite Iva formatasi a ridosso dei processi di digitalizzazione, dentro e sotto il capitalismo delle piattaforme. Temi che anticipano contributi dello stesso autore che saranno pubblicate nell’ambito della riflessione sui «Decenni smarriti» avviata da Machina.



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Sono tempi di volatilità delle passioni, inseguite dai sondaggi, e di materialità dei lavori nelle piattaforme, «fabbriche a cielo aperto» sui territori. Ad ogni sussulto elettorale regionale o di carotaggio partecipativo, primarie PD, il territorio si colora di mappe delle differenze nella filiera urbano ragionale: dalle città ai piccoli comuni passando per i territori manifatturieri. Ci si interroga sulla composizione sociale scomposta e frammentata nella composizione «tecnica» del produrre e dei lavori tentando una composizione «politica» non più data nella divisione sociale del lavoro e nelle appartenenze di ceto, un tempo congelate dentro lo schema delle classi della società fordista, delle sue rappresentanze sociali e politiche e del welfare state. Emblematico in questo ossimoro tra composizione tecnica e politica la nebulosa del lavoro autonomo.

Non è certo un tema inedito: tra le diverse «anomalie» del nostro paese, una tra le più controverse e stimolanti riguarda lo sconfinare e parziale sovrapporsi del discorso sul lavoro indipendente con il rompicapo del ceto medio (e delle sue relazioni con le classi medie). Non è lo stesso discorso: non è mai esistito un ceto medio socialmente omogeneo e anche da noi la distanza tra partite Iva e «colletti bianchi» salariati, i due grandi aggregati della cetomedizzazione, ha strutturato conflitto di interessi e rappresentanza politica. É tuttavia indubbio che da noi la rilevanza quantitativa dei lavoratori indipendenti abbia rappresentato una delle leve per il formarsi di una società di ceto medio e spinto generazioni di studiosi a interrogarsi sulle ragioni di questa «anomalia» tutta o quasi italiana. Ricordiamo bene i dibattiti a suo tempo suscitati dalle tesi di Sylos Labini, Pizzorno, Paci, De Rita e altri, che vedevano in questa peculiarità della struttura dei lavori, secondo i casi, un segno dell’arretratezza strutturale del capitalismo di casa nostra, una politica intenzionalmente volta a incentivare la mobilitazione individualistica contro la solidarietà di classe, piuttosto che una costante strutturale della società o ancora la spinta soggettiva alla valorizzazione di sé e delle società locali attraverso la microimpresa.

Il dibattito è proseguito, mantenendo un registro dualistico e polarizzato: le partite iva raccontate o come la Vandea del contado dei capitalisti molecolari artigiani e commercianti o come startup della creatività e delle Smart City in divenire. Quotate spesso nel cielo della politica come ceti medi in declino o nuovi ceti affluenti. Nel mettersi in mezzo a questa schizofrenica lettura teniamo conto della pacata osservazione di Bagnasco che raccomanda di usare con cautela, per la nebulosa della cetomedizzazione (come la chiamava De Rita), sia la situazione di «classe» sia quella di «ceto». Continuiamo a leggere il lavoro indipendente con occhiali novecenteschi, laddove invece questo universo, che rimane rilevante con i suoi attuali 4,5 milioni di effettivi nel 2021, ha piuttosto continuato a cambiare pelle, presentando una stratificazione interna che lo rende tutt’altro che omogeneo nella lettura di «classe», ancorché aderente alla riconfigurazione territoriale del capitalismo delle piattaforme.

Con il declino della produzione di massa il lavoro autonomo si ripresentò, a cavallo del secolo, come base diffusa della produzione decentrata e flessibile del primo postfordismo, come capitalismo molecolare dei distretti produttivi orientati all’export. Dai primi anni ‘70 ai ‘90 è stata l’età dell’oro del lavoro indipendente, il cui numero crebbe del 70 per cento. Iniziava anche la prima transizione terziaria in cui, sotto il cappello della new economy e la retorica della classe creativa ispirata da una globalizzazione piena di opportunità, si nascondeva la scintilla della precarizzazione vissuta soggettivamente come passaggio necessario a riconoscimenti di redditi e status da professionisti poi rivelatisi spesso illusori. Erano quelle le figure che definii con Enzo Rullani «capitalisti personali» e che Sergio Bologna denominò lavoratori autonomi di seconda generazione. Non già l’arretratezza, ma la peculiare modernizzazione del capitalismo italiano, dunque, era interpretata come motore del nuovo lavoro autonomo.

Certamente, in questo nuovo lavoro autonomo convergevano la ricerca di forme di autovalorizzazione e rifiuto dei modelli del lavoro burocratico delle nuove generazioni che si identificavano nell’ideologia «californiana» della rete. Il mondo dei free lance del terziario (consulenza, hi-tech, design, media, ecc.), in particolare, sembrava riflettere lo spirito dei tempi combinando etica libertaria e rottura dei legami collettivi, in cui il connettersi sostituiva l’azione collettiva in un quadro di «solidarietà debole», fuori dalla gabbia dell’organizzazione del lavoro, nella percezione spesso illusoria di auto-modellarsi in «libertà». Questa in sintesi era anche la matrice dello scontro – negli anni Novanta – tra nuova e vecchia economia. Prese insomma forma una strana alleanza, tra neo-management e vasti settori di forza-lavoro nell’esautorare la regolazione fordista, che aveva il suo nucleo nello scambio tra autonomia e protezione. Ma non si trattava di un ceto linearmente in ascesa, poiché la sua riproduzione materiale era vincolata dalla progressiva erosione dei «contratti» che legavano il vecchio lavoro autonomo al potere politico, senza che nuovi ne venissero sottoscritti. Verso la parte «bassa», il lavoro autonomo di seconda generazione confinava con un precariato magari vissuto proattivamente, ad esempio con la disponibilità a scambiare tutele e progressioni di carriera con gratificazioni simboliche, la domestication del lavoro, con la messa in produzione del quotidiano e della vita privata, nell’ambito di forme di committenza ristretta o esclusiva.

Questo intreccio di lavoro autonomo di prima e seconda generazione, tutt’altro che politicamente invisibile, raggiunse la punta di 6 milioni di partire IVA nel 2004. A partire da quel periodo, con il dispiegarsi di una globalizzazione ben più selettiva dopo il 2008, si assiste ad una nuova articolazione interna del lavoro indipendente, accompagnata da una significativa contrazione numerica. La grande crisi ha colpito i settori dell’economia che più dipendevano dalla domanda interna e dalla spesa pubblica, sia incentivando le spinte all’innovazione tecnologica che, trainata dalla nuova onda digitale (web 2.0, I4.0, piattaforme, management algoritmico, ecc.) ha iniziato a mettere fuori gioco più figure professionali sia nel campo del lavoro subordinato sia nel lavoro autonomo.

Numerosi dei fattori che avevano favorito la tenuta del lavoro autonomo sono stati erosi dall’affacciarsi di nuovi paradigmi produttivi. La diffusione dell’e-commerce e delle piattaforme in alcuni campi (es. mobilità, accoglienza, socialità, consumo), lo sviluppo di canali remoti nel rapporto tra organizzazioni e clienti (vedi assicurazioni, banche, compagnie aeree), la rivoluzione nella logistica e nella distribuzione, la smaterializzazione dei contenuti culturali, l’emergere di nuove tecnologie organizzative e procedure impersonali di valutazione, hanno impattato sul mondo del lavoro autonomo. Questa mutazione ha avuto conseguenze importanti sul piano dell’appartenenza di ceto e della rappresentazione sociale, con una diffuso senso di declassamento, specie nell’ambito del lavoro autonomo tradizionale (commercio, artigianato, agricoltura).

Ma attenzione, non è tutto Vandea o rancore come dimostra il fenomeno dei ritornanti in agricoltura sostenibile, l’emergere di una composizione neo-artigianale nelle nuove professioni e nel digitale, substrato diffuso anche della green economy, e come esplorato anche da una recente ricerca Aaster in Lombardia sui «Distretti del commercio. Piattaforma sociale e di rigenerazione urbana». Così come non è il paradiso il magma dei lavoratori della conoscenza «innovatori sociali» e creatori di start up nei settori high tech e playmakers urbani alla ricerca di reddito e senso per una ecologia della mente nel tecnocene che si fa militanza ambientale nell’antropocene.

Il paradigma dell’economia della conoscenza globale in rete a base urbana ha generato una terza generazione di lavoratori indipendenti segnata dalla riorganizzazione digitale della società e dell’economia. Sono messi al lavoro nella «città infinita dei tanti calcolati dai pochi calcolanti padroni dell’algoritmo» innervando la modernizzazione del capitalismo delle piattaforme. In questi cambiamenti vi sono quanti li usano, quanti li subiscono e quanti ne vengono spiazzati. Nella «terza generazione» vi sono i virtuosi dell’algoritmo, quelli che istruiscono le macchine digitali, che ne territorializzano gli usi, gli intermediari della tecno-Kultur che si fa Zivilisation. Ma vi sono anche quelli messi al lavoro dall’algoritmo, o che devono adattare l’offerta cedendo quote di valore alle piattaforme che controllano parte dei mercati e della clientela potenziale. In alto quelli che contano, in mezzo i lavoratori della conoscenza, in basso l’ultimo miglio di quelli che in bicicletta o in camioncino fanno le consegne disegnando tracce di classi sociali. Ed è qui nel magma di ceti discendenti e neoaffluenti di una nuova composizione sociale urbano regionale che non fa ancora racconto «in soggettività» di orientamenti, che la politica e le rappresentanze devono mettersi in mezzo per capire lo spirito dei tempi.


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Aldo Bonomi fondatore e coordinatore del Consorzio Aaster, ha pubblicato negli ultimi trent’anni numerosi testi sul cambiamento dei territori italiani nella loro dimensione produttiva, sociale e antropologica. Tra questi Il trionfo della moltitudine (1996), Il capitalismo molecolare (1997), Il distretto del piacere (2000), Il rancore (2008) e Il capitalismo in-finito (2013). Ha diretto la rivista «Communitas» e dirige la collana «comunità concrete» di DeriveApprodi, con la quale ha pubblicato (insieme a Marco Revelli e Alberto Magnaghi) Il vento di Adriano. La comunità concreta di Olivetti tra non più e non ancora (2015). Dal 2004 cura la rubrica Microcosmi sul quotidiano «Il Sole 24 Ore».

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