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Perché la guerra?

La congiuntura economico-politico-militare



Perché la guerra? Maurizio Lazzarato
Immagine: Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Su tutte le vette è pace dalla Trilogia della guerra, 1999

Pubblichiamo il primo di una serie di articoli scritti per noi da Maurizio Lazzarato, volti a fare il punto sulla «guerra civile mondiale» in corso. Nella prima parte, l’autore si sofferma sul «centro che non tiene», come direbbe il poeta, ovvero sulla crisi negli Usa, cuore del potere capitalistico contemporaneo. Le crisi e le guerra che stanno distruggendo il mondo sono figlie proprio delle strategie di potere del paese a stelle e strisce.

Ricordiamo che su questi temi Maurizio Lazzarato ha scritto un libro recentemente edito da DeriveApprodi, Guerra civile mondiale?


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Il fallimento economico e politico degli USA

 Un doppio, contraddittorio e complementare, processo politico ed economico è in corso: lo Stato e la politica (statunitense) affermano con forza la loro sovranità attraverso la guerra (anche civile) e il genocidio. Mentre, allo stesso tempo, mostrano la loro completa subordinazione al nuovo volto che il potere economico ha assunto dopo la drammatica crisi finanziaria del 2008, promuovendo un’inedita finanziarizzazione, altrettanto illusoria e pericolosa, come quella che ha prodotto la crisi dei mutui sub prime. La causa del disastro che ci ha portato alla guerra è diventata una nuova medicina per uscire dalla crisi: una situazione che non può essere che foriera di altre catastrofi e di altre guerre.  Un’analisi di quanto sta accadendo negli Stati Uniti, il cuore del potere capitalistico, è fondamentale poiché è proprio dal suo seno, dalla sua economia e dalla sue strategia di potere, che sono partite tutte le crisi e tutte le guerre che hanno sconvolto e, tutt’ora, devastano il mondo.

  Il centro del problema si trova nel fallimento del modello economico e politico degli USA che li spinge necessariamente alla guerra, al genocidio e alla guerra civile interna, per ora solo strisciante, ma che si è già materializzata una prima volta a Capitol Hill, sul finire della presidenza di Donald Trump. L’economia americana avrebbe dovuto dichiarare bancarotta da tempo, se per quest’ultima valessero le regole che valgono per gli altri paesi. Alla fine di aprile 2024 il debito pubblico totale, chiamato Total Treasury Security Outstanding, cioè la somma delle varie obbligazioni e dei titoli di debito pubblico, era pari a 34.617 miliardi di dollari. Dodici mesi prima, tale somma era di 31.458 miliardi. In un anno il debito pubblico è aumentato di 3.160 miliardi di dollari, pari quasi al livello del debito pubblico della Germania, la quarta potenza economica mondiale. Ma è il suo esponenziale progredire che oggi è completamente incontrollato: un aumento di 1000 miliardi ogni cento giorni. Oggi, siamo già a 1000 miliardi ogni 60 giorni.

  Se c’è una nazione che vive a scrocco del mondo intero, questa sono gli USA. Il resto del mondo paga i suoi debiti (le folli spese dell’«american way of life» – di cui, evidentemente, solo una parte degli americani ne beneficia assieme al suo enorme apparato militare) in due modi principali. Attraverso il dollaro, la merce più scambiata del mondo, gli USA esercitano un signoraggio sull’intero pianeta, perché la sua moneta nazionale funziona come moneta degli scambi internazionali, consentendogli di indebitarsi come nessun altro paese. Dopo la crisi del 2008, gli USA hanno trovato un altro sistema per scaricare i costi del debito sugli altri paesi, attraverso una riorganizzazione della finanza. I capitali (soprattutto degli alleati e, tra questi, principalmente l’Europa), sono trasferiti negli USA per pagare i crescenti tassi d’interesse sul debito, grazie ai fondi di investimento. Dopo la crisi finanziaria si è costituita una concentrazione di capitali, grazie a quindici anni di quantitative easing (liquidità a costo zero) operata dalle banche centrali, che ha determinato un monopolio di dimensioni che il capitalismo non aveva mai conosciuto prima. Con l’aiuto politico delle amministrazioni Obama e Biden, un gruppo ristrettissimo di fondi americani ha un attivo (ovvero la raccolta e la gestione del risparmio) che si aggira tra i 44.000 miliardi e i 46.000 miliardi di dollari. Per avere un’idea di cosa significhi questa centralizzazione monopolistica è possibile compararla al PIL dell’Italia - 2.000 miliardi di dollari - o a quello di tutta l’Unione Europea - 18.000 miliardi. I «Big Three» come vengono chiamati i tre fondi più importanti, Vanguard, Black Rock et State Street, costituiscono, di fatto, un’unica realtà, perché le proprietà dei fondi sono incrociate e di difficile attribuzione.

  La fortuna di questo «iper-monopolio» è stata costruito sulla distruzione dello Stato Sociale. Per le pensioni, la salute, la scuola e qualunque altro tipo di servizio sociale, gli americani sono costretti a sottoscrivere assicurazioni di ogni tipo. Tocca, ora, agli europei e al resto del mondo occidentale (ma anche all’America Latina di Milei) mettere nelle mani dei fondi di investimento, ad un ritmo dettato dallo smantellamento dei servizi sociali (il salario indiretto garantito dal Welfare si trasforma in onere, costo e spesa che ciascuno deve assumersi per garantire la propria riproduzione). Gli USA hanno un doppio interesse nel proseguire e intensificare lo smantellamento del Welfare a livello mondiale: economico, perché induce a investire nei titoli dei fondi (che a loro volta servono a comprare buoni del tesoro, obbligazioni e azioni delle imprese americane) e politico, perché la privatizzazione dei servizi significa individualismo e finanziarizzazione dell’individuo, che da lavoratore o cittadino si trasforma in piccolo operatore finanziario (e non in imprenditore di sé stesso, come recita l’ideologia dominante). Anche le politiche fiscali sono convergenti nel progetto di annullare lo Stato Sociale. Non si fanno pagare le tasse né ai ricchi, né alle imprese e si azzera la progressività delle imposte; dunque, non ci sono più risorse per le spese sociali e, di conseguenza, si incita ad acquistare polizze private che finiscono nei fondi di investimento. Il progetto di distruggere tutto ciò che era stato concesso grazie a duecento anni di lotte si sta, finalmente, realizzando.

  Il risparmio americano non basta più ad alimentare il circuito della rendita per cui i fondi sono all’assalto del risparmio europeo. Ad esempio, i 35.000 miliardi di dollari che Enrico Letta vorrebbe destinare ad un grande fondo di investimento europeo funzionerebbe secondo gli stessi principi: produrre e distribuire rendita, dando forma alle stesse enormi differenze di classe che si ritrovano negli USA. La ragione del rapido e incredibile impoverimento dell’Europa va rintracciata nella strategia economica realizzata dall’alleato americano. Il divario negativo con gli Stati Uniti è passato del 15% del 2002, al 30% attuale. Più l’Europa si fa derubare e più le sue classi politiche e mediatiche diventano atlantiste, guerrafondaie, supinamente prone a chi le sta emarginando in maniera drammatica, spingendole alla guerra contro la Russia (che, per inciso, non sono neanche in grado di sostenere). Gli Stati europei si sono sostituiti alla Cina e all’Est asiatico nel comprare i buoni ordinari del tesoro americano e, proseguendo la demolizione dello Stato Sociale, obbligano la popolazione a sottoscrivere polizze di assicurazione che finiscono nei conti dei fondi di investimento. In questo modo, l’euro viene trasformato in dollaro, salvando, così, la dollarizzazione dalla minaccia del rifiuto del Sud di sottostare al dominio della moneta americana.

  Questo trasferimento di ricchezza riguarda anche l’America Latina, dove Milei è avanguardia della nuova finanziarizzazione che punta privatizzare tutto. Il neofascismo di Milei è un laboratorio per adattare le tecniche di rapina americane adottate in Europa, Giappone e Australia, anche nelle economie più deboli. Non è il fascismo classico, è il nuovo fascismo «libertario» della rendita e dei fondi di investimento quello incarnato da Milei, cattiva copia ideologica del fascismo della Sylicon Valley nato dalle sue imprese «innovative». Come diceva Kissinger: «essere nemici degli USA può essere pericoloso, ma esserne amici è fatale». Questa enorme liquidità ha permesso ai fondi di comprarsi, mediamente, il 22% di tutto il listino di Standard & Poors, che contiene le prime 500 imprese quotate alla borsa di New York. I fondi sono già presenti nelle più importanti imprese e banche Europee (soprattutto in Italia dove vengono svendute a ritmo accelerato) e le loro speculazioni decidono praticamente le sorti dell’economia indirizzando le scelte degli «imprenditori».

  Qualcuno aveva delirato sull’autonomia del proletariato cognitivo, sull’indipendenza della nuova composizione di classe. Niente di più falso. Chi decide dove, quando, come e con quale forza-lavoro produrre (salariata, precaria, servile, schiavizzata, femminile, ecc.) è, ancora una volta, chi detiene i capitali necessari, chi possiede la liquidità e il potere per farlo (oggi sicuramente i «Big Three»). Non è certo il proletariato più debole degli ultimi due secoli. Altro che autonomia e indipendenza, la realtà di classe è subordinazione, assoggettamento e sottomissione, come non mai nella storia del capitalismo. Essere «lavoro vivo» è una disgrazia, perché è sempre lavoro comandato, come quello di mio padre e di mio nonno. Il lavoro non produce «il» mondo, ma il «mondo del capitale» che, fino a prova contraria, è una cosa molto diversa perché si tratta di un mondo di merda. Il lavoro vivo può conquistare autonomia e indipendenza solo nel rifiuto, nella rottura, nella rivolta e nella rivoluzione. Senza, si tratta di impotenza assicurata!

 


Lo scontro intestino al capitale finanziario americano

 Luca Celada[1], in un articolo apparso su Dinamopress, cita Robert Reich definendolo «progressista» perché già ministro del governo Clinton che, da buon democratico, ha intensificato la finanziarizzazione (e la conseguente distruzione del Welfare) e scavato disuguaglianze di classe abissali, gettando solide basi per il disastro del 2008, all’origine delle guerre attuali. L’azione dei Musk e Thiel, imprenditori della Silicon Valley e alleati di Trump, è vista come la minaccia di un nuovo monopolio, mentre non viene presa troppo in considerazione l’inedita centralizzazione di potere dei fondi che da quindici anni fanno il bello e cattivo tempo, con l’attiva complicità dei democratici e creano insieme le condizioni per la prossima catastrofe finanziaria.

«Forse non del tutto casualmente “l’entrata in politica” dei magnati del silicone è coincisa con le prima avvisaglie di una più vigorosa azione regolatoria da parte dell’amministrazione Biden-Harris, comprese le prime vere cause antitrust contro giganti quali Google, Amazon e Apple intentate dalla presidente della Federal Trade Commission, Lina Khan (la cui tesi di laurea era dedicata al monopolio di Amazon) e l’ugualmente agguerrito assistente ministro di giustizia Jonathan Kanter. Non è forse sorprendente, allora, che alcuni “silicon barons” stiano puntando sul candidato più propenso a rinnovare loro un assegno in bianco. E perfino nominarne alcuni nel proprio governo».

Kamala Harris è legata con mani e piedi alla volontà dei fondi, perché gli azionisti di riferimento di tutte (e proprio tutte) le imprese che cita Celada sono proprio i fondi.  Non vedo come possa contrastare il loro monopolio da cui dipende la salvezza degli Usa e quella del suo partito («democratici per il genocidio»). La giustificazione della cecità nei confronti dei «progressisti» è da ricercare nel neofascismo di Trump. Se sarà eletto si passerà dalla padella alla brace; ma, non bisogna dimenticare che già con l’elezione di Biden, siamo caduti dalla padella alla brace della guerra e del genocidio. Ci avevano assicurato che la violenza nazista era una parentesi, ma i democratici ci hanno ricordato che il genocidio è invece uno degli strumenti con cui il capitalismo agisce dalla sua nascita. La democrazia americana è fondata sul genocidio e sulla schiavitù. Il razzismo, la segregazione, l’apartheid sono l’altra sua componente strutturale. La complicità con Israele segna in profondità la storia della «più politica» della democrazie, secondo Hannah Arendt.

I piccoli monopolisti, come Musk, si sono attivati perché il grande monopolio non li fa respirare, ma sono completamente subordinati alla sua logica. In realtà, è uno scontro interno al capitale finanziario americano: i piccoli monopolisti vorrebbero rappresentare gli «spiriti animali» del capitalismo, imbrigliati, secondo loro, dall’alleanza dei democratici con i grandi i fondi di investimento. Mentre agitano un fascismo futurista (anche qui niente di veramente nuovo se si pensa al fascismo storico, dove il futurismo della velocità, della guerra, delle macchine si armonizzava senza problemi con la violenza anti-proletaria e anti-bolscevica), un trans-umanismo e un delirio ancora più oligarchico e razzista di quello della finanza dei fondi. Questi piccoli monopolisti sono, in realtà, in accordo con quelli grandi rispetto alla questione dirimente: la proprietà privata, ovvero, l’alfa e l’omega della strategia del capitale.

Il loro programma comune è finanziarizzare tutto e, tutto ciò, significa privatizzare tutto. I problemi nascono su come dividersi questa enorme torta. Per capire i limiti dell’analisi progressista dobbiamo approfondire velocemente il funzionamento della finanziarizzazione monopolistica condotta dai fondi di investimento dopo il 2008. La crisi dei mutui subprime era settoriale e la speculazione era concentrata nell’immobiliare. Qui, oggi, la finanza è, invece, pervasiva. Da Obama a Biden, le amministrazioni democratiche hanno accompagnato l’infiltrazione dei fondi in tutta la società: non c’è ambito della vita che oggi non sia finanziarizzato.

Finanziarizzazione della riproduzione: si parla molto della centralità della riproduzione nei movimenti, ma con un ritardo abissale rispetto all’azione dei fondi, la cui pre-condizione è la distruzione del Welfare. I democratici hanno abbandonato ogni velleità di un nuovo Welfare e puntano tutto sulla privatizzazione di ogni servizio sociale. L’hanno teorizzato apertamente: la democratizzazione della finanza deve avere come risultato la finanziarizzazione della classe media. I fondi, agevolati in tutti i modi dai democratici, garantirebbero un investimento finanziario sicuro, per cui gli americani che comprano i titoli prodotti dai fondi, dovrebbero garantirsi il reddito e i servizi che il lavoro non assicura più (quelli che possono permetterselo perché i poveri, le donne single e la stragrande maggioranza dei lavoratori sono esclusi – in un recente sondaggio emerge come il 44% della famiglie americane non è in grado di far fronte ad una spesa imprevista di 1000 dollari).

  La classe media per Kamala Harris, arriva fino ad un reddito di 400.000 mila dollari l’anno. Un dato significativo per comprendere la composizione sociale che i democratici hanno come referente. Il lavoro e i lavoratori sono completamente scomparsi dall’orizzonte dei democratici, così come della «sinistra» in generale. Il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, replicato dalla finanza e già fallito nel 2008 e viene oggi riproposto come soluzione della «questione sociale». Lo ripetiamo, è un processo di finanziarizzazione del welfare, perché i titoli e le polizze devono sostituire i servizi erogati dallo Stato. Possiamo citare anche il caso italiano: di fronte al non investimento dello Stato nel territorio sconvolto dalla crisi climatica, il ministro per la Protezione civile ha rilanciato l’idea delle assicurazioni obbligatorie contro le inondazioni. Matteo Salvini è intervenuto dicendo che «lo Stato può dare indicazioni, però non viviamo in uno Stato etico dove lo Stato impone, vieta o obbliga a fare» e ha, invece, proposto una nuova legge per obbligare i lavoratori dipendenti ad investire parte del proprio TFR (Trattamento di Fine Rapporto) nei fondi pensione, per ottenere, a fine carriera, una pensione integrativa. Ovviamente, senza capire quale rapporto intrattenga con i fondi americani (ingenuità o idiozia) perché, in realtà, il 70% finirebbe trasformato in dollaro negli USA.

  La finanziarizzazione trasforma le imprese in agenti finanziari. E riguarda anche le imprese che producono profitti reali, che licenziano personale e i cui enormi dividendi non sono investiti, ma in gran parte distribuiti agli azionisti o utilizzati per comprare le proprie azioni per farne crescere il valore e aumentare la propria capitalizzazione (che non ha, ormai, più nessun rapporto con ciò che producono e vendono realmente). Tutto ciò va di pari passo con la finanziarizzazione dei prezzi: non è il mercato (relazione tra domanda e offerta di beni) che stabilisce i prezzi, ma le scommesse di operatori (tramite i derivati) che non hanno nessun rapporto né con la produzione, né con il commercio reale. I prezzi sono definiti da imprese finanziarizzate che controllano i settori dell’energia, del cibo, delle materie prime, della farmaceutica ecc., a partire da una posizione di monopolio o oligopolio assoluto (gli azionisti principali di queste imprese sono sempre i grandi fondi di investimento). L’inflazione che è scoppiata recentemente, è l’esito dalla speculazione sui prezzi e non dipende in alcun modo dall’aumento dei salari o delle spese sociali. L’insieme di queste finanziarizzazioni che investono la «vita» (anche se il termine è ambiguo) fa esplodere le differenze di reddito e, soprattutto, di  patrimonio di cui sono vittime i lavoratori e tutta la popolazione che  non può mettersi di acquistare i titoli.

 


Il fallimento della governance neoliberale e la guerra

 L’affermazione del monopolio sancisce la fine del neoliberalismo e dell’ideologia del mercato, merita, dunque, qualche osservazione. Parliamo di ideologia a proposito della concorrenza, perché il processo di verticalizzazione economica continua imperturbabile almeno sin dalla fine del  XIX secolo. Anzi, è proprio esploso durante il neoliberalismo, come abbiamo già discusso.

  I fondi, come riportato sopra, sono funzionali alla centralità del potere americano, più di ogni altra istituzione. E i fondi hanno bisogno delle politiche fiscali del governo (non tassare la finanza e indebolire il lavoro), degli ordinamenti e delle agevolazioni, generosamente elargite da Obama (presidente nero, ma in perfetta continuità con il bianco che l’ha preceduto e quello che lo ha seguito) e, in maniera ancora più decisiva, da Biden. Emerge qui un problema teorico e politico: la finanza, che dovrebbe rappresentare la modalità più astratta del valore e la  forma cosmopolita perfettamente compiuta  del capitalismo è, in Occidente, comandata e gestita da dispositivi che portano la bandiera a strisce. I fondi americani agiscono di concerto con le amministrazioni statunitensi, perseguendone gli interessi a discapito del mondo intero. La moneta si trova nella stessa situazione. Non esiste una moneta sovranazionale, la moneta è sempre nazionale perché strettamente legata, soprattutto il dollaro, alle politiche decise dallo Stato che la emette in un contesto territorialmente delimitato. Si può affermare che moneta e finanza rappresentano la tendenza ad uscire dai limiti territoriali degli Stati e della sua impossibilità. Il rapporto tra USA e fondi di investimento organizza un’azione globale che è favorevole a pochi americani e alle sue oligarchie.

  La seconda osservazione riguarda la lettura del neoliberalismo, che si continua a ritenere operante, quando, invece, è morto: ucciso dai fascismi, dalle guerre e dal genocidio. La stessa fine è spettata al suo illustre predecessore, il liberalismo, che doveva evitare i piccoli inconvenienti che aveva causato (le due guerre mondiali e il nazismo) e che invece, necessariamente, ha finito col riprodurre. Molto di questa analisi si deve alla teoria della biopolitica di Michel Foucault, che ha esercitato una influenza funesta sul pensiero critico. Foucault legge il neoliberalismo come une teoria dell’impresa e la sua soggettivazione come un divenire «imprenditori di se stessi». Non nomina mai, neanche en passant, il credito, la moneta e la finanza su cui la strategia capitalista si è costruita a partire dagli fine degli anni Sessanta. Lo strumento principale della contro rivoluzione è il «grande indebitamento dello stato, delle famiglie, delle imprese» come direbbe Paul Sweezy e non la produzione. L’impresa è un’ideologia e un’idea ordoliberale che appartiene all’Occidente industriale, agli anni Trenta e al dopoguerra: un mondo definitivamente morto. L’ordoliberalismo vede nell’economia ciò che causa la morte del «sovrano» quando la finanza porta a compimento un immane monopolio (il sovrano economico). Ma nel contesto del capitalismo industriale ciò non è possibile, poiché quest’ultimo, per costituirsi e riprodursi, ha bisogno del «sovrano» politico (lo Stato). La testa del sovrano non è stata tagliata dall’economia, ma sdoppiata, facendo della centralizzazione del potere del capitale e dello Stato una strategia avente enorme successo.

  Foucault ha, semplicemente, confuso un’epoca, così come i suoi allievi che hanno  riprodotto gli abbagli del maestro, ad esempio Dardot e Laval, su tutti. Il mercato non ha mai funzionato come credeva Foucault e come credevano gli ordoliberali, ovvero sulla base della concorrenza. Al contrario, la sua verità è rappresentata dal funzionamento della finanza, che stabilisce in prezzi a partire da un monopolio speculativo e che non ha nulla a che vedere con la domanda e l’offerta di beni reali (recentemente, il prezzo dell’energia è aumentato di dieci volte, ma senza nessun rapporto con la sua disponibilità reale e la stessa  vale cosa per i cereali, ecc.). La soggettivazione non è rappresentata dall’imprenditore, ma dall’illusoria trasformazione degli individui (non di tutti, come abbiamo detto) in agenti finanziari. Per la finanza, la «popolazione» e il mondo sono fatti di creditori, debitori e investitori in titoli, azioni e obbligazioni. La finanziarizzazione della classe media, inseguita dall’accordo tra i democratici e i fondi, è l’ultima chimera destinata a svanire nel nulla del prossimo crollo.

  Oggi, il processo che non è stato nemmeno intravisto dalla biopolitca ha raggiunto al suo apice. La crescita, in Occidente, è solo finanziaria (mentre è reale nel sud globale). La sua produzione (il denaro che produce denaro, come il «pero che produce pere», diceva Marx) è una finzione, una fabbricazione di carta straccia, che, tuttavia, possiede effetti reali. I fondi fanno salire i prezzi dei titoli delle imprese di cui sono azionari, al fine di incassare i dividendi da distribuire ai sottoscrittori. Non si tratta di nuova ricchezza, ma, soltanto, di appropriazione, cattura e rapina di un valore che esiste già e che viene soltanto trasferito dal resto del mondo agli USA – con un punto di vista di classe, si potrebbe dire dal lavoro al capitale speculativo. Se questo «furto» della ricchezza prodotta nel resto del mondo si ferma, tutto il sistema crolla. 

  Il vero nome di questo processo è rendita. Il suo circuito è garantito e assicurato dalla dollarizzazione, ed è per questo che gli Usa non potranno mai accettare un mondo multipolare. Essi sono necessariamente costretti all’unilateralismo, sono obbligati a rapinare i loro alleati perché il sud globale non vuole più funzionare da colonia (ruolo completamente assunto dall’Europa, dal Giappone e dall’Australia). Le oligarchie che reggono l’Occidente sono il frutto della finanziarizzazione e funzionano esattamente come l’aristocrazia dell’«ancien régime». Oggi, dunque, è necessaria una nuova notte del 4 agosto 1789 in cui sono stati aboliti i privilegi dell’aristocrazia feudale.

  Gli Stati Uniti si trovano in un cul de sac: sono costretti ad alzare i tassi di interesse per attirare i capitali dal mondo intero, altrimenti il sistema finanziario crolla, ma lo stesso aumento dei tassi strangola l’economia americana. Quando li abissano, come adesso per motivi elettorali (durante la campagna elettorale, infatti, i democratici sono stati accusati di soffocare l’economia), ne approfittano solo gli speculatori (in primis, i fondi) che scommettono sulla loro evoluzione. Come la grande liquidità messa a disposizione dell’economia della banche centrali non è mai scesa nella produzione reale, perché si è fermata nel settore finanziario, anche questo abbassamento dei tassi non avrà alcun influenza sull’economia reale, ma ne attiverà solo la speculazione. Gli USA sono incapaci di uscire dal circolo vizioso della rendita, per cui la guerra è la sola soluzione già a partire dal 2008 da quando era chiaro che l’economia americana era fondata sulla produzione e distribuzione di rendite finanziarie. Da qui, la volontà di perseguire e allargare la guerra, di continuare a finanziare e legittimare il genocidio, di far salire ovunque i nuovi fascismi al potere. Il futuro prossimo venturo sembra dover essere questo, come confermato da un documento del luglio di quest’anno (Commission on the National Defense Strategy) del Congresso americano dove si afferma senza, mezzi termini, che gli USA devono prepararsi alla «grande guerra» contro il Sud globale, al cui centro ci sono la Russia e la Cina. Nei prossimi anni si dovrà mobilitare ogni settore della società, sul modello di ciò che era stato fatto prima e durante la seconda guerra mondiale, al fine di sventrare la minaccia alla sua esistenza, mai così grave dal 1945.

  Il primo obiettivo è, tuttavia, quello di trasformare un’industria (che ormai non esiste più) in un’industria di guerra: «la Commissione ritiene che la base industriale della difesa degli Stati Uniti (DIB) non sia in grado di soddisfare le esigenze di equipaggiamento, tecnologia e munizioni degli Stati Uniti e dei suoi alleati e partner. Un conflitto prolungato, in più scenari, richiederebbe una capacità molto maggiore di produrre, mantenere e rifornire armi e munizioni. Per far fronte a questa carenza, saranno necessari maggiori investimenti, ulteriori capacità di produzione e di sviluppo congiunte e in relazione con gli alleati e con la maggiore flessibilità nei sistemi di acquisizione. È necessaria la collaborazione con una base industriale che non comprenda solo i grandi produttori tradizionali della difesa, ma anche nuovi operatori e un’ampia gamma di aziende coinvolte nella produzione sub-livello, nella cybersicurezza e nei servizi di supporto»[2].

  Lo Stato e le amministrazioni devono essere coordinate verso ciò che il documento definisce «deterrenza integrata». Una particolare attenzione deve essere mostrata alla forza-lavoro, per riqualificarla in funzione dell’economia di guerra, dopo che era stata smantellata dalla finanziarizzazione e del conseguente smantellamento dell’industrializzazione. I vari dipartimenti dell’amministrazione devono coordinarsi in vista della guerra: «tra cui il Dipartimento di Stato e l'Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID), i dipartimenti economici (tra cui il Tesoro, il Commercio e la Small Business Administration) e quelli che supportano lo sviluppo di una porzione importante della forza-lavoro statunitense più forte e preparata, come il dipartimento del Lavoro e dell'Istruzione. Proprio come è stato per la guerra Guerra Fredda, questi dipartimenti e agenzie devono avere un focus strategico sulla concorrenza, ora, in particolare, sulla Cina»[3].

  In linea con i precetti della rendita e dell’oligarchia, i grandi investimenti necessari devono essere privati, in modo da inondare i monopoli di miliardi dollari. Si parla chiaramente di una «chiamata alle armi» bipartisan dei democratici e dei repubblicani che devono educare un’opinione pubblica inconsapevole del pericolo mortale che sta correndo e preparala a sopportare i costi di una guerra mondiale (si cita l’enorme percentuale del PIL investito in armi nelle guerra fredda). «L'opinione pubblica statunitense è in gran parte ignara dei pericoli che gli Stati Uniti corrono e dei costi (finanziari e non) necessari per prepararsi adeguatamente. Non si rendono conto della forza della Cina e delle sue partnership, né delle ramificazioni della vita quotidiana, qualora dovesse scoppiare un conflitto. Non prevedono interruzioni dell’energia elettrica, dell’acqua o dell’accesso a tutti i beni su cui fanno affidamento. Non hanno interiorizzato i costi della perdita della posizione di superpotenza mondiale da parte degli Stati Uniti. È urgente una “chiamata alle armi” bipartisan, in modo che gli Stati Uniti possano effettuare i cambiamenti più importanti e gli investimenti più significativi, invece di aspettare la prossima Pearl Harbor o il prossimo 11 settembre. Il sostegno e la determinazione dell’opinione pubblica americana sono indispensabili»[4].

  Ernst Jünger avrebbe detto che stanno preparando la «mobilizzazione totale». Hanno, tuttavia, un piccolo problema perché l’economia e la ricchezza che hanno imposto è per i pochi, mentre i molti sono stati impoveriti, emarginati, precarizzati, colpevolizzati poiché ritenuti responsabili della loro condizione. Ora, sembrano rendersi conto che hanno bisogno dei molti, che occorre una forza-lavoro «forte e preparata», per difendere la nazione e lo spirito nazionale… l’economia e la proprietà dei pochissimi. Con un paese diviso come non mai, non possiamo che augurare buona fortuna alle oligarchie che promuovono la mobilizzazione totale per la guerra che vogliono combattere contro i tre quarti dell’umanità e che, sicuramente, perderanno come stanno perdendo in Medio Oriente e in Europa orientale. È solo una questione di tempo.



Note

[2] Commission on the National Defense Strategy.

[3] Ivi.

[4] Ivi.


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Maurizio Lazzarato vive e lavora a Parigi. Tra le sue pubblicazioni con DeriveApprodi: La fabbrica dell’uomo indebitato(2012), Il governo dell’uomo indebitato(2013), Il capitalismo odia tutti(2019), Guerra o rivoluzione (2022), Guerra e moneta (2023). Il suo ultimo lavoro è: Guerra civile mondiale? (2024)

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