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Per la critica della democrazia politica


Bosch + Bosch Group (Bálint Szombathy), Lenin in Budapest, 1972, Collezione Marinko Sudac.

«Il movimento operaio non è stato sconfitto dal capitalismo. Il movimento operaio è stato sconfitto dalla democrazia». Così scriveva Mario Tronti ne «La politica al tramonto» (testo fondamentale scritto sul finire del Novecento, che a inizio marzo DeriveApprodi renderà disponibile in una nuova edizione). La critica della democrazia politica, del resto, è uno dei grandi temi della ricerca trontiana. Pubblichiamo qui la trascrizione della lezione seminariale tenuta mercoledì 12 dicembre 2007 da Tronti alla facoltà di Scienze politiche dell’Università La Sapienza di Roma, organizzata dalla Rete per l’autoformazione.

 

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Avete fatto molto bene ad assumere il tema della democrazia attraverso una riflessione lunga, attraversandolo dal punto di vista teorico e con gli autori che lo hanno approfondito. E concordo anche sulla preoccupazione che c’è nell’assumere questo tema attraverso una formula così decisa: per la critica della democrazia. Avete detto senza aggettivi. In realtà se dovessimo comporre tutta la definizione dovremmo dire: per la critica della democrazia politica. Che non è una aggiunta come le altre, ma è la specificazione del tema. E io la assumo in assonanza a un’altra formula che è molto attinente a questa, molto simile, possiamo dire quella originaria. Voglio insistere sulla critica, che è poi la mossa marxiana nell’atteggiamento alternativo e antagonistico verso la società capitalistica. L’assonanza è appunto per la critica dell’economia politica. Dirò poi del nesso che vi è tra democrazia ed economia, di come sia cresciuto e si sia sviluppato fino a una sorta di scambio e nello stesso tempo di identificazione tra le due dimensioni.

Dire critica non è solo l’assunzione della formula, ma anche del metodo. Perché quando Marx diceva per la critica dell’economia politica, come sappiamo, assumeva tutta la tradizione teorica dell’economia politica, attraversando e facendo il grande lavoro di lettura dei testi degli economisti classici. Questo in un doppio senso: faceva sì critica di quell’elaborazione, ma assumendo poi contemporaneamente la sostanza del discorso. Per la critica dell’economia politica per lui voleva dire formulare la struttura della sua opera maggiore, Il capitale, nonché di tutti gli studi che lo precedevano, che usciranno come Grundrisse. C’era questo doppio livello: impegnarsi in qualcosa che deriva da una lunga storia moderna significa criticarla e assumerla come propria.

Le riflessioni che proverò a fare vanno nel senso di una messa in discussione anche di questo approccio marxiano alla critica dell’economia politica senza riuscire a fuoriuscire dall’economia politica stessa, come a un certo punto mi sembra sia accaduto per Marx. Per dare la dimensione dei problemi che oggi dobbiamo affrontare, dico che per noi critica dell’economia politica vuol dire che non può esserci un’economia politica alternativa. Il fatto che da Marx sia venuta una ricerca continua di un’altra economia politica, è stato in fondo uno degli handicap che la tradizione marxista e poi la tradizione del movimento operaio ha assunto.

Analogamente si può dire per una critica della democrazia politica. Mi sembra di essere arrivato a una prima conclusione: dire per una critica della democrazia politica presuppone la non possibilità o l’impossibilità di una democrazia politica alternativa. E quindi è una critica totale, di fondo. C’è un attraversamento teorico che è stato fatto, che io in parte ho fatto, saggi a cui rimando perché non voglio riprenderli ora: il testo nel libro Guerra e democrazia, un saggio pubblicato sulla rivista «Democrazia e libertà». Oggi vorrei provare ad assumere il tema dal punto di vista della storia politica, più che della teoria politica. Intanto diciamo che noi ci occupiamo della democrazia dei moderni. Il discorso sulla democrazia degli antichi non ci interessa, ci porta fuori strada; è il discorso continuamente riproposto della democrazia della polis greca.

La democrazia dei moderni è quella che sta dentro lo sviluppo del pensiero politico moderno, quel passaggio che va dal liberalismo alla democrazia. Perché c’è un passaggio anche di origine teorica della democrazia dal liberalismo, anche se non possiamo affrontarlo approfonditamente perché dovremmo ripartire da autori come Montesquieu, Locke, Rousseau e così via. Assumerei proprio dal liberalismo alla democrazia, dall’Ottocento al Novecento come passaggio da cui iniziare: dal capitalismo libero concorrenziale al sistema del capitale sociale. Ha coinciso con la formula dello Stato interventista in economia, con lo Stato sociale, che ha visto il massimo di sviluppo della democrazia politica.

Il rapporto quindi è tra economia e politica, tra individuo e Stato, e questo rapporto è passato nel Novecento attraverso esperienze politiche concrete. Due passaggi sono decisivi per comprendere appieno lo stato della democrazia politica oggi. Anzitutto il passaggio del totalitarismo nel Novecento e il passaggio della crisi dello Stato liberale che si verifica subito dopo la Prima grande guerra; una sorta di crisi complessiva dello Stato, una grande crisi susseguita alla grande guerra, dove vengono fuori due grandi direzioni del problema della democrazia. Uno è all’interno dei totalitarismi ed è quello della nazionalizzazione delle masse, laddove la democrazia politica ha sempre a che fare con il concetto storico di massa. L’altra direzione è la socializzazione delle masse, che ha preso spunto dopo la Prima grande guerra dalla rivoluzione operaia in Russia e analogamente poi in Occidente, attraverso la forma politica dello Stato sociale, forma anch’essa di socializzazione delle masse.

Anche la Grande guerra aveva operato queste due cose contemporaneamente, nazionalizzazione e socializzazione delle masse, però poi la declinazione che ne dà la rivoluzione operaia è alternativa. Poiché quello che non era riuscito, o era riuscito solo in parte a tutto il movimento operaio socialista, cioè organizzare i lavoratori e quindi socializzare l’esperienza del lavoro, socializzare le masse lavoratrici e organizzarle attraverso i grandi temi non solo ideologici della solidarietà di classe ma anche attraverso le forme politiche dei partiti e dei sindacati – ecco, quello che non era riuscito fin lì, riesce attraverso la guerra. In fondo gli operai e i contadini vengono socializzati come soldati. È una cosa su cui non si riflette abbastanza: nelle trincee della Prima guerra mondiale c’è una grande forma di socializzazione, si è dentro qualcosa che è al di sopra di se stessi, dentro una forma-guerra che imponeva sia la solidarietà tra soldati sia la messa in gioco tra nemici. Non è un caso che da qui la rivoluzione operaia in Russia si ponga come grande alleanza tra soldati e operai. Se si prendono i soviet si può vedere questo misto, soldati e operai, soldati e contadini. È lì in fondo che c’è il germe della democrazia novecentesca. In questo caso un germe positivo.

La guerra è antiliberale, nel senso che provoca la grande crisi dell’assetto liberale dello Stato politico e della società politica. Da lì in poi la soluzione del problema politico si divarica in due grandi direzioni: la dittatura da un lato (da qua i totalitarismi negli anni Venti e Trenta, con anche la dittatura del proletariato subito dopo la rivoluzione), e la democrazia dall’altro. Dalla guerra, e poi dalla crisi che è anch’essa un portato della grande guerra, inizia il processo delle democrazie occidentali. Ma parte anche qualcosa di più. Dopo la Seconda guerra queste due direzioni diventano una sola. Nel senso che viene sconfitta la soluzione totalitaria e trionfa la soluzione democratica. Qui il destino della democrazia viene segnato in modo ormai definitivo, decisivo. Noi dobbiamo partire dalla democrazia del secondo dopoguerra che si presenta subito – con la lotta contro il fascismo e nazismo, con la Resistenza – come la democrazia delle masse e dei partiti di massa. Attraverso questo strumento si acquisiscono conquiste, in parte riformistich, assetti costituzionali avanzati, welfare, stato sociale, anche alcune forme di nazionalizzazione e di proprietà pubblica. È qui che comincia un rapporto tra Europa e democrazia che non c’era mai stato, perché l’Europa era il luogo della grande tradizione liberale. La cosa più europea non era lo Stato democratico, bensì lo Stato liberale. Nel momento in cui vince l’aspetto democratico, anche in Europa comincia a vincere il modello americano. Perché se l’Europa era il luogo della forma e del pensiero liberale, gli Stati Uniti sono il luogo di nascita della democrazia moderna. Non a caso l’opera fondamentale per la critica della democrazia politica continua a essere quel classico che è La democrazia in America di Tocqueville, dove troviamo il discorso non tanto di uno Stato democratico, quanto piuttosto di una società democratica, perché la democrazia è soprattutto società. L’eguaglianza degli individui, con tutto quello che comporta la forma del sistema politico. Insomma, se è vero che emerge da bisogni inerenti ai passaggi di grande guerra in cui l’Europa era stata coinvolta, dire democrazia in Europa equivale a dire una sua americanizzazione. Vorrei che lo si capisse, perché è un punto essenziale. È attraverso la democrazia che l’Europa si americanizza.

Ed è attraverso quel passaggio che si può riassumere nella formula «dalle masse alla massa». Le masse erano uno sfondo sociale articolato, all’interno del quale esistevano le componenti che le definivano, ovvero le classi sociali, e le espressioni delle classi sociali attraverso le forme politiche come sindacati e partiti. Invece è questa massa indistinta che sempre più diventerà il luogo di formazione della scelta democratica. Si passa quindi dalla fase di nazionalizzazione e socializzazione delle masse a una forma di massificazione della società e dello Stato. Un passaggio dove nazionalizzazione o socializzazione, processi separati prima, diventano una cosa unica nella forma di massificazione sia della società che dello Stato.

Quando parliamo della vera democrazia, ci riferiamo a quella democrazia che nasce negli Stati Uniti d’America e viene esportata attraverso la guerra. Perché l’esportazione della democrazia non è qualcosa di oggi, è una cosa che gli Stati Uniti hanno sempre fatto. Io sostengo che hanno esportato la democrazia in Europa attraverso la Seconda grande guerra, riuscendo nel loro intento. Da quel momento in poi ci troviamo di fronte a una sorta di democrazia reale. Io la chiamo così, come il socialismo reale; democrazia realizzata e socialismo realizzato, si può dire anche in questo modo. E questo è il dato per me di partenza. Quando c’era il socialismo reale nell’Unione Sovietica, c’erano anche quelli che criticavano quella forma di socialismo e avevano in mente un socialismo ideale che si poteva realizzare in altro modo. Ma la forma di realizzazione di un ideale è sempre talmente forte, ha una tale potenza in sé che non permette nessun’altra alternativa di carattere ideale. Oggi sostengo che non possiamo più parlare di socialismo, perché è una parola che si è consumata in una realizzazione storica che l’ha di fatto abolita come possibilità ideale. La realizzazione della storia ha una potenza invincibile con cui noi dobbiamo sempre fare i conti. E non possiamo salvare l’idea da una sua realizzazione già data. Non è possibile ripresentare il modello di socialismo, per quanti sforzi di specificazione si facciano resterà un’opera vana. Il socialismo è stato quello lì. Analogamente per me accade con la democrazia reale. La democrazia è appunto quella americana. E possiamo anche dire mille cose su una democrazia diversa, ma non approderemo a nulla perché la realizzazione di quell’idea di democrazia così come si è incarnata in quel paese e poi esportata in altri paesi, compresa l’Europa, ha definitivamente chiuso la partita. E questo è il tema del nome e dei nomi.

Per cui la democrazia intanto non è un valore. Dalla definizione «la democrazia è un valore», traggo l’idea del suicidio del movimento operaio. Quando il movimento operaio ha detto questo, si voleva chiuderne la storia, questo era il senso di tale affermazione. Ne La politica al tramonto ho scritto una frase che non è stata veramente presa sul serio, perché ciò comporterebbe una ricollocazione teorica, cosa che la pigrizia intellettuale in genere non ama molto: si diceva che il movimento operaio non è stato sconfitto dal capitalismo, ma è stato sconfitto dalla democrazia. Il movimento operaio con il capitalismo ha avuto un rapporto di lotta alla pari. Sono state due potenze che si sono affrontate in una grande epoca della lotta di classe, dall’una e dall’altra parte ci sono state vittorie e sconfitte, ma non c’è stata una sconfitta del movimento operaio nel confronto con il capitalismo come potere diretto. C’è stata invece una sconfitta attraverso la democrazia, dell’universalismo democratico che aboliva le differenze di classe. Quando Carl Schmitt ha parlato della democrazia, soprattutto nelle importanti pagine di Dottrina della costituzione, dice che la democrazia è il principio di identità. La democrazia è per natura identitaria. La democrazia è nemica della differenza. Questo il pensiero femminile lo ha capito molto bene e ha rappresentato uno degli spunti più avanzati di critica della democrazia, soprattutto quella parte di femminismo che ha puntato sull’idea e sulla pratica della differenza. Perché la democrazia è identità; non è masse ma è massa, è massificazione.

E la democrazia ha una dimensione fortemente quantitativa. In questo è molto vicina all’economia. Economia e democrazia hanno in comune questa dimensione quantitativa della vita. Della vita reale, dell’esistenza. È il quanto dove il quale scompare, non ha più nessuna presenza e consistenza. Quindi, la democrazia in questo caso è veramente organica al capitalismo, molto più di quanto non lo fossero il liberalismo o la tradizione liberale, o anche la tradizione individualistica del liberalismo. Non è vero che la cifra vera del capitalismo è l’individuo. Semmai questo lo poteva dire chi ha vissuto il capitalismo dell’Ottocento. Ma chi ha vissuto il Novecento e ne ha colto l’esito finale, post-novecentesco del capitalismo, ha colto come non è l’individuo l’elemento centrale della società capitalistica ma proprio la massa, la massificazione, l’individuo massificato. Che quantitativamente produce, quantitativamente consuma, quantitativamente scambia. La cifra del capitalismo è la quantità. C’è allora un rapporto molto stretto tra democrazia e capitalismo, forse la forma del capitalismo democratico ne è la forma matura e conclusiva. Di nuovo, appunto, quella forma che va dall’America all’Europa. Per cui la qualità è anticapitalistica.

Ragionando su come riproporre una lotta per l’egemonia, per l’egemonia culturale, come lotta politica, vado dicendo che bisogna declinarla nella lotta tra qualità e quantità. Dobbiamo essere insomma i paladini del quale contro il quanto. Come si declina l’egemonia culturale capitalistica oggi? In due modi: quanti soldi hai, quanti voti hai. Queste due cose sono estremamente organiche tra loro. Si conteggia. Il calcolo è la cifra di definizione della società e della società in cui viviamo. Voi guardate il luogo che dovrebbe essere il luogo della politica per eccellenza, il governo politico di una nazione: che cosa fanno tutto il giorno questi signori? Stanno sempre lì a fare i conti, con il tono dei ragionieri: queste sono le entrate e queste le uscite, questo è il debito, bisogna rientrare dal debito, allora bisogna tassare di qua o di là. Tutto il giorno lo passano in questo modo. L’Europa politica non è altro che un gruppo di persone che dice: «attenzione, siete usciti, dovete rientrare nel debito…». Questo è il primato dell’economia, il primato della quantità.

Come facciamo a staccare l’idea e la pratica di democrazia da questo principio, che è un principio assoluto? A proposito di democrazia assoluta, intendo un principio di maggioranza. Io mi chiedo sempre: perché questo principio è così assoluto? Perché se la maggioranza decide una cosa, quella è la cosa giusta? Non c’è alcun nesso tra queste due cose: la maggioranza decide la cosa sbagliata, come quasi sempre avviene, essendo una maggioranza massificata dentro un certo ordine, ordinata quindi dentro un sistema di consenso. Insomma, oggi la democrazia è un principio di maggioranza, così come quando diciamo socialismo è la proprietà statale dei mezzi di produzione. Ecco perché oggi dire un’altra democrazia, come dire un altro socialismo, non è più possibile. Proprio su questo si è persa quella lotta per l’egemonia che era la sostanza della lotta di classe, perché le classi lottavano su questo terreno dell’egemonia, su chi aveva la maggior forza di convinzione. Ma nel momento in cui le maggioranze non possono essere spostate, che si fa? Qual è infatti lo spostamento possibile della maggioranza?

Ad esempio, c’è l’illusione di fare una critica del capitalismo attraverso l’espansione della democrazia, indirizzo che si è rivelato a un certo punto una grande tesi revisionista (il primo che l’ha elaborata è stato Bernstein). Si pensava che, man mano che si fosse sviluppata, la democrazia politica sarebbe dovuta diventare incompatibile con una forma capitalistica di produzione e di scambio. Questa prospettiva è risultata del tutto impraticabile. Il principio della democrazia «una testa un voto», che si ripropone come cardine della democrazia politica, è ciò che l’esperienza della rivoluzione operaia ha subito criticato. Lenin e i bolscevichi pensavano all’inizio, anche se poi non sono riusciti a praticarla, che la cosa più corretta fosse eliminare il principio «una testa un voto». Infatti in alcuni esperimenti dicevano: il voto dell’operaio vale tre e quello del contadino vale uno. Questo principio sostanzialmente antidemocratico corrispondeva di più alla realtà delle cose, e alla possibilità di cambiare le cose stesse. Nel momento in cui si accetta «una testa un voto», la prospettiva rivoluzionaria cade. Non solo oggi, ma questo è avvenuto sempre nel passato dei sistemi politici capitalisti. Pensate a un referendum che chiedesse «volete abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione?»: avrebbe la maggioranza dei consensi? Evidentemente no. Questo per dire che acquisire la pratica democratica è dichiarare chiuso il processo rivoluzionario. Non c’è possibilità, a meno di non considerare la democrazia come si è fatto in alcune parti del movimento operaio, ovvero come il terreno più avanzato di lotta per cambiare le leggi di sistema. Più favorevole della forma totalitaria, del sistema dove la lotta politica, non essendo praticabile in modo aperto, diventava più difficile. Qual era la soluzione? In alcuni partiti comunisti era il tema della doppiezza: assumiamo il terreno democratico come terreno più favorevole; diciamo che siamo per i sistemi democratici ma non perché la democrazia sia un valore universale, ma solo perché è il terreno più favorevole in cui proporre il superamento del capitalismo organizzando masse e lotte di massa. Al di fuori della doppiezza, la democrazia non è utilizzabile.

Dobbiamo ragionare su un passaggio fondamentale: da classe a popolo. C’è un passaggio teorico che possiamo solo accennare, è da approfondire. Questo passaggio implica anche quello da popolo a classe: in fondo la classe operaia ha un’origine di popolo. Noi, durante l’esperienza operaista, abbiamo detto che la classe operaia aveva avuto questa grande importanza perché si era emancipata dal popolo. Era diventata qualche cosa di più di popolo, era classe sociale. Anche se poi si è verificato esattamente l’opposto: la classe che si è emancipata dal popolo è stata reintegrata e reinclusa nel popolo. E quello che era stato il passaggio da popolo a classe si è ridefinito come un passaggio da classe a popolo. Il popolo che precedeva la classe era una forma sociale ancora di base, mentre questo popolo che vince dopo la lotta di classe è un popolo politico, proprio della sovranità popolare.

Se riteniamo giusta la tesi di Carl Schmitt secondo cui tutti i concetti politici moderni sono concetti teologici secolarizzati, allora ci possiamo chiedere: che cosa secolarizza la democrazia? Questo è un tema teorico specifico. Secondo me la democrazia politica secolarizza il concetto di popolo di Dio. Concetto antico, del primo testamento, il popolo scelto da Dio per una missione salvifica. Tutte cose e inflessioni che ritrovate molto organiche alla democrazia americana. Non solo a quella di oggi, di Bush e dei neocons, ma alla democrazia americana così come è sorta. Non è un caso che negli americani ci sia questo Dio sempre in mezzo, nella costituzione come nel discorso del presidente. Deriva da lì, dalla commistione tra religione e politica che è implicita nella pratica e idea della democrazia americana. Perché il popolo americano è il popolo di Dio, che lo ha scelto perché civilizzi il mondo ed esporti ovunque questa civiltà. È il popolo eletto, che produce attraverso le forme della democrazia e delle primarie. Questo è il rapporto diretto che si stabilisce tra i cittadini e il potere, una forma immediatistica, non diretta ma immediata: è dentro questo processo che il popolo parla, dando direttamente l’investitura al capo, il qual capo poi si incarica di una missione che deriva dal mandato popolare. Quindi tutto torna, nel senso che il popolo di Dio è il popolo democratico.

Per concludere, che cosa comporta questo? Una cosa anzitutto. Noi dobbiamo abbandonare una volta per tutte il principio di maggioranza. In questa forma sociale, nel criterio politico che noi preferiamo, cioè nel rapporto nemico-amico, la maggioranza è il nemico. Noi dobbiamo elaborare un pensiero non dico antidemocratico, perché ciò penderebbe pericolosamente dalla parte di soluzioni totalitarie che sono già state viste: ma un pensiero non democratico, a-democratico. Un pensiero che non sia un pensiero politico democratico. E bisogna riproporre una grande teoria della minoranza: una teoria politica di questa come minoranza agente, una minoranza centrale. Una minoranza non marginale. È possibile la centralità politica di una minoranza? Io penso di sì, perché la ricavo da un modello all’interno della nostra formazione e del percorso che abbiamo fatto: un cammino con salti in avanti e passaggi che hanno negato quello precedente, ma sempre dentro una logica. E qui la logica del pensiero operaista c’è tutta. Perché la classe operaia era una minoranza. Noi combattevamo contro l’idea che essa fosse classe generale, classe universale. È la classe parziale. Nel momento in cui riconoscevamo alla classe operaia la sua parzialità riconoscevamo che era una minoranza. Anche se si fosse votato, nel momento in cui la classe operaia era centrale dal punto di vista sociale come di fatto allora era, anche allora nel contesto delle cosiddette maggioranze tutto il voto operaio compattamente inteso sarebbe stato un voto di minoranza rispetto all’insieme della società. La classe operaia era minoritaria dal punto di vista qualitativo, ma qualitativamente centrale. Tanto è vero che esprimeva politica, forma organizzata e cultura, appunto esercitava egemonia nella società seppure in una posizione di minoranza. Quindi classe non marginale, tanto meno emarginata. Nella grande autorità di presenza politica.

Qui c’è un ultimo passaggio teorico che bisognerebbe approfondire, e lo dico anzitutto a me che non l’ho ancora elaborato fino in fondo. Da un lato oggi dobbiamo contrapporre democrazia e libertà. Dobbiamo declinare la libertà in senso non democratico. E questo è possibile farlo in molti modi: perché se democrazia è opinione massificata, libertà è critica di tutto ciò che è. Ma, dall’altro, vi è un altro passaggio molto più delicato, tradizionale nel pensiero politico classico: il rapporto tra legittimità e legalità. Questa minoranza ha una sua sostanza di legittimità che non corrisponde, che alle volte è diversa dallo stesso concetto di legalità. Dobbiamo pensare la rivoluzione come una cosa che è legittima anche se non è legale. Dobbiamo rivendicare una legittimità senza legalità. È una cosa che attiene al tema del rapporto tra eccezione e ordine. La legalità è sempre il terreno dell’ordine, la legittimità nasce sempre dentro lo stato di eccezione, dove chi ha più forza di rivendicare la propria legittimità è chi decide nello stato di eccezione, che può dichiarare e far accettare a tutti che la sua rivendicazione è legittima anche se non è legale, dentro appunto le leggi dell’ordine esistente. Ecco, queste sono le cose che cerco.

Quella della democrazia e della critica alla democrazia è una frontiera che noi dobbiamo superare in un balzo, punto decisivo anche nello sviluppo del rapporto con il mondo che ci sta davanti e dentro cui noi siamo. Consideriamolo come un luogo di passaggio stretto, perché sono discorsi che non si possono fare dappertutto. Io li faccio con voi e non altrove. È giusto farli con voi, al vostro livello: a questo livello di pensiero ancora libero. Al di là di questo c’è un’opacità che non è che impedisca di fare questo discorso: semplicemente è un discorso che non si capisce, se lo fai in altri luoghi ti ritrovi occhi sbarrati. Insomma, mi raccomando di affrontare questo tema pulendo la testa da altre cose. Credo che sia un terreno molto proficuo, di scoperte possibili. Io ho detto solo alcune delle cose che stanno al di là di questa frontiera, ma ce ne sono molte altre. È un discorso che apre ad altre dimensioni e che vi raccomando di continuare.

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