Riproponiamo questo intervento di Biagio Cepollaro, che s'inserisce nella «cartografia dei decenni» di Machina, tenuto nel 1993 a Reggio Emilia nel convegno «Ricercare» e successivamente pubblicato in «Baldus», anno IV, n.3-4, Ottobre 1993, pp. 14-18 e poi anche in AA.VV., 63/93 Trent’anni di ricerca letteraria, Elytra edizioni, Reggio Emilia, 1995, pp. 47-52. Ora in Biagio Cepollaro, Perché i poeti? (Saggi e interventi sulla poesia italiana alla fine del millennio 1986-2001), pp.36-42. Esso è significativo sia per la sua analisi generale della fase storico-culturale di quegli anni sia per l'eco che ebbe nel dibattito letterario.
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1.Il titolo della mia comunicazione è: Perché i poeti nel tempo del talk-show? Se ironizzo sul saggio di Heidegger, dal titolo Perché i poeti nel tempo della povertà?, è perché credo che il problema per un poeta non è ritrovare gli dèi fuggiti nella notte del mondo ma chiedersi cosa fare in questa specie di notte polare della comunicazione.
Premetto che ciò che dirò è il frutto di un tentativo ricostruttivo a posteriori del mio lavoro in versi, e precisamente, deriva dalle questioni nate nel corso della scrittura di due libri, Scribeide (Manni, Lecce, 1993) e Lunapersciente (in corso di pubblicazione presso C. Mancosu, Roma). Se non convince ciò che liricamente esprime la pur notevole finezza filosofica di Heidegger a proposito dei poeti che avrebbero il compito di ritrovare le tracce degli dèi fuggiti nella notte del mondo, se per noi non è questione di inseguire le tracce del Sacro, nondimeno possiamo chiederci, con molto meno lirismo ma con eguale passione, perché mai i poeti, in questa notte del mondo illuminata ed oscurata insieme, dal simulacrale e dal virtuale delle sempre più pervasive comunicazioni di massa?
Intanto pare che per i poeti di oggi non si tratti tanto di provocare degli choc, quanto di reagire dopo averli subiti. E gli choc fanno parte del paesaggio che in questi ultimi venti anni è profondamente mutato, come diverse risultano le proposte e le questioni. Tra le molte caratteristiche del paesaggio ne scelgo alcune che ritengo più interessanti per chi lavora ai versi e intende stabilire nuovi rapporti con le realtà linguistiche che lo circondano e, in parte, lo costituiscono. Schematicamente:
I linguaggi tendono alla trasversalità e alla contaminazione anche al di fuori degli oggetti intenzionati esteticamente. Per alcuni aspetti la profezia di Pasolini, relativa all'arretramento dell'estetico rispetto allo strumentale (sviluppo industriale), risulta smentita e rovesciata: l'estetico sembra, per molti versi, riassorbito dalla produzione strumentale, dando vita ad un'altra caratteristica: l'estetizzazione diffusa.
Le informazioni circolano sempre più velocemente e tendono a configurarsi come coesistenti.
Si stabiliscono nuove abitudini percettive indotte dai massmedia e si cominciano a intravedere le potenzialità degli sviluppi delle tecnologie interattive.
Si prospetta una Soggettività sempre più irrelata ma anche subissata dai flussi linguistici: si avvicinano, si azzerano delle distanze, grazie alle tecnologie, ma si vanificano anche delle vicinanze. Si può parlare di un'ulteriore dissoluzione dell'esperienza; si tende alla prevalenza dell' archivio sulla memoria della simulazione sul futuro: memoria e simulazione, due funzioni del computer, tendono a pervadere le realtà più comuni, con implicazioni antropologiche sempre più tangibili.
Queste caratteristiche non sono presenti in modo omogeneo nel paesaggio, le contraddizioni, i dislivelli, i paradossi non mancano, ma se si getta uno sguardo al paesaggio di trent'anni fa, salta agli occhi la complessiva trasformazione qualitativa che anche la presenza di questi fattori ha provocato.
2.Ho cominciato a scriver Scribeide, nel cuore degli anni Ottanta, quando l'heideggeriana notte del mondo mi appariva più fonda che mai.
E l'oscurità della notte non sembrava dipendere dagli dèi fuggiti, quanto piuttosto dall'imminenza del loro ritorno. Il problema della scrittura si è allora configurato in una formula che forse riuscirà a chiarire, con sufficiente approssimazione, la mia esperienza: «Ancor prima di cosa e del come dire, per il mio lavoro si è posta la questione del con che cosa dire».
Era chiaro che nel nuovo paesaggio dell'estetizzazione diffusa e della contaminazione de facto dei linguaggi, non era più sufficiente agire nell'ambito dei problemi che avevano caratterizzato la pur rigorosa e feconda ricerca degli anni Sessanta e Settanta: il riassorbimento in maniera o l'utilizzazione pubblicitaria delle tecniche un tempo trasgressive richiamantesi all'«asintattismo», mi spostavano le questioni dalle forme ai materiali, dalla sincronia alla diacronia, al riconoscimento di una condizione non tanto di frammentazione quanto di implosione e dematerializzazione.
Insomma: pur tenendo fermo il principio del contatto linguistico, del rapporto con le realtà linguistiche del presente, occorreva pensare un'altra poesia, come giusto e ovvio, del resto. E qui torna ancora la domanda iniziale: «Perché i poeti nel tempo del talk-show?». Credo che alla metà degli anni Ottanta, quando la cosiddetta «cultura postmoderna», almeno per alcuni suoi aspetti, si limitava a rispecchiare una condizione, senza però offrire elementi critici per distinguere il resoconto dalla trasformazione di questo in destino epocale, sia stata chiara a molti definitivamente una cosa: che un certo modo di intendere la ricerca poetica, un modo che si potrebbe definire, in via provvisoria, «lineare/esplorativo» modo che accomuna le prime ricerche d'avanguardia del secolo alla più recente poesia intraverbale, dava segni di forte esaurimento. Con la disintegrazione dell'unità lessicale finiva un modo di intendere il rapporto tra la norma linguistica e la trasgressione, né più convinceva «l'allegro piacere dell'omofonia» o la presunta liberazione attraverso il motto di spirito; lo stesso Saussure, col suo atomismo linguistico, sembrava perdere colpi.
Insomma: occorreva inventarsi un'altra strada che non fosse la poesia rapinosa, innamorata, colorata che sostanzialmente arretrava nel tradizionale lirismo di fronte allo choc di ritrovarsi, nel giro di pochi anni, in una nuova condizione antropologica, dove tecnologie, contesti culturali, condizioni sociali generali, avevano mutato i linguaggi della realtà.
La prima conseguenza del configurarsi del nuovo paesaggio è stata la percezione che il lavoro in versi più che ad inseguire l'esplorazione di ciò che non era ancora stato fatto (e non si tratta di una singola tecnica perché sarebbe irrilevante rispetto alle complessive strategie testuali), si ritrovava a fare i conti con un modo che si potrebbe definire, sempre in via provvisoria, «circolare/implosivo» dei flussi linguistici attraversanti il nostro tessuto sociale. Le tradizioni letterarie sembravano implodere e offrire non il senso di una continuità ma detriti, come è stato da più parti notato in questi ultimi anni, macerie e scarti. Ora chi ha percepito questo movimento circolare/implosivo anche delle forme estetiche, si è improvvisamente trovato di fronte ad una sorta di bivio: da una parte ci si poteva scagliare contro una visione della poesia come «attimo di grazia superflua» (cfr. Introduzione a La parola Innamorata) e richiamarsi, con forza anche talvolta un po' eccessiva, alla esperienza della cosiddetta Neoavanguardia (ed è questa la strada epigonale che è una strada senza uscita), dall'altra, coraggiosamente, ci si poteva chiedere quali altri elementi, quali problemi nuovi venivano posti per chi volesse rispondere, ristabilire un rapporto linguistico con delle realtà linguistiche inedite. Questa seconda strada poteva essere percorsa solo in un'altra collocazione culturale.
Occorreva fare i conti con la tradizione della ricerca poetica e, dopo il tentativo di evasione - che pure conteneva in sé delle istanze circa la Soggettività de La parola Innamorata - riprendere il discorso laddove la crisi delle ideologie, dello strutturalismo, dell'epistemologia a cavallo tra la fine dei Settanta e gli inizi degli Ottanta, si era interrotto. Non il poeta vate, nessuna traccia degli dèi, ma un nuovo coinvolgimento nei linguaggi del mondo e un tentativo di parola responsabile.
3.E allora occorre chiedersi, in profondità, se le categorie di «visione schizomorfa», di «ordine provvisorio violentemente sincronico», di «asintattismo» (reperibili nell'introduzione di Giuliani ai Novissimi), se le categorie di «alienazione e utopia», di «società alienata e arte astratta» (reperibili nel saggio dello stesso critico su «Laborintus» di Sanguineti) possono rispondere adeguatamente ai problemi posti nel tempo del terziario avanzato, della telematica e dell'informatica e occorre rispondere, inoltre, ai problemi posti dalle descrizioni apparentemente neutre, relative alla condizione postmoderna.
Intanto, l'asintattismo da scarto, da infrazione è stato riassorbito con implicazioni estetiche anche interessanti, dai sempre più raffinati linguaggi pubblicitari, lo sviluppo del montaggio televisivo ci ha abituato ad una sintassi estremamente accelerata (videoclip docet), la presunta integrità che faceva da sfondo alla teoria dell'alienazione, appare sempre più mitologia antropologica, alla percezione di un mondo schizomorfo se ne è sostituita un'altra di un mondo in cui la velocità annienta il territorio, in cui le città risultano ridotte a infrastrutture di comunicazione (Paul Virilio), in cui lo stesso senso dello spazio e del tempo tendono ad oscillare tra la virtualità e l'implosione. Alla percezione di una novità conquistata in un movimento lineare, si è sostituita una percezione della circolarità in cui la frammentazione, di cui si parlava negli anni Sessanta, lungi dall'essere il risultato e la patologia, è solo il punto di partenza, l'unità minima, l'ovvietà.
In sintesi, si potrebbe dire che pur restando una condizione di precarietà e di instabilità all'origine dell'approccio della produzione poetica di ricerca, questa precarietà e questa instabilità non sono quelle proprie ad una società scarsamente, o non ancora, medializzata, come poteva essere quella italiana agli inizi degli anni Sessanta. Il che vuol dire che gli strumenti nuovissimi allora, perdono non poco il loro smalto e risultano di conseguenza bisognosi di un «salto categoriale». Non a caso oggi scompaiono i riferimenti allo strutturalismo e alla psicoanalisi, mentre ci si rivolge ad una rilettura di Bachtin, alle analisi di Virilio sulle implicazioni delle nuove tecnologie e a Jameson per una rilettura critica del postmoderno, piuttosto che attardarsi sui tradizionali francofortesi, un tempo efficacemente nuovissimi. Scompaiono altresì il primato della scrittura e la riduzione dell'io e si presenta sempre più urgentemente il problema delle implicazioni dell'oralità secondaria, come la definisce Ong, sulle contemporanee testualità. Dopo l'ebbrezza lacaniana della disseminazione del Soggetto negli anni Settanta, ci si rivolge con più disinvoltura ad un patico che pur non avendo nulla di eroico non si dichiara, però, patetico: la miseria dello scrivere nel tempo del talk-show, non ha bisogno di pleonastiche auto-ironie.
4.Le vicende del Gruppo 93, dai contorni fisiologicamente indefiniti, perché sin dall'inizio considerato un luogo aperto di confronto (cfr. Relazione introduttiva al I convegno, feb. 1990), credo abbiano mostrato come fosse difficile districare il vecchio dal nuovo. E come, in definitiva, le categorie critiche per avvicinare i testi non sempre risultassero adeguate.
A questo si è aggiunto un altro tipo di problema: lo strumento dell'antologia, utilissimo ma estremamente delicato, non sempre ha evitato equivoci a causa di una scarsa attenzione per la specificità delle strategie testuali dei singoli autori. Non è un caso, credo, che proprio in sede antologica, sia oggi più visibile la carenza critica, sia per qualche esitazione o difficoltà a riconoscere il nuovo, sia per l'utilizzazione di schemi e categorie critiche che, alla luce della condizione attuale in cui i poeti operano, mostrano qualche segno di stanchezza.
Mi spiego: posta come assodata una relativa diffusione di procedure stilistiche che lavorano sui materiali di scarto, su detriti, macerie, attraverso riutilizzazioni e riattivazioni di frammenti ispessiti anche diacronicamente, posta, insomma, come assodata una situazione in cui i linguaggi che ci attraversano tendono ad essere svuotati, così come disinnescate appaiono le mine linguistiche un tempo rivolte al «sabotaggio», quale potere illuminante e valore descrittivo conservano categorie come citazionismo, plurilinguismo, riscrittura etc. etc. che oggi andrebbero ripensate e ricalibrate sui nuovi contesti, sulle nuove realtà linguistiche?
Quale chiarimento di fondo possono comportare per chi vuole capire e distinguere e familiarizzarsi con la nuova produzione poetica?
Nel tempo del talk-show, nel tempo, in cui le forme implodono coinvolgendo non solo la dimensione estetica ma circolarmente l'intero paesaggio, una scrittura che non voglia illudersi di poter puntare ad una purezza incontaminata e magari rivolgersi a «mitologici galeoni volanti» e a «lenzuola che sono vele», come pure è stato fatto nel recente passato, implicherà nel suo fare anche la consapevolezza di consumarsi di seconda o terza intenzione, posta com'è in un habitat linguistico che dà voce ad una seconda o terza natura.
Una simile considerazione può farsi per la nozione di pastiche: quando Gadda sovrapponeva, nella sua polifonia, diversi strati linguistici erano ben vivi i rispettivi codici di provenienza, per non parlare dei dialetti, ancora espressione di comunità reali; oggi i codici di provenienza e soprattutto i dialetti sono irrecuperabili. Il pastiche non ha più la funzione precipua dello straniamento; oggi diventa, nella combinazione de facto dei linguaggi, un modello di simulazione, di critica ricostruzione, di vera e propria narrazione dei rapporti tra il soggetto e la molteplicità dei linguaggi chiamati ad una riorganizzazione di senso.
E allora, nella considerazione della produzione poetica attuale, non si tratta tanto di rintracciare inedite «particolarità tecnico-stilistiche», come pure coscienziosamente tende a fare l'accorto sguardo di Barilli, ma di cogliere l'insieme dei rapporti tra le complessive strategie testuali da una parte e la relativa configurazione dei referenti dall'altra. Non si tratta, cioè, di mutamenti «quantitativi», o non solo accade questo, rispetto agli anni Settanta e Sessanta, ma di mutamenti che sono soprattutto «qualitativi».
Per fare solo un esempio: le mescolanze linguistiche di oggi non vanno riferite, con immagine suggestiva, ad una maggiore velocità della «centrifuga» in dotazione del poeta: nel tempo del talk-show, al contrario, quelle mescolanze hanno spesso il valore di riorganizzazioni, risultano rallentamenti del flusso, dispositivi per modellizzare un senso rispetto ai vortici che si manifestano innanzitutto all'esterno della letteratura. Non sottolineare adeguatamente queste relazioni, non contestualizzare l'utilizzazione all'interno di questa o quella tecnica, vuol dire correre il rischio di appiattire le dinamiche dell'invenzione letteraria sulla fenomenologia di una singola, per quanto importante, connotazione tecnico-stilistica.
Ecco perché nel bel mezzo della «cultura postmoderna», a partire dalla metà degli anni Ottanta ma poi sempre più nella seconda metà, diveniva urgente ridisegnare i contesti culturali essendo ormai solo parzialmente adeguati quelli relativi agli anni precedenti.
Sulla difficoltà del compito non vi sono dubbi: si sono fatte semplificazioni di vario tipo. Valga come emblematico il caso in cui strategie testuali molto diverse tra loro, vengono accomunate, in un catalogo-antologia, in una generalissima prospettiva definita di «democratizzazione definitiva dell'epica utopia dell'underground». C'è solo da chiedersi se è ancora possibile introdurre la categoria di underground quando i cosiddetti fenomeni underground oggi vengono quasi preceduti se non provocati da solleciti articoli di Panorama o L'Espresso. Ma la domanda era «Perché I poeti nel tempo del talk-show?».
Nel consumare l'esperienza del Gruppo 93, dagli inizi entusiasmanti e dalle polemiche estenuanti, ho maturato una convinzione che accenno in questa sede ma ho argomentato in parte già nei miei interventi su «Baldus» o negli atti del Convegno dedicato al Gruppo 93 che si tenne a Siena nel 1992 e che resta il più rigoroso sul piano critico. La convinzione riguarda le strategie testuali: ritengo che all'interno della produzione poetica attuale,all'interno della poesia di ricerca, occorra distinguere tra una poesia che intende stabilire un rapporto linguistico con le realtà linguistiche attraverso dei prototipi di esperienza come amava esprimersi Musil, e una poesia che insiste soprattutto sul suo statuto retorico.
Nel primo caso il pastiche, o meglio, il pastiche idiolettico (nel mio caso, ma vi possono essere anche altre modalità che non posso prevedere) si offre come una riorganizzazione di senso, nel secondo caso ci si muove ancora nell'ambito della cosiddetta «riscrittura», a diversi livelli, con diversi esiti, fino a casi in cui l'esasperazione del calembour giunge a proporsi come una sorta di motore del testo.
Vi è insomma, da una parte la tendenza a ridefinire, insieme allo specifico poetico, una rinnovata capacità di modellizzazione, di allegorizzazione della situazione di una Soggettività alle prese con i linguaggi del mondo, dall'altra vi è l'estenuazione di meccanismi ironici, interni alla letteratura, ad ampio spettro, dalla citazione culta al demenziale, che sembrano non avvertire l'indebolimento strutturale, direbbe Jameson, della parodia, con la conseguenza di chiudersi in maniera.
L'insistenza sullo statuto retorico del testo sembra non fare i conti con le diminuite possibilità delle strategie iperletterarie, rischiando di costituire, proprio nell'ambito della poesia che si voleva di ricerca, un'arcadia, diciamo così, metaletteraria.
D'altra parte, all'estremo opposto, una giustapposizione tra lo specifico letterario e altre dimensioni della cultura giovanile, finirebbe con l'assimilare non tanto ciò che di nuovo si muove nel mondo, quanto la sostanziale acriticità di un aggiornamento giovanilistico.
L'oggettiva marginalità della ricerca letteraria non può essere superata abbassando i livelli specifici della testualità.
Devo dire, in conclusione, che ad un testo letterario chiedo cosa può dirmi intorno a determinati problemi: qual è, ad esempio, l'immagine del rapporto tra chi scrive e i linguaggi del mondo, qual è la sua reinterpretazione della più vicina o più lontana tradizione, oggi, in cui le tradizioni sembrano frantumarsi e apparentemente rendersi disponibili; quali sono, insomma, i margini di senso ancora aperti in questa notte del mondo. All'interno e intorno al Gruppo 93, fino ad ora, le diverse modalità, considerate poco nei singoli autori, hanno più o meno coabitato, sia pure solo polemizzando, accomunate anche da un diffuso, quanto generico, rifiuto della poesia intesa come «attimo di grazia superflua». Personalmente non credo che ciò sia ancora possibile.
Occorre che nella notte del mondo, in questi mesi resa polare, nel tempo del talk-show, non ci si limiti più a ribadire tautologicamente che una poesia è una poesia né, d'altra parte ci si illuda, come poeti, di poter vivere, in buona fede, un'epica utopia: nel radicale disincanto che ci tocca, lo vogliamo o no, privi di rassicurazioni e di garanzie, assediati dagli dèi che tendono a tornare e dai pubblicitari che fanno il paesaggio, occorre che, nel nostro specifico, per quel che vale e in profondità, ci si chieda, come ho provato a fare qui: «Perché i poeti nel tempo del talk-show?».
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Biagio Cepollaro, nato a Napoli nel 1959, vive a Milano. Esordisce come poeta nel 1984 con Le parole di Eliodora (Forum/Quinta generazione), nel 1993 pubblica Scribeide (Piero Manni ed.) con prefazione di Romano Luperini e Luna persciente (Carlo Mancosu ed.) con prefazione di Guido Guglielmi. Sono gli anni della poetica idiolettale e plurilinguista, del Gruppo 93 e della rivista «Baldus». Con Fabrica (Zona ed., 2002), Versi nuovi (Oedipus ed., 2004) e Lavoro da fare (e-book del 2006) la lingua poetica diventa sempre più essenziale aprendosi a una dimensione meditativa della poesia. Questa seconda fase del suo percorso è caratterizzata da pionieristiche attività editoriali in rete che danno vita alle edizioni on line di ristampe di autori come Niccolai, Di Ruscio e di inediti di Amelia Rosselli, a cui si aggiungono le riviste-blog, come «Poesia da fare» (dal 2003) e «Per una Critica futura» (2007-2010). Nello stesso periodo si dedica intensamente alla pittura (La materia delle parole, a cura di Elisabetta Longari, Galleria Ostrakon, Milano, 2011), pubblicando libri che raccolgono versi e immagini, come Da strato a strato, prefato da Giovanni Anceschi (La Camera Verde, 2009). Il primo libro di una nuova trilogia poetica, Le qualità, esce presso La Camera Verde nel 2012. È in corso di pubblicazione il secondo libro, La curva del giorno, presso L'arcolaio editrice.
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