In memoria e onore di Corrado Alunni (a cura di Sergio Bianchi)
Corrado Alunni nato a Roma, nel quartiere periferico di Centocelle, appena ventenne si trasferisce a Milano dove inizia a lavorare come impiegato alla Sit-siemens. Lì conosce Paola Besuschio, Pierluigi Zuffada e Mario Moretti. Aderisce alle Brigate rosse nella primavera del 1972. In precedenza aveva attraversato l’esperienza del Collettivo politico metropolitano da cui si era distaccato insieme a Mario Moretti per ritornare al lavoro politico in fabbrica. Nel 1974 lascia le Br per avvicinarsi all’area autonoma di «Rosso», dove contribuisce allo sviluppo del suo comparto organizzativo illegale. Dopo l’esperienza effimera delle Brigate comuniste, nell’estate del 1977, con altri scissionisti da «Rosso», dà vita alle Formazioni comuniste combattenti. Viene arrestato nel settembre del 1978 in via Negroli a Milano. Coinvolto nell’inchiesta Moro la sua foto segnaletica compare nella lista dei sospetti autori del sequestro diramata nei giorni successivi al 16 marzo. Nel 1980 prende parte con altri 15 detenuti, tra cui il nappista Emanuele Attimonelli e l’esponente della mala milanese Renato Vallazasca, a un clamoroso tentativo di evasione dal carcere di San Vittore a Milano. Ferito all’addome, quando era già in strada, viene soccorso da Vallanzasca che tornato indietro per aiutarlo viene colpito a sua volta. Nel 1987, nel corso del processo Moro ter nell’aula bunker di Rebibbia annuncia la propria dissociazione dalla lotta armata. Nel 1989 gli viene concessa la libertà vigilata. Si insedia in un paese della provincia di Varese, dove risiede fino alla sua scomparsa. La documentazione qui pubblicata a suo riguardo si ferma all’anno 2000. Sarà nostra cura il recupero, se possibile, di altra documentazione relativa agli ultimi vent’anni della sua esistenza.
In questo omaggio si raccolgono testi di: Paolo Pozzi, tratti dal suo libro Insurrezione, DeriveApprodi, 2007; Teresa Zoni Zanetti, tratti dai suoi libri Rosso di Mària. L’educazione sentimentale di una bambina guerrigliera, DeriveApprodi, 1997 e Clandestina, DeriveApprodi 2000; Lanfranco Caminiti, tratti da Fuga dal carcere. Le evasioni diventate Storia, DeriveApprodi, 2011; Corrado Alunni, in Clandestina, cit. e in La rapina in banca. Storia. Teoria. Pratica, DeriveApprodi 2003. Il testo di Corrado Alunni La mia formazione è una testimonianza rilasciata a Marco Clementi e Paolo Persichetti autori del libro Brigate rosse. Dalle fabbriche alla «campagna di primavera», DeriveApprodi 2017.
* * *
Carlo
Paolo Pozzi
Che palle, ogni volta che si fissa un appuntamento con questo, santo dio! Tu non puoi sapere dove sta, così se ti succede un contrattempo non puoi avvisarlo e ti tocca andare all’appuntamento lo stesso per dirgli che la tal cosa non si può più fare, che è saltata, che è rinviata eccetera. ’Sti clandestini.
– È naturale, mi dice Andrea. Un clandestino deve rispettare le norme di compartimentazione, così se succede qualcosa a lui non ci coinvolge, e viceversa. Del resto, se è ancora in libertà dopo quattro anni di clandestinità lo deve a questo comportamento.
– Ma dimmi, visto che abbiamo deciso di portarlo con noi a fare questo week end in montagna, non sarà un rompicazzo che si crede un padreterno perché è stato nelle Brigate rosse e fa la lotta armata?
– Stai tranquillo, è uno fin troppo modesto e se non lo sai non ti passa neanche per la mente chi è.
– Sarà, ma a me questi che vanno clandestini quando non li cerca nessuno mi sembrano marziani. E poi non arriva, io me ne vado.
– Aspetta, abbi pazienza, sarà qua in giro a dare un’occhiata alla situazione. Te l’ho detto che è uno scrupoloso. E poi ti deve vedere per forza se no quando scende con la corriera al paese come fa a riconoscerti?
Finalmente dall’altra parte della strada vedo un ragazzo alto, fermo al semaforo che guarda verso di noi. Ci raggiunge e mi porge la mano con un semplice: – Carlo.
Ce ne andiamo in un bar vicino a bere qualcosa. Al tavolo lo guardo di sottecchi. Eccolo qui, il famoso Carlo, penso. Quello che fa le rapine come mangiare noccioline. Non è neanche una gran bellezza.
Non sapendo bene cosa fare, data la mia timidezza congenita, comincio a parlare del modo con cui ci dovremo vedere nel paesino di montagna.
Fu così che feci la conoscenza di Carlo, nome di battaglia di un giovane operaio delle Sit Siemens, tra i fondatori delle Brigate rosse, che nel ’73 era passato alla clandestinità lasciando lavoro, amici, donne varie. Si era tenuto solo una fidanzata che per poterlo vedere si era mezza clandestinizzata anche lei. Era finito a vivere in un covo in una squallida periferia di Milano. Era poi uscito dalle Br nel ’75.
Per un anno tutti gli altri clandestini lo avevano scansato come un cane e lui era finito in un covo sommerso nella nebbia a Piacenza. Lì un giorno arrivarono i carabinieri per via di un lavandino che perdeva. La portinaia aveva chiamato l’idraulico e quando avevano aperto la porta per poco non gli prendeva un accidente a tutti. Armi dappertutto. Carlo era al mare con la fidanzata e prima di ritornare a casa aveva letto sul giornale che i carabinieri, non avendo trovato nessuno perché era Natale, si erano messi nell’appartamento ad aspettare.
Dopo un po’ uno che viveva con lui era tornato e se lo erano bevuto. Ma guarda se uno deve sfogliare i giornali per sapere se può tornare a casa sua.
Così mi ritrovo ad aspettare il primo e unico clandestino che ho conosciuto in vita mia alla stazione degli autobus in un meraviglioso paesino del Piemonte.
Carlo arriva il venerdì che si era stabilito, in compagnia di una ragazza neanche lei troppo bella. E lì cade il mio secondo stereotipo del clandestino. Infatti, nella mia testa bacata il clandestino doveva avere per forza donne bellissime, almeno come compenso alla vita di merda che faceva. Carlo è molto dolce e tenero con lei. Lei per nulla. Una di quelle donne di un’aggressività costante che i maschi li vorrebbe tutti morti.
Carlo era stato informato da Andrea sul genere di persone che avrebbe incontrato e in quei pochi giorni si dimostra di una gentilezza squisita. Quell’aria da ragazzo, tra lo stupito e l’attonito, conquista un po’ tutti. Soprattutto chi non sapeva che quella era la prima volta dopo quattro anni che passava un fine settimana con più di una persona. Meraviglia tutti per la sua capacità manuale. Ripara una stufa a kerosene e due porte che non si chiudono bene. Dopo cena gioca a carte davanti al caminetto con grande abilità e fa letteralmente impazzire le donne presenti rivolgendosi loro con una dolcezza e un interesse senza fine, anche per le più piccole sciocchezze. Ascolta tutti oltre ogni misura ragionevole.
Per tre giorni passeggiamo per prati, visitiamo rifugi e paesetti da presepe. Il secondo giorno smette di andare in giro con la pistola infilata nella giacca e allora capisco che considera la situazione sotto controllo. Lentamente, la sua capacità di ascoltare e di capire fa breccia anche in me.
Ogni volta che ci si incontra in questi week end, Carlo arriva con un bagaglio di sensazioni, notizie, idee che aveva immagazzinato durante la settimana vedendo vari compagni, per la verità non molti, ma sempre un numero spropositato rispetto alla vita che aveva fatto per anni. È strano vedere un operaio come lui, rimasto chiuso per anni in un covo, che si apre a tutta una serie di problematiche sociali e culturali vastissime. Apprende tutto guardando e parlando. Pur continuando a vivere da clandestino e girare armato non ha nessuna delle manie per le armi tipiche dei militaristi. Per lui l’arma è semplicemente uno strumento di sopravvivenza. Con le armi provvede da anni al suo sostentamento. Va a far rapine come uno va a fine mese a ritirare lo stipendio. E ci mette la stessa tranquillità e ragionevolezza. Il suo modo di argomentare politico, le rare volte in cui parla a lungo, è elementare, tagliato con lo scalpello, di una semplicità disarmante ma insieme abbagliante, tanto da richiedere un lungo discorso per essere controbattuto. Per questo capita facilmente di rimanere subito affascinati. Comunque, ascoltare i suoi lunghi discorsi da cima a fondo è molto difficile. Si può ricostruire indirettamente il suo pensiero dalla descrizione di avvenimenti a cui è stato presente e dal suo modo di comportarsi in generale.
Naturalmente, a Milano deve rimettere su casa. Ci vogliono i soldi e il metodo è sempre lo stesso: andare a prenderli là dove stanno. Siccome è solo, per un paio di mesi si fa un ufficio postale dietro l’altro, tra cui, due volte un ufficio proprio sotto casa mia.
Un clandestino nel movimento
Paolo Pozzi
Quando, sul finire del ’75, Carlo è arrivato a Milano da Piacenza, certamente non poteva immaginare di finire in un’esperienza politica così totale da stravolgergli in poco tempo ogni certezza. Del resto, questa cosa è capitata a molti, anche a chi non ha, come lui, passato gli ultimi tre anni in un covo nella nebbia della Bassa.
Fatta sta che era arrivato a Milano solo come un cane, dopo che le Brigate rosse che aveva contribuito a fondare lo avevano isolato per via del suo strano discorso sul nuovo soggetto sociale. Carlo aveva osato, con il suo solito modo tra il pacato e il trasognato, di dire che forse gli operai delle grandi fabbriche non erano l’unico soggetto rivoluzionario. Cosa che per gli autonomi era scontata, ma che detta nelle Br, dove il marxismo leninismo dominava, era suonata come una gravissima bestemmia.
A Milano aveva dovuto metter su casa e per lui il metodo era sempre lo stesso: affittare un appartamento con un documento d’identità falso. Aveva dovuto anche cambiare il nome di battaglia, dato che i carabinieri dell’irruzione nel covo di Piacenza avevano trovato l’identità sotto cui si nascondeva.
Ma questo era stato solo l’inizio. Aveva bisogno di soldi e conosceva solo un modo oltre il salario: andare a prenderseli dove c’erano.
Certo è che, così isolato, non poteva andare avanti per molto.
La sua idea fissa era di rimettersi in contatto con quegli organismi di fabbrica da cui si era allontanato per andare clandestino tre anni prima. Nella sua testa quei gruppi di fabbrica che da anni avevano portato avanti le lotte fuori dal sindacato e dai partiti riformisti erano la base di ogni possibile progetto rivoluzionario. L’organizzazione armata non poteva costituirsi a monte di quegli organismi, ma doveva essere una loro struttura di servizio.
Così, nella prima metà del ’76, ha cominciato a gironzolare per le assemblee degli organismi di fabbrica. Se ne stava lì, zitto zitto, a guardare tutto e tutti con i suoi grandi occhi stupiti. Non lo conosceva nessuno, e quei pochi ex compagni di fabbrica che anni prima avevano fatto politica con lui erano adesso un po’ perplessi sul dargli confidenza, dato che aveva scelto di fare il clandestino.
Nessuno aveva capito bene perché qualche anno prima questi erano spariti dal movimento, proprio nel momento in cui lo scontro di massa nei Consigli di fabbrica contro i riformisti del sindacato era apertissimo. Per fare cosa poi? Bruciare qualche macchina dei capireparto o sequestrare in piena lotta operaia il dirigente d’azienda di turno. Insomma, erano visti mica troppo bene.
Nei confronti di Carlo, però, c’era una certa comprensione. Aveva un passato di grande agitatore all’interno della sua fabbrica all’inizio degli anni Settanta. Anzi, i suoi ex compagni avevano tirato un sospiro di sollievo quando lo avevo rivisto in giro, soprattutto fuori dalle Br, e comunque nessuno si sarebbe tirato indietro nel dargli una mano.
Di Carlo, e degli altri operai e impiegati della Siemens passati in clandestinità agli inizi degli anni Settanta, mi aveva informato Vincenzo. Mi aveva detto delle grandi lotte del ’69, delle assemblee sindacali infuocate nelle quali lui e Carlo erano riusciti a mettere in discussione l’egemonia del sindacato. Poi dei cortei interni che spazzolavano reparti e uffici di capi, capetti, crumiri cacciati fuori dalla fabbrica a calci in culo. Dell’epica giornata, alla fine del contratto del ’73, quando Trentin e Carniti erano dovuti venire di persona nella fabbrica per cercare di placare il casino operaio contro l’abbandono sindacale della richieste egualitarie. Vincenzo, Carlo e altri, con i loro interventi in assemblea erano riusciti a far bocciare dagli operai il contratto firmato dal sindacato. Le parole usate da Vincenzo erano state così belle che da allora in tutta la fabbrica lo chiamavano «il poeta».
Ma nelle altre fabbriche non era andata così. Il sindacato era riuscito a far passare le sue svendite. Alcuni, tra cui Carlo, avevano tratto da quel fatto la convinzione che a livello sindacale non c’era più niente da fare e che si doveva incanalare la lotta operaia verso forme di lotta armata. E per Carlo la lotta armata richiedeva il partito. Così una sera, alla Siemens, alla fine di una riunione di operai e impiegati aveva salutato tutti come se doveva partire per un lungo viaggio. Si era licenziato e se ne era andato.
Vincenzo non si era mai dato pace per quella scelta, se la sentiva un po’ addosso. Così adesso, che Carlo era uscito dalle Br e si era rimesso a girare per Milano, non ci vedeva più dalla contentezza.
Ma intanto, in pochissimo tempo, i Collettivi operai erano cambiati. Non si occupavano più solo delle loro condizioni di fabbrica. Carlo si era ritrovato a girare in un mondo che non riconosceva più. Nelle riunioni si discuteva di tutto e di tutti. Soprattutto di argomenti non tradizionali, spesso fuori dagli schemi del marxismo. Vicini ai vecchi operai del ’69 contrattuale, del ’73 egualitario c’erano gruppi di giovani che portavano avanti una richiesta di politica totale. Soprattutto le donne, in maggioranza alla Siemens, si erano messe a lottare in forme che sconvolgevano ogni modo tradizionale di fare politica. Erano donne diverse da quelle delle lotte precedenti. E non solo Carlo, ma anche Vincenzo faceva fatica a capire, a star dietro ai loro discorsi. Arianna, Rosanna, Rita e le ultime assunte, facevano un discorso sullo strapotere del maschio, sia dirigente, che capo operaio o compagno operaio. A Vincenzo e a Carlo, questa storia che il maschio era comunque sempre padrone, dall’Agnelli all’ultimo operaio, sconvolgeva mica poco il cervello.
Il risultato è che adesso, nelle sedi dei Collettivi, un ex negozio della zona Fiera, ci sono discussioni furibonde. Quando le urla arrivano in cielo gli inquilini del piano di sopra battono il pavimento con i bastoni. Finite le riunioni di Collettivo cominciano le discussioni tra noi maschi che ci dividiamo tra filofemministi o meno. Ovviamente le maldicenze non finiscono mai, soprattutto sui maschi femministi, accusati dagli altri di esserlo per meglio fare il filo alle donne.
Ma nel Collettivo della Siemens, il massimo del casino ideologico è successo quando in seguito alla scissione di Lotta continua è arrivato un gruppo di omosessuali. Allora Rossano, detto Sole Rosso si è messo a gridare: – Per la madonna, va bene tutto, ma i culi no!
Una rapina da manuale
Paolo Pozzi
Carlo ci mette la perfezione quando fa le rapine, come gli artigiani che ritoccano in continuazione le loro opere. Ma quella rapina è stata un vero e proprio capolavoro.
Nell’ultimo periodo avevo visto Carlo molto indaffarato e più muto del solito. Ne avevo dedotto che stava architettando qualcosa. Di solito, in quelle circostanze, si chiudeva nel silenzio, come se studiasse ogni minimo dettaglio dell’azione. Io lo prendevo un po’ in giro dicendogli che quelli erano i suoi particolari esercizi spirituali. Poi usciva all’improvviso da quelle fasi di silenzio e tornava più ciarliero. Era il segnale che il lavoro era stato fatto e che tutto era andato bene.
Carlo non parla mai con nessuno delle azioni che fa. Anche in quel caso ha mantenuto il più assoluto riserbo. Ma a cose fatte il clamore si è diffuso.
Si è festeggiato con una cena favolosa a cui ha partecipato anche Carlo. La cosa è stata straordinaria. Mai si era spinto a un tale punto di temerarietà. Una cena in pubblico in un famoso ristorante di Milano è un po’ troppo per lui, così attento alla sua sicurezza personale e alle regole della compartimentazione. Eppure stavolta l’ha fatto, l’occasione è proprio eccezionale. Si festeggia una rapina a regola d’arte che Carlo ha fatto con un altro compagno.
La Cassa di Risparmio era situata di fronte a una caserma dei carabinieri e ciò rendeva proibitivo cercare di rapinarla. Un caso da scartare immediatamente nella casistica delle banche possibili. Però era un deposito molto ricco e Carlo ci doveva aver pensato da parecchio, probabilmente da anni. Era proprio tipico della sua intelligenza, che aveva caratteristiche squisitamente tecniche, pensare a casi in apparenza impossibili, per trovare poi con il tempo il punto dove attaccare. E alla fine lo ha trovato.
La banca rimaneva aperta il pomeriggio fino alle cinque. Non al pubblico, ma per gli impiegati che lavoravano all’interno. Si trattava quindi di trovare un modo per farsi aprire senza dare nell’occhio ai carabinieri. Dopo un periodo di appostamento si è scoperto che verso la fine dell’orario di lavoro un fattorino delle poste arrivava quasi giornalmente a consegnare e ritirare raccomandate. Carlo aveva finalmente trovato il punto debole per l’attacco, ora poteva dare sfogo alla sua creatività e lo ha fatto come mai gli era riuscito prima.
Innanzitutto si è messo a controllare l’uscita di ogni impiegato, e ne ha concluso che alle cinque meno un quarto, quando passava il fattorino, in banca ne rimaneva solo uno. Era quello il momento in cui entrare in azione. Ma, vista la vicinanza della caserma dei carabinieri, dovevano agire in pochissimi per non attirare l’attenzione. Ci voleva una persona molto fredda e tranquilla, e Carlo ha scelto quella che riteneva adeguata per quel ruolo.
Così, un pomeriggio alle cinque meno un quarto Carlo ha suonato il campanello della porta del retro della banca vestito da fattorino e l’impiegato che è andato a aprire ha trovato un fattorino molto particolare che, oltre alla borsa a tracolla, aveva anche una pistola in mano. Appena ha visto la porta aperta, anche l’altro compagno si è precipitato dentro la banca. Con calma hanno legato il povero impiegato a una sedia e Carlo si è messo a cercare il denaro. L’altro compagno è rimasto vicino alla porta in attesa del vero fattorino che è arrivato un attimo dopo e si è ritrovato legato e imbavagliato anche lui seduto vicino all’impiegato. Carlo ha ramazzato una quarantina di milioni. Ma il bello cominciava proprio allora.
Da quella cittadina c’era un viaggio di circa due ore per arrivare a Milano. Un tragitto che si poteva fare o in automobile, seguendo l’unica strada disponibile, o in treno, per una linea anch’essa a tragitto unico. Come andarsene quindi? I carabinieri avrebbero sicuramente avuto il tempo di fare posti di blocco e fermare l’unico trenino che scendeva a valle. Bisognava andarsene dalla banca senza dare nell’occhio e soprattutto fingere una via di fuga, rimanendo invece fermi sul posto. E qui Carlo ha avuto un colpo di genio. Lui e l’altro compagno si sono allontanati dalla banca con due motorini, come due signori che andavano a spasso per la provincia. In mattinata un’automobile rubata era stata piazzata in un paese vicino per far credere che i rapinatori erano arrivati con quella fino a lì e poi erano saliti sul trenino.
Si sono nascosti in una casa di compagni in un paesino vicino al luogo della rapina e dalla finestra hanno visto la caccia che si è scatenata verso le cinque e mezza, quando l’impiegato e il fattorino sono riusciti ad attirare l’attenzione di un passante e, liberati, hanno dato l’allarme. Due pantere dei carabinieri si sono fiondate alla stazioncina che era proprio di fronte alla casa che ospitava Carlo e il suo compagno, mentre lungo tutta la strada fino a Milano c’erano posti di blocco per intercettare i rapinatori.
Il mattino dopo, mischiati ai pendolari che scendevano a Milano, i due hanno preso il pullman delle sei e mezza e sono arrivati in città sani e salvi. I quaranta milioni e le armi sono arrivate a Milano in serata con il compagno del luogo che li aveva ospitati.
È stata un’impresa memorabile, anche se Carlo non se ne è mai vantato.
Nella bassa padana
Paolo Pozzi
Da dietro gli alberi in fondo al piazzale della stazione sbuca l’auto rubata, una Simca azzurrina con al volante Andrea e Carlo seduto vicino. Vengono da un paese a metà strada tra Bologna e Reggio, noi siamo scesi da un’ora alla stazione di Parma dal diretto Milano-Bari. In treno e nell’attesa Mo’ è stato insopportabile. – Guarda tu se quella testa di cazzo di Carlo doveva mollarmi ieri sera a Milano per andare con Andrea vicino a Bologna a prendere la macchina rubata. Che gli ho dovuto spiegare per mezz’ora dove l’avevo posteggiata! Speriamo che l’hanno trovata, perché se cercano di distinguerla dalla targa è un casino. Quelli di Bologna l’hanno sicuramente cambiata, come avevo lasciato detto. Francesco è un mostro nel sostituire le targhe. Si è fatto una macchinetta che fa le targhe false uguali spiccicate. Si interrompeva ogni tanto e guardava sbuffando fuori dal finestrino. – Dico io, ma si può essere più patacca di così. Mi tocca stare una notte a dormire a Milano, con quel figa di Ivano che parla, parla, parla e giù uno spino dietro l’altro. E io cazzo, mica gli posso dire che non posso fumare troppo perché oggi devo fare la rapa. Per dio, la facciamo funzionare o no questa compartimentazione? La settimana scorsa arrivo a Milano da Bologna e il Guido mi vede e mi fa: «Bel lavoro alla boutique». Al che io rimango di merda. Adesso glielo dico a Carlo, che ieri sera mi sono scordato. Io me ne stavo rannicchiato nell’angolo dello scompartimento di seconda. Sopra di me, sulla reticella, una borsa da tennis con dentro una lupara smontata, due pistole a tamburo e una automatica di piccolo calibro. Mi ero fissato che cadesse a ogni frenata del treno. – Oh bambulè, sei un po’ fuso oggi! A vederti nelle assemblee sei sveglio ma quando si va sei pensoso. – Senti Mo’, vedi di mollarmi, lasciami vivere, ho bisogno di stare concentrato. Ieri sera ho pure mangiato come uno stronzo in una trattoria di merda con Carlo mentre si davano gli ultimi ritocchi, e mi è rimasto sullo stomaco quel piatto micidiale di fagioli e salsiccia. Ma quando le chiudono queste trattorie di movimento? Quando finisce ’sta storia torno a casa e mi metto a letto fino a domani. – Ma a chi è venuta in mente questa idea folle che noi veniamo via dalla banca e andiamo a prendere il treno nel paesino verso Bologna? Prima di tutto si fermano solo gli accelerati, e poi i treni che arrivano con più frequenza dal lato di Bologna portano gli studenti delle scuole nelle varie cittadine di provenienza. – Lo sai che è tutto calcolato al millimetro. Il treno arriva alle due e mezza; noi usciamo dalla banca dieci minuti alle due. E alle due e qualcosa siamo sulla pensilina ad aspettare. – Bravo, fa Mo’ – ad aspettare come due patacca. Mezz’ora. – Ma le armi le portano via gli altri due, stai tranquillo. – Sì, ma a te mezz’ora ti pare un millimetro? Oh, stiamo mezz’ora, mezz’ora lì, fermi impalati! Magari ci siamo solo noi in quella stazione del cazzo. E poi con quello spolverino lì addosso sembri Dillinger che è morto. Ci tirano la rapa solo a vederci. – Mo’, sei una palla. Il piano l’ha fatto Carlo. È la sessantesima banca che fa, per me va bene. – Eh sì, intellettuale del cazzo, è sempre un problema storico. Ma qui ne basta una sbagliata, e non la si ripete più. La stazione di Parma arriva come una liberazione. Scendiamo. Mo’ compra il giornale locale. – Sempre comperare il giornale locale – dice sfogliandolo. Magari c’è una fiera proprio oggi con tutte le strade bloccate, magari proprio quelle che tu e Carlo vi siete viste l’altro ieri. – Senti Mo’, la fiera non c’è. È da dieci giorni che leggo la «Gazzetta di Parma» e so pure i morti in incidenti stradali avvenuti in questi giorni in zona. Oggi non c’è nessuna fiera e non rompere perché la via di fuga è perfetta, pure le cartine militari abbiamo consultato, io e Carlo. – E noi due come due patacca alla stazione. – Ma come puoi pensare di andare via tutti e quattro con la stessa macchina dopo il cambio? Quattro uomini per la via Emilia dopo una rapina. Bisogna essere proprio matti! – Ma lo sai cosa succede a noi se il treno arriva in ritardo? Prova a pensarci, intellettuale del cavolo! Il bigliettaio, magari insospettito da quello spolverino che ti ritrovi addosso, chiama i carabinieri e noi siamo pure disarmati, perché le armi le hanno portate via gli altri due. – Senti Mo’, è inutile che stai a rompere sui difetti del piano. Poi perché lo fai con me, e invece con Carlo non dici mai una parola? Lo spolverino è un regalo e me lo tengo. – Adesso pure i regali ci portiamo dietro; magari te l’ha dato la Carla che sarà tutta gasata per via che fai pure il rapinatore. La teoria e la prassi. – Non farmi incazzare, lo sai che non va bene prima delle azioni. L’altra volta per poco succedeva un casino della madonna. – Ma glielo hai detto o no alla Carla? A Milano non tiene la bocca chiusa nessuno, figurati tu. – Lo sai benissimo che non parlo con nessuno, e perché cazzo mi devi provocare prima dell’azione, chi credi di essere, Al Capone? Proprio tu che hai fatto un casino della madonna in quella rapa vicino a Vercelli. Se non era per Carlo che vi ha tirato fuori ancora eravate dentro la banca! – Hai saputo la storia? Insomma qui parlano tutti. – Mo’, non vorrai mica pretendere che almeno tra di noi quando si va in cerca di banche non si parli. Comunque io parlo solo con Carlo, che tanto se parla lui una più o una meno il prodotto non cambia, come si dice. Sprofondo nella lettura del giornale nei giardinetti della stazione in attesa di Carlo e Andrea. – Vedi che sei un patacca! Come si fa a leggere un giornale con lo spolverino bianco seduto su una panchina in un giardino dove siamo solo noi? Sembra che aspettiamo qualcuno. – Per la madonna, è chiaro che aspettiamo qualcuno no? Alla stazione cosa ci fa uno se non aspetta? E poi ’sta cavolo di borsa con le armi non posso tenerla mica sempre in mano. Mi si sta troncando il braccio dal peso. – Sì, proprio la borsa, si vede da un chilometro che c’è qualcosa dentro che ti preme. – Senti Mo’, voi militaristi del cazzo mi avete proprio rotto. Perché se ti preme una borsa ci devono essere per forza dentro delle armi? E poi parli proprio tu che al nostro primo appuntamento come segno di riconoscimento leggevi «Il Fiorino» alla stazione Nord di Milano! Te lo vedi il pendolare di Tradate che legge «Il Fiorino»? Con liberazione mi accorgo di Andrea al volante della Simca rubata che ci fa segno di salire. – Ragazzi che balle! Lo sapete – fa Carlo – che questo pirla a cui abbiamo rubato la macchina ha solo nastri di Orietta Berti. Da qui a Bologna ci siamo fatti due palle così. – A parte lo spaghetto – aggiunge Andrea – che ci siamo presi appena fuori Bologna quando abbiamo visto una pantera dei carabinieri che fermava le macchine una sì e una no, e la nostra è stata no. – Ma tanto le armi ce le avevamo noi – dice Mo’. – Bravo, ma io non mi chiamo mica Carlo come c’è scritto sulla carta d’identità. Comunque son già due volte che la carta d’identità regge ai controlli. – Ma a te chi te lo fa fare di andare in giro per rapine? Potresti stare un po’ più riguardato. E poi se ci prendono anche senza niente con te è un casino – gli dico. Carlo fa tutto un discorso che finisce così: – Qui siamo tutti uguali e io, lo sai, ho più esperienza in queste cose. Quando avremo un buon gruppo di gente che saprà fare le rape, io stai sicuro che smetto. Se pensi che questa è la mia sessantesima e non ho mai tenuto un soldo per me se non l’indispensabile per vivere... Carlo ha questa grande capacità di rendere tutto possibile e normale, ti porta dietro con lui come se si tratta di fare una passeggiata. Poi dopo ci ripensi e ti accorgi di aver fatto una rapina. Fuori Parma, sulla via Emilia, Carlo ricapitola e ci informa sulle ultime novità ed eventuali contrattempi. – Allora, dopo la rapa io e Andrea vi molliamo fuori dalla stazione del paesino vicino alla cittadina dove c’è la banca. Noi andiamo via fino al cambio. Lì lasciamo la macchina rubata e riprendiamo quella con cui siamo arrivati da Milano. Ci ho ripensato sulla storia di mollarvi alla stazione e francamente la cosa non mi va. Ma per andare via in quattro in macchina ce ne vorrebbero due di auto. Già mi piace poco la macchina che abbiamo lasciato un’ora fa nel paesino vicino alla banca. Qua la gente dei paesi nota tutto. Secondo me, se va veloce, la prima pantera dei carabinieri arriva un’ora dopo che noi siamo usciti con i soldi. L’unico problema è se incocciamo il pulmino dei carabinieri del paese nel venir via. I carabinieri della zona sono comunque così addormentati che prima che si rendano conto noi siamo a Piacenza. Comunque in questo caso non vi molliamo alla stazione ma vi portiamo in un’altra stazione molto lontana. Tornare in quattro a Milano con le armi e i soldi è un suicidio. Poi a voi senz’armi e soldi in una stazione chi vi dice un cazzo? La Simca corre veloce. Abbiamo abbandonato la via Emilia e giriamo da un po’ per le provinciali. Grandi campi seminati a grano e un po’ di platani qua e là ai fianchi delle strade. Ogni due o tre chilometri un caseificio. – Oh, qui fanno più formaggio grana di cristiani. Qui passano dal grana al grano direttamente. Del resto con quel che costa – fa Andrea. – Per me – dico – ’sta storia della rape non è una gran trovata. Perché non cominciamo a rubare formaggi e prosciutti? – Bravo e poi ci vai tu a rivendere la refurtiva. E poi il grana ce lo siamo presi negli espropri ai supermarket, ci servono i soldi e subito – la voce sgradevole di Mo’ si fa sentire da dietro la mia schiena. – Guarda Mo’ che mi hai proprio rotto, con quest’aria da tecnico logistico perenne. Se non fosse che andiamo a fare la rapa mi ci incazzerei proprio. – Quando ve la piantate? – ci rimprovera Carlo. – Ripassiamo i ruoli dentro la banca che mi sa che è più utile. Allora Carlo ricomincia per la trentesima volta in quella settimana, tante erano le volte che ci eravamo ripetuti la ricostruzione dell’irruzione da saperla a memoria. – Arriviamo nel paese. Andrea ci molla un po’ fuori dalla piazzetta sullo stradone con i platani. Io vado alla svelta dall’altra parte del paese a dare una guardata sulla via dove in fondo c’è la casermetta dei carabinieri. Voi rimanete all’imbocco della piazza. Io mi volto, mi tocco il cappello se il pulmino dei carabinieri è posteggiato fuori. Allora voi avanzate. Io arrivo ed entro in banca a dare un’occhiata, voi due contate fino a dieci e se non mi vedete tornare fuori, dentro. Parlo solo io. – Io – dice Mo’ – arrivo da destra, entro nella banca e con la pistola in mano tengo a bada gli impiegati. Mi faccio aprire il bancone sulla destra e metto tutti gli impiegati in fila e li chiudo nel cesso. Poi torno davanti al bancone. – Io invece, appena tutti hanno alzato le mani, salto il bancone e ramazzo tutti i soldi che posso. Guardo tutti i cassetti. Metto tutto nel sacco di cellofan e ritorno davanti. – Quando vi vedo uscire arrivo con la macchina a tutta birra e ce ne andiamo – conclude Andrea. – Prendo anche i miniassegni? – chiedo. – Bravo – fa Mo’ – poi ci vai tu in giro per Milano a spenderli i miniassegni delle banche locali. Carlo interviene duramente intuendo un nuovo litigio tra me e Mo’: – Adesso basta, siamo in zona e state zitti. Lo ripeto per la cinquantesima volta. L’unico problema sono i contrattempi. Tutti avete visto la banca. Io rimango vicino alla porta d’ingresso. Tutti quelli che nel caso entrano li dirotto nel cesso da Mo’. Se vedo gente in piazza usciamo da dietro. Decido io. Parlo solo io. Non voglio violenze, non servono a niente. Se entro e trovo un contrattempo me ne esco subito e voi invece di attraversare la piazzetta proseguite per i portici. Torno da Andrea e vi veniamo a prendere in fondo al paese. Dopo che sono entrato io, tu Andrea hai quattro minuti esatti per venirci a prendere. Se non ci trovi davanti ci cerchi con la macchina dietro la banca. Entra piano in paese. Se senti uno sparo arrivi a tutta birra e noi ci tiriamo fuori dalla banca da davanti. Usa il pompa sparando dal finestrino. Basta che sentono il rumore e vedrete che ci lasciano venir via. Le armi ve le tenete addosso fino a quando vi lasciamo in stazione, non si sa mai. Se ci vengono dietro, col pompa sparo io. Tu Andrea vai via a tavoletta e non te ne frega niente, solo della strada. Se ci vengono dietro, niente stazione e andiamo via tutti insieme. Si spara per aria tranne che con i carabinieri. Se un impiegato fa il pirla ci penso io. Né tu né Mo’ fate un cazzo, a meno che vi saltino addosso. Di solito va tutto liscio come l’olio. Il paese è ormai vicinissimo. Si vede il cartello di segnalazione stradale. Silenzio di tomba. Sorpassiamo il cartello. Andrea frena. Carlo, Mo’ e io scendiamo. – Mi raccomando, tenete le armi a portata di mano, ma che non si vedano. E veloci che siamo in ritardo – è l’ultima raccomandazione di Carlo. Poi se ne va a passo normale imboccando il corso del paese. Io e Mo’ ci fermiamo un attimo a guardare i cartelli del cinema, danno un film del cavolo. In fondo alla strada Carlo si tocca il cappello e si avvia spedito di ritorno. Lo vediamo attraversare la piazza e quando entra in banca noi siamo già all’imbocco. Noi piano piano, più o meno dieci secondi di quel passo per arrivare alla porta di vetro. Carlo non esce. – Dentro – dico.– Che fifa – fa Mo’ serio serio.Mo’ apre la porta di vetro con la sinistra ed entriamo con la rincorsa e le armi in pugno. Già Carlo sta salmodiando con la sua voce piatta e normale come se chiedesse l’indicazione della strada a un passante: – Questa è una rapina. Fermi tutti. Impiegati non fate i furbi. Non vale la pena morire per soldi non vostri. Tutti obbediscono prontamente. Gli impiegati alzano le mani e si mettono a trenino l’uno dietro l’altro, tanto che quando Mo’ li spinge nel cesso sembra che gli ha dato la carica. Io salto il bancone e ramazzo tutto quello che vedo di cartamoneta con addosso l’ossessione di lasciarmi dietro qualcosa. Con tutto quel vetro attorno sembra di essere in un acquario. Dopo aver chiuso gli impiegati Mo’ mi butta nella busta un po’ di soldi presi dalla cassaforte. La cosa mi fa un po’ incazzare, non è quello che deve fare lui. Ripulisco il resto della cassaforte. Tutto è finito. Giorni interi per quei pochi minuti quasi irreali. Nel frattempo entrano un signore e una signora che Carlo accoglie con gentilezza. Aprendo la porta dice – Prego –. E subito vengono chiusi nel cesso anche loro. Ma io e Mo’ quasi non ce ne accorgiamo. Poi Carlo vede qualche persona nella piazza e salta il bancone pure lui. È il segnale: si esce dal retro. Dietro la porta c’è una rampa di scale che scende dal secondo piano. Fuori l’auto non c’è. Ma arriva da vicino un colpo di clacson, è Andrea che sta arrivando. Apriamo gli sportelli e ci cacciamo dentro. – Per la madonna – dice Andrea. – Mi sono mosso a tre minuti, quasi un minuto prima. Andate come i siluri. – Sta zitto e guida – comanda Carlo. – Non è finita finché non siamo a casa. Prende il pompa e guarda dal finestrino posteriore. Non c’è anima viva. Poi la macchina ha uno sbandamento pauroso. – Che cazzo – fa Andrea. – Una macchia d’olio. Andrea, la cui abilità alla guida è leggendaria, riprende a fatica il controllo dell’auto. – Vedi tu, che sfiga morire di incidente stradale – dico. – Vuoi stare zitto. Fra un po’ vi molliamo alla stazione e lì parli quanto ti pare – mi risponde Carlo sempre più imperioso. Andrea guida da dio per quelle stradine di campagna. Dopo nemmeno dieci minuti siamo vicino alla stazione.– Mollate le armi, i soldi e saluti. Ci vediamo alle sei di questa sera al solito posto a Milano – ci dice Carlo.Io e Mo’ scendiamo. Carlo e Andrea ripartono con tutto verso il cambio macchina.Nella piazzetta c’è un deserto totale. Io e Mo’ ci guardiamo negli occhi che si dicono: «Che dio ce la mandi buona!». Entriamo in stazione. Il bigliettaio ci dà una squadrata da capo a fondo, da brivido. – Due biglietti per Bologna – dice Mo’, calcando sull’accento bolognese. Il tono della voce locale sembra tranquillizzare l’uomo. Ci troviamo sulla pensilina alle due e due minuti. Mancano
28 minuti all’accelerato. Auguri, ci diciamo dentro di noi.– Non cominciare ad andare avanti e indietro come uno stronzo – comincia Mo’. – Più stiamo fermi e meglio è. Ma si può avere addosso uno spolverino così?– Fammi il favore, stai zitto per un po’, se no mi tiri scemo come stamattina. – Ma che scemo e scemo. Lo sai qui come va a finire tra un po’? E non stare sempre a guardare dalla parte della biglietteria che quello sta lì e non smette un attimo di lumarci. – Senti Mo’, se hai deciso di portare sfiga, fai pure. Lascia stare però la faccenda dello spolverino. – Che balle con ’sta Carla. Ma cosa vi fa quella lì? Vi incanta a voi di Milano? Anche tu sei cotto come una pera. Già, poi a te più sono femministe e più ti piacciono. – Mo’, ma tu sei proprio tutto pirla. Ma che cazzo c’entra il femminismo? Poi non me lo ha regalato la Carla. Voi di Bologna è meglio che state zitti, lo sanno tutti che nel movimento a Bologna comandano le donne. – Ma chi vi dice queste stronzate? Dev’essere Carlo. Carlo sarà un mostro a livello militare, ma di donne non ci capisce niente. È stato tre anni chiuso in quel covo del cazzo nella nebbia che se vede due donne dà i numeri, e in più le sta anche a sentire. Vedessi tu che roba! Sta lì ore e ore il poveretto, tutto orecchi. ’Sti ex operai della grandi fabbriche di Milano sono strani. Vedessi che maschilisti quelli della Fiat quando andavo a volantinare con Potere operaio. L’unica cosa che sapevano fare era dare le pacche sul culo alle donne che vendevano il giornale. – Stendiamo un velo pietoso sulle tue storie amorose. Lo sanno tutti che Liliana ti gira e rigira come un guanto. Nella stazione c’è un silenzio di tomba. Ogni tanto il vento sbattacchia i fili della corrente elettrica. Il campanello che annuncia i treni è muto. – Io a Carlo gli spacco la faccia – dice Mo’. – Qui come due patacca! Accenditi un’altra sigaretta che è la quinta in un quarto d’ora. Così quello capisce che siamo anche nervosi. – Te, la vuoi piantare? A quello là non gliene importa niente. Noi lo sappiamo che abbiamo fatto la rapa, lui no. – Sì, finché non gli telefonano i carabinieri. – Oh, ma tu se non succede la sfiga, non ti va. Fammi il favore, stai zitto. – Ma che zitto. Parla. Bisogna parlare. Piazza su qualche discorso dei tuoi, quelli lunghi sul nuovo soggetto di classe, così all’uomo gli sembra che parliamo del più e del meno. – Ora arriva il treno, cinque minuti ed è qui. […]
Portare a casa i soldi, riportare a casa tutti
Corrado Alunni
Sul piano giudiziario mi hanno addebitato decine e decine di rapine in banca. Non ricordo precisamente quante. In quelle operazioni non ho mai cercato lo scontro a fuoco e per fortuna non mi è mai capitato di sparare un solo colpo.
All’inizio degli anni Settanta nessuno di noi, intendo dire nessun militante delle organizzazioni armate, aveva alcuna esperienza da rapinatore. Abbiamo cominciato a fare le rapine perché non intendevamo farci finanziare da alcuna realtà esterna. Dato che non eravamo esperti tutta l’organizzazione era concentrata su quel compito. Non c’era un criterio di selezione delle persone. In teoria tutti potevano e dovevano esercitare quella pratica. La rapina non era l’obiettivo principale dell’organizzazione, ma era indispensabile perché ne permetteva materialmente la sopravvivenza. Per una struttura come la nostra, nata sul principio teorico-strategico della clandestinità, non c’erano alternative: i soldi potevamo andarli a prendere solo dove stavano, e cioè in banca.
Però da qui nasceva il problema di inventarsi un modo, un metodo con cui tutti potenzialmente erano in grado di fare rapine. Esattamente come per il resto delle pratiche politiche, tutti dovevano essere in grado di fare tutto per evitare la creazione di specialismi. Partendo da zero ci siamo trovati quindi davanti alla necessità di progettare rapine alla portata di chi andava a farle per la prima volta.
Si trattava di ragionare nei termini di portare a casa i soldi e portare a casa la gente e di acquisire un minimo di scienza per realizzare questo obiettivo. Il nostro assillo era non perdere militanti. Non ci interessava l’eventuale problema di dover rivendicare che come organizzazione politica facevamo rapine in banca per finanziarci, non ce ne fregava niente di rivendicare la specifica rapina. La peggior cosa che poteva capitarci era perdere un militante in un’azione finalizzata al finanziamento, quindi la cosa di cui ci preoccupavamo di più era avere il massimo livello di sicurezza possibile. Più era meticolosa la preparazione più il rischio del conflitto a fuoco diminuiva. Da qui si è elaborata una metodica che partiva dalla logistica, cioè si pianificava l’azione secondo un principio di appropriazione del territorio in termini di conoscenza dettagliata delle sue caratteristiche. Conoscere lo scenario dentro il quale si compiva l’azione. Perlopiù si trattava di attaccare banche di provincia non particolarmente militarizzate. Insomma obiettivi facili. Era poi scrupolosissima la pianificazione della via di fuga e delle sue possibili alternative.
I nuclei operativi erano composti sia da chi era alla sua prima azione sia da chi nel frattempo aveva accumulato esperienza. La rapina in banca veniva quindi intesa come azione propedeutica a
qualsiasi azione futura, anche non necessariamente di finanziamento. Era insomma una delle forme di addestramento militare. Certo che era diverso prendere in considerazione l’ipotesi di cadere in una rapina piuttosto che in un’azione politica. Psicologicamente un conto era andare a dare quattro calci in culo a uno che dentro i rapporti di classe era socialmente riconosciuto come una merda e un altro era andare a prendere i soldi. L’obiettivo era di fare la rapina senza far del male a nessuno. Si cercava di non versare una sola goccia di sangue da nessuna parte e di andarsene con i soldi nella maniera più pulita possibile e, quel che contava ancora di più, con tutti i compagni e le compagne. Io mi sono sempre attenuto a questo tipo di metodo anche nello sviluppo delle cose nel corso degli anni. Il limite di questi obiettivi poco militarizzati e dei nostri scrupoli era che però si prendevano pochi soldi. E prendendo pochi soldi si dovevano moltiplicare le rapine. Questo portava a un grande investimento di tempo dedicato solo a quella pratica, a scapito delle finalità più propriamente politico-rivoluzionarie dell’organizzazione. Quindi, a un certo punto, ci si è posti il problema di fuoriuscire da questo meccanismo e immaginare rapine più sostanziose che risolvessero il problema del finanziamento per periodi più lunghi. Questo significava aumentare il rischio. Si è quindi passati a considerare quelli che si chiamavano espropri strategici. Affrontare una guardia armata può comportare il fatto che la devi far secca. Quindi, in questo quadro, il principio delle rapine di massa veniva meno e ci si doveva affidare a compagni che nel corso delle esperienze fatte potevano garantire al meglio il risultato dell’operazione. Le necessità di un clandestino sono prioritariamente avere una casa, mangiare, muoversi. Più clandestini ci sono più aumenta la necessità del budget. Più la struttura organizzativa è clandestinizzata più è alto il fabbisogno. Infatti, nella fase terminale, quando la repressione aveva imposto una clandestinizzazione di massa, le organizzazioni dovevano dedicare la maggior parte del proprio tempo a rapinare banche o comunque a fare espropri armati di vario tipo. La quantità di rapine in banca fatte dalle organizzazioni combattenti non sono quantificabili precisamente, ma sono sicuramente nell’ordine delle centinaia e la quantità di denaro rapinato è di miliardi e miliardi di lire d’allora. Ora sono aumentati molto la militarizzazione e i sistemi di sicurezza interni alle banche e nello spazio circostante, rendendo più rischiosa di allora la pratica della rapina e producendo il nuovo fenomeno del furto informatico. In quegli anni i flussi di denaro erano ancora prevalentemente quelli della liquidità, della carta moneta, diversamente da ora che il denaro è soprattutto virtuale. Bisogna poi sfatare il mito dei «basisti», cioè le persone interne alla banca che fornivano informazioni utili alla realizzazione delle rapine: è sicuramente capitato in qualche caso, ma non era assolutamente la norma. I basisti forse abbondavano di più nelle rapine fatte dalle bande malavitose, quelle che in gergo venivano chiamate «batterie». Le rapine fatte dai politici partivano dal presupposto della conoscenza territoriale. Però a volte capitava di partire dall’opposto: si individuavano zone non conosciute ma che si sapeva essere ricche. Ci si procurava le cartine militari particolareggiate, liberamente in vendita, di quella determinata zona e si studiavano strade e sentieri per le vie di fuga. Si passava poi praticamente alla ricognizione del territorio e della banca presa di mira. Si entrava con un qualsiasi pretesto, come farsi cambiare una banconota di grosso taglio in pezzi più piccoli e ci si guardava in giro accumulando informazioni. Il problema principale non era la rapina in sé ma la via di fuga, cioè come ce ne potevamo andare via evitando scontri a fuoco. Il programma della via di fuga doveva quindi considerare anche eventuali alternative, piani di emergenza, tenendo conto di eventuali imprevisti. In questo senso era di fondamentale importanza la presenza di un logistico in zona, come abitazioni di compagni o di semplici amici ecc. In genere la tempistica della preparazione era mediamente di quindici giorni. Per la buona riuscita dell’operazione, una funzione fondamentale e strategica era quella della persona (più raramente erano due) che durante la rapina svolgeva il ruolo di copertura all’esterno della banca. In genere era la stessa persona addetta alla guida dell’automobile, che doveva essere pronta a intervenire con un’arma lunga, in genere un fucile a pompa o una lupara. La funzione gerarchica c’era ed era basata sul criterio dell’esperienza accumulata, così come in ogni operazione militare. Una volta tornati a casa con i soldi, la ritualità era quella della festa, della cena, che incideva monetariamente in modo molto limitato. Quel che si festeggiava era soprattutto il fatto che si era lì tutti insieme, sani e salvi.
In sede
Teresa Zoni Zanetti
[…] La discussione si trascinava da settimane. Era arrivato anche Carlo, come il cacio sui maccheroni. «In sede, Carlo, sei sicuro?». «In sede, certo. Se volevo continuare a nascondermi, allora potevo stare e dov’ero! Tranquilli compagni, la sede è aperta a tutti, giusto, quindi può entrare chiunque no? E voi non siete tenuti a chiedere i documenti, giusto? «Tranquilli, voi non rischiate niente». «Cazzo c’entra Carlo, lo dicevamo per te, mica per noi. Tu ti senti sicuro?». «Voglio stare in mezzo ai compagni, perché non c’è protezione più sicura di quella della solidarietà, sapete?». Carlo era coraggioso. Portava in giro la sua fama da sbatti il mostro in prima pagina, i suoi maglioncini scoloriti e la sua solitudine di sempre con una grande umiltà. Aveva lasciato i birilli, i brigatisti, perché credeva che la chiave di volta della Rivoluzione fosse nel Movimento, prima che nell’operatività delle avanguardie. Fare un’azione era molto più semplice che non reggere una lotta. Organizzare un partito era molto più semplice che non un esercito. L’aveva sperimentato nella sua militanza e infine aveva scelto. Perché la partita era grossa, estesa, totale, globale, e poche avanguardie, per quanto intelligenti, brave e determinate, avrebbero potuto reggere lo scontro per qualche tempo, forse, ma non vincere. Era sconcertato per la miopia dei suoi ex compagni. A noi non aveva chiesto niente in cambio della sua esperienza, gli bastava il lampo nello sguardo dei compagni che per qualche motivo venivano a sapere chi era, gli bastava l’affetto che la sua scelta aveva scatenato come un terremoto, a parte tutte le motivazioni politiche. Noi meglio dei birilli? Minchia! Gli bastava essere lì in mezzo a noi, a dire, fare, brigare, in quella strana latitanza trasparente dentro il movimento. Carlo diceva la sua naturalmente, contento come una pasqua. Per lui la discussione poteva andare avanti per settimane, non si sarebbe stancato di sentirci, ascoltarci, castronerie comprese. C’era tanto di quel tempo per capire, per crescere, per scegliere. Certo che se per recuperare qualche baiaffa dovevamo stare lì a discutere dieci anni, se era meglio rubarla, prendersela, o comprarla, ragazzi, quando si sarebbe trattato di armare le masse, cosa ci sarebbe voluto, il cambio di era? […]
Marina
Teresa Zoni Zanetti
Driiin! «Oh cazzo, e chi è a quest’ora?». «Tata, ciao, sono Carlo... passavo di qui, volevo sapere come va con la macchina delle targhe». Era mezzanotte e mezza. Come cazzo faceva un clandestino a passare a quell’ora di notte, di lì, per caso? Tata sorrise vedendo Carlo giù in fondo alla strada, davanti al citofono, con la sua disperata solitudine, mentre le pantere e le gazzelle giravano incattivite con la sua foto sul cruscotto. «Vieni su, dài...». Carlo fece i sei piani di scale leggero, verso quei ragazzi e la loro tana su in alto, appiccicata al culo del cielo, come fosse l’ospite più atteso della festa. «Fate piano, la piccola dorme». Marina uscì leggera dalla stanzetta dove aveva messo a riposare tutti i suoi dispiaceri e la sua bimba. Si incrociarono sul corridoio, uno stupito quanto l’altra di trovare lì un coetaneo. Uno sguardo fiero tra compagni, uno sguardo perso tra fratelli in difficoltà, tutti e due in volo libero verso un futuro evanescente. Neanche il caffè forte e la compagnia allegra e assonnata che avevamo tenuto in serbo per loro servirono a tenerli ancorati a un’altitudine decente, attorno a quel nostro sgangherato tavolo di cucina, apparecchiato come per le grandi occasioni d’amicizia, d’amore e di notte fonda.
Tutte le carceri salteranno in aria
Teresa Zoni Zanetti
«Ti sei fatta male?». «No, per fortuna!». Carlo aveva afferrato Gloria per un braccio e l’aveva trattenuta con un gesto deciso. Non l’avesse fatto sarebbe precipitata da un tombino nel seminterrato. Sciuri-Sciuri si era fatto vicino in un lampo. «Gloria...». «Ma no, non è niente!». Nessuno fiatava. Erano già dentro il cerchio della mura, abbozzi di mura, probabilmente nel perimetro di quelli che sarebbero dovuti diventare gli uffici dell’amministrazione o la casamatta delle guardie o che ne so io, ma ancora fuori dal carcere vero e proprio. «Te la senti di entrare con noi? Altrimenti stai qui, e Sciuri- Sciuri resta con te». Uno scatto d’orgoglio si trasformò subito in rabbia. Irosa e spumeggiante, Gloria era da prendere con le pinze, non ci metteva niente a dire tutto quello che pensava, le sue uscite precipitose potevano colpire chiunque le capitasse a tiro. La vita la trapassava da parte a parte, in un tumulto di piacere e di rabbia. Femminista della prima ora, quella notte aveva dovuto rinunciare alle sue gonnellone colorate, che spesso faceva ruotare nel vento solo per far impazzire i compagni, ma nonostante i pantaloni era inciampata lo stesso. Gloria faceva fatica a prendere la misura delle cose, la sua natura sanguigna la portava a straripare, spesso per provocazione, per osare. Aveva affidato a noi, ai suoi compagni e alle sue compagne il corretto senso del limite. Lei ne era libera e per quello forse cadeva, a più riprese, come quella notte. Ma come per magia la fiducia piena che aveva nel suo collettivo le faceva trovare sempre un braccio pronto a trattenerla a un millimetro dal baratro. Fermarsi? Stare lì fuori? Neanche a parlarne! «Vengo con voi!». Carlo sorrise e le accarezzò la testa. Gloria sbuffò come un pony legato alla cavezza e tirò dritto, sorpassando addirittura con una scrollata dei bei riccioloni neri tutta la truppa in marcia. «Eccolo, il serbatoio del gas. C’è! Ed è proprio dove doveva essere. Carlo, Carlo, Carlo...». Lorenzo non stava più nella pelle. Le piantine avevano ragione. Piazzate le cariche attorno ai pilastri portanti c’era la possibilità concreta di danneggiare irreparabilmente quel carcere di merda, se solo fossimo riusciti a sfruttare quel deposito di gas come una carica di esplosivo, e che carica! Eccolo lì. L’avevano trovato. Bisognava solo allentare il rubinetto, in modo da creare con la perdita una piccola camera di scoppio nel locale caldaia, un buon detonatore a tempo e tutto si sarebbe sbriciolato in una polvere che il vento avrebbe spazzato via, piano piano, come fa con tutte le cose inutili. «Carlo, è qui!». I compagni si muovevano ormai come a casa loro. Erano entrati bene, a parte il volo di Gloria, ma quello era quasi scontato e perciò nessuno si era turbato più di tanto. Si sentivano, si sapevano, si muovevano alla luce della luna come fosse pieno giorno. Gli occhi abituati all’ombra, le narici abituate agli odori del cemento fresco e alle folate che giungevano fin lì con i profumi della campagna di notte, le orecchie ormai piene del rombo del silenzio alla periferia della città. «Carlo, chiamate Carlo, dài, è qui!». Piazzate cariche e detonatori, fatto un rapido giro di perlustrazione erano saltate fuori anche le chiavi di tutte le porte blindate delle future celle. «Questo sì che è culo! Prendiamole, così dovranno rifarle tutte, se questo bastardo resta in piedi». Ormai tutto era fatto, bisognava solo piazzare il dispositivo per innescare il serbatoio: Fatto tutto, finito tutto, i compagni erano tutti lì in attesa. Ci voleva Carlo, nessuno era in grado di innescare quel detonatore.
«Carlo… Cazzo! Dov’è Carlo?». Non si trovava. Ma prima che lo sconcerto generale prendesse il sopravvento un rumore delicato, una carezza ritmica su un muro li richiamò tutti in una piccola cella ancora senza porta blindata e senza inferriata, ma già con tutta la malinconia di un luogo di sofferenza. Carlo era lì, inginocchiato. Le sue mani sapienti stavano murando sotto il lavabo una piccola pistola, una 6,35 e due caricatori. Si girò verso i compagni, li guardò, un lampo di dolore nel buio della notte, un sorriso piccolo e sfinito. «È per dopo…», disse quasi con vergogna, la voce poco abituata all’emozione. Tirò su con il naso, passò la manica del giubbotto su quel suo pianto riservato e triste che non aveva diritto di essere lì quella notte. Si rialzò, improvvisamente stanco, diede un ultimo ostinato tocco alla pistola murata, li guardò tutti, per ritrovare il coraggio che per un attimo gli era sfuggito, scappato in avanti, inciampato su un futuro probabile. «Dov’è questo serbatoio?...».
La base
Teresa Zoni Zanetti
«Pronto?». «Pronto? Pronto?». «Pronto, scusami, ma non ho riconosciuto la voce, non è la casa di Gennaro? Cercavo Gennaro, ma tu chi sei?». «Ma no, stai tranquillo, cos’hai capito? Se Gennaro non c'è, fa niente... no, solo che volevo avvisarlo, avvisarvi... se io fossi in te, non ci starei molto in quella casa. È una casa del cazzo, ma non per colpa di Gennaro, intendiamoci... è che da lì ci sono passati tutti, cani e porci, troppo sputtanata...». «!?». «Dai retta a me, gambe in spalla, vecchio mio. Ti saluto». Clic. In un attimo Carlo mise il colpo in canna e tolse la sicura. Sguardi di rimbalzo alle pareti e ai pochi mobili. Non c’era tempo per prendere niente. Quella base era caduta e molto probabilmente era già caduto anche lui. Mille pensieri tutti insieme nella testa. Stop. Doveva andar via. Vacillò solo davanti alla porta d’uscita. Potevano essere lì dietro. Se lo avevano rintracciato, era molto probabile che lo avrebbero preferito morto. Sparavano nelle piazze rabbiosi. Quanti compagni inermi erano caduti nelle manifestazioni, nei caroselli della polizia? Chi si sarebbe scandalizzato se in uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine fosse stato ucciso il mostro numero uno a cui dava la caccia la polizia di mezza Italia, il colpevole di buona parte degli attentati terroristici degli ultimi tre anni? Aprì la porta con estrema prudenza. Aspettava gli ordini secchi del comandante dell’operazione. Un secondo, due secondi, tre secondi. Mise fuori la mano, poi il braccio, poi la spalla. Il silenzio che accompagnò la sua uscita sul pianerottolo gli sembrò così pieno da spaccargli la testa. L’androne deserto, dalla strada il solito brusio delle otto del mattino. Girò l’angolo e due isolati più in là si fermò ad accendersi una sigaretta. Tutta la vita che gli restava ancora da vivere, poca o tanta che fosse, gli corse incontro vestita a festa.
[…]
«Ma ci dovete proprio andare, Tata?» «Cosa vuol dire?». «Che potrebbero essere là ad aspettarvi. Carlo potrebbe essere stato avvertito chissà da chi, chissà perché. Ma adesso potrebbero essere là dentro ad aspettare gli altri». «Maria, ne abbiamo parlato tutta la notte. Non siamo sicuri di niente. Ma là dentro ci sono praticamente tutte le armi che abbiamo, e i documenti, e i soldi. No! non se ne parla più! Dobbiamo provarci! Al massimo ci arrestano, no?». «Ma quella telefonata? Con Carlo ci è andata di culo! Ma non lo sappiamo, non sappiamo un cazzo. E che possono essere dietro quella porta, ad aspettare. E vi possono ammazzare subito, così, in prima battuta, appena fate girare la chiave nella toppa. Non hanno certo bisogno di scuse gli sbirri per ammazzare i compagni, e voi gliene offrite una su un piatto d’argento!». Macché, non capivano un cazzo. Tutto il Comando non capiva un cazzo. Possibile che non ci fosse un’alternativa che salvaguardasse la vita e la libertà dei compagni? Andavo avanti e indietro nelle nostre due stanze come una pallina in un flipper. Giulia non fiatava. Tata ormai aveva altro da fare. L’unico che mi venne vicino fu Nico: «Stai tranquilla, ne abbiamo già parlato fin troppo. Non c’è altra soluzione. Se fai il rapporto fra i rischi che corri e i risultati che ottieni così come l’abbiamo pensata è la cosa migliore. Andiamo e veniamo!». Sguardo serio: «Anzi, vado e vengo!». Sguardo da furfante: «Alla fine abbiamo dovuto fare la conta perché volevamo andarci tutti e a tutti i costi... Dai Mària, è questione di un momento. E un blitz!». «Un cosa?». Nico arricciò il naso con aria scanzonata. Che razza di caporale potevo mai essere, dovevo proprio venir giù dalle montagne, oppure voleva proprio essere buono con me quella notte. L’angoscia era talmente densa da non farmi apprezzare più nemmeno l’ironia. «Un blitz, Mària, un blitz!». Fece un gesto strano con le mani, come un prestigiatore che estrae la sorpresa da un cappello magico, e sempre gesticolando mi prese per le spalle e mi strinse forte. Scherzava Nico, come sempre, cosciente che solo con la sua ironia avrebbe potuto vincere la scommessa di uscire vivo e libero dall’abisso di paura che si era aperto dietro la porta di una base caduta.
[…]
Quando, adesso? Nico starà girando le chiavi nella serratura. Quando, adesso? Tata giù in strada. E Luca dove sarà, adesso? Quella casa del cazzo. Era sembrata una benedizione quand’era arrivata. Dei compagni che dovevano stare via dall’Italia per un anno avevano lasciato le chiavi ad altri compagni, e questi ad altri ancora e poi ad altri ancora, fin quando erano arrivate in mano a Carlo, e lì si erano fermate. Tutti avevamo tirato il fiato. Carlo era Carlo. Inutile far finta che fosse come tutti gli altri. Era veramente un compagno di razza, aveva una marcia in più, soprattutto nella testa, come se i suoi occhi buoni e caldi, occhi da febbre, fossero in grado di fare un giro da 360 gradi e di cogliere tutto, ma proprio tutto quello che ci stava in mezzo. E poi era così ricercato che ormai lui stesso sentiva quasi come un imperativo del destino lo sfatare il mito della sua imprendibilità. «Ti giuro! L’ho visto prendere degli spiccioli dalla tasca per pagare le sigarette e tirare fuori dei colpi di 38 mischiati alle monete e cercare con pazienza le 50 lire. Con lì davanti il tabaccaio che ancora un po’ gli cadevano gli occhi». «E io allora? Non ci crederai, ma l’ho visto perdere per l’ennesima volta le sue lenti a contatto, e allora fermi tutti, nessuno cammini e lui che si tuffa sotto il tavolino della trattoria e tira fuori il cannone dalla cintola e lo appoggia lì sulla sedia, solo per essere più comodo nei movimenti». Gli aneddoti sulle tracce che ostentatamente seminava al suo passare come i sassolini di Pollicino per lo spauracchio della sua cattura ormai facevano parte dei nostri scongiuri contro la clandestinità e le sue catene maledette.
Fuga dal carcere
Lanfranco Caminiti
Corrado mi disse – guardami le spalle, se ci puntano, avvisami. Puntarci, quelli ci puntavano sempre. Il cortile del carcere era una fossa, e sopra c’era una specie di camminamento dove le guardie facevano avantindrè a controllarci. Però, ogni tanto si fermavano a parlare tra di loro – sa dio checcazzo si dicevano in sardo. Così, dissi a Corrado – È occhei. E lui si mise a grattare un muro del cortile. Con le unghie. Dopo un po’, venne e mi disse: C’è del salnitro. Dovevo aver fatto la faccia da ebete, perché aggiunse subito dopo: il salnitro esplode. Corrado – ci dico –ma quante tonnellate di intonaco di muro del carcere dobbiamo grattare per ricavarne dieci grammi di salnitro? Restò interdetto: Dici?
Però, Corrado a quello pensava: a come andarsene. Tempo dopo, a Palmi scrivemmo (mi pare ci fosse anche Gianfranco Faina e altri che non ricordo) il primo documento che rompeva «l’unità» dei detenuti politici dei carceri speciali – lo chiamai «preambolo», perché era il titolo di un documento di Forlani, e io ho di queste ironie qua. Chiedevamo di essere considerati «prigionieri di guerra»: volevamo una condizione particolare che riconoscesse il nostro status. Tutt’altra cosa dalle Br. E dicevamo che compito dei prigionieri di guerra fosse uno solo: evadere. Altro che le lotte dei «comitati» che dicevano le Br.
Corrado poi ci provò davvero a San Vittore. Ve lo racconto qui. Ciao, amico mio. E se ti capita di organizzare una fuga da lassù, porta i bravi ragazzi.
Nella primavera del 1980, Vallanzasca viene trasferito a Milano per il processo relativo al sequestro di Emanuela Trapani. Ne approfitta – il Centro clinico di San Vittore è considerato affidabile e di buon livello – per chiedere e ottenere un intervento chirurgico, relativo a una necrosi al gluteo sinistro. L’operazione nel complesso andrà bene. Poco tempo prima, si era fatto sistemare una fistola all’anca. Insomma, si sta prendendo cura del corpo acciaccato. Ma tra processo e intervento resterà a San Vittore almeno tre mesi. E a quel punto tanto vale dedicarsi al suo chiodo fisso, l’evasione. A Milano si sente a casa sua, tutta la sua vita di bandito è nata e cresciuta lì, ha tanti contatti e complicità. È il luogo giusto per tentare di organizzare la fuga, per provarci. Non è che abbia in mente un piano preciso. Il punto principale è come far entrare i cannoni dentro. Il resto verrà da sé. Vallanzasca non è uomo da perdersi nei dettagli.
San Vittore in quei giorni è davvero affollato. Non c’è solo tutta la banda Vallanzasca per il processo, ma ci stanno pure quelli di sinistra, come Corrado Alunni e Paolo Klun, e quelli di destra, come Concutelli. E poi i boss, i Turatello, i Medda, i Mirabella, tutta la mala milanese in grande spolvero, per questo o quel processo. L’allerta è alta e le perquisizioni continue. Pure le guardie sono sottoposte a controlli. Vallanzasca intanto il modo per far entrare le armi l’ha trovato: è una guardia carceraria che farà il lavoro. Ma questo gli dice che adesso non è proprio il momento. Bisogna aspettare, che la tensione si allenti, che i boss partano, che ci sia più routine. Vallanzasca aspetta. Dice ai suoi più fidati di partire tranquilli, che lui intanto farà entrare le armi. Al loro rientro sarà tutto pronto. Quelli partono. Vallanzasca resta, è convalescente.
Quando Antonio Colia, il suo braccio destro, torna per la prosecuzione del processo Trapani e viene messo in cella con lui, il piano è a buon punto, una pistola è già entrata ed è stata murata. Mentre i due, di sera, stanno cenando, la guardia passa e consegna le armi, così, tirandole fuori dalle tasche. I controlli si devono essere allentati davvero. Adesso le pistole sono tre e non ce ne saranno altre. Il processo si avvia verso la conclusione. È il momento giusto.
Il giorno fissato, Vallanzasca si limita ad avvisare gli altri detenuti del raggio di scendere al passeggio con le scarpe da tennis, che si sarebbe dovuto far baccano per una qualche protesta per via della loro posta che viene maltrattata. Era inutile dire del tentativo di fuga, quello che importava era portarli fuori. Solo pochissimi sanno come stanno davvero le cose: lui, Colia, Antonio Rossi, Domenico Giglio e Corrado Alunni. E Daniele Lattanzio. Lattanzio aveva una specialità: arrivava sempre in un carcere proprio quando si stava mettendo in piedi un’evasione. E anche stavolta capita così. Delle tre pistole, una andrà proprio a lui.
È l’ora del passeggio. Le guardie aprono le celle. Vallanzasca e Colia, con la scusa che sta uscendo il caffè, chiedono di scendere dopo, anche se la loro cella è la prima. Mentre scendono ad uno ad uno verso il passeggio, i detenuti vengono avvisati.
Il caffè è salito su. Vallanzasca chiede di uscire. Porta con sé la tazza di caffè. Porta pure il cannone, nascosto fra le palle. Va verso il brigadiere e gli chiede di venire giù al passeggio che c’è da parlare del problema della posta. Sa come prenderlo. Lo sfida. Gli chiede di aprire anche a Colia e di scendere assieme. Non avrà mica paura? Quello abbocca.
Tutti insieme, il brigadiere e Vallanzasca davanti, e Colia sul fondo con in mezzo le guardie, si avviano verso il piano terreno. Sono pochi gradini. Questo è il momento giusto.
Vallanzasca e Colia tirano fuori le armi, prendono le guardie come ostaggi, aprono i cancelli verso i passeggi dove stanno tutti gli altri detenuti. Spuntano dei coltelli, gli altri si armano come possono, con spranghe e oggetti che trovano. I detenuti al passeggio terranno sotto controllo le guardie, ne spogliano qualcuna per indossarne la divisa, Vallanzasca e Colia andranno avanti. Con il brigadiere, che minacciano di sfracelli perché sono pronti a tutto, si dovranno fare aprire i cancelli verso il portone di via Filangieri, l’uscita, la libertà. Il brigadiere capisce l’antifona, farà quel che gli è stato chiesto di fare.
Il terzetto si avvia. I cancelli si aprono uno dietro l’altro e ogni volta un’altra guardia in ostaggio. Ancora avanti, lasciandosi dietro il cancello aperto per quelli che verranno. Rimane l’ostacolo principale, il doppio cancello all’ingresso, dove regna sempre una gran confusione per l’arrivo e l’uscita di guardie e avvocati. Ma l’agente di servizio neanche li bada, li fa passare senza neppure pensarci. Ora c’è solo l’ultimo ostacolo, il piantone all’ingresso.
Lo prende alle spalle e lo tira dentro. È già disarmato di suo. Ha lasciato la pistola a casa, pesa troppo e gli dà fastidio. Vallanzasca mette la testa fuori dal portone.
Ci sono due auto dei carabinieri, sono la scorta di un giudice che è arrivato per interrogatori. Uno degli agenti è ancora al volante di un’auto, gli altri tre sono scesi e chiacchierano tra loro: bisogna aspettare che arrivino gli altri compagni di fuga, con un’arma soltanto non può affrontarli.
Vallanzasca esce dal carcere, attraversa la strada, si piazza a circa venti metri dalle auto dei carabinieri. Ha tutta la scena sotto controllo. Aspetta. Gli altri sono già arrivati in portineria ma indugiano: prendono chiunque entri, continuano a accumulare ostaggi. La situazione diventa insostenibile. Vallanzasca riattraversa la strada, li chiama per uscire. Servono armi di rinforzo. Si rimette fuori e aspetta.
All’improvviso sente un colpo. Viene da dentro. Uno dei carabinieri all’esterno alza la testa. È indeciso, forse ha sentito solo un rumore del traffico. Altri tre colpi. La frittata è fatta. Ora diventa dura.
I carabinieri capiscono quel che sta succedendo, iniziano a sgombrare la strada, persino a Vallanzasca che con il suo giubbotto elegante e il foulard al collo viene scambiato per un passante, intimano di spostarsi da lì, che è pericoloso.
Vallanzasca si riunisce ai suoi, prende un ostaggio e cerca di coprirsi la fuga. Quello è imbranato, impaurito, terrorizzato, inciampa, cade. Comincia il finimondo. Spari da tutte le parti. Vallanzasca scappa. I sedici detenuti sono ora tutti fuori, corrono all’impazzata di qua e di là. Qualcuno viene colpito, cade. Si sente il suono delle sirene, l’allarme è scattato subito, tra poco il carcere sarà tutto circondato e sarà l’inferno.
Gira l’angolo, si accorge che dall’altra parte, allo scoperto – dal muro di cinta stanno sparando –, c’è Alunni, gli grida di passare di qua. Alunni ci prova, perde tempo tra due automobili parcheggiate, lo beccano allo stomaco. Stramazza.
Arrivai che era appena caduto. Mi piegai su di lui e lo afferrai per un braccio; «Alzati, Corrado, dai che ce la facciamo». Lui si comprimeva il ventre con le mani, dimenandosi, perché poche ferite sono dolorose come quelle nello stomaco. Aveva la voce straziata: «Vai, non ce la faccio. Scappa e buona fortuna». Mi rialzai: «Okay, buona fortuna anche a te. Ci vediamo». Ma forse la frase non la finii neppure. Non so quale delle tre cose percepii per prima, se il carabiniere che a non più di sei metri puntava contro di me la pistola impugnandola con tutt’e due le mani, il colpo secco dell’arma, o la terrificante mazzata. Andai a sbattere contro il muro, ma rimasi in piedi. Avevo la testa che era una giostra. Tutto mi girava intorno vorticosamente. Ma, barcollando, ebbi ancora la forza di fare qualche metro. Avevo la sensazione che le montagne russe in cui mi sembrava si fosse trasformata la strada andavano spianandosi. Riuscivo anche a correre. Ripetevo a me stesso: «Dai, Renato, che ce la fai... ce la devi fare».
La mia formazione…
Corrado Alunni
La mia formazione è stata assai più pragmatica che ideologica. La frequentazione del Collettivo politico metropolitano (Cpm)avvenne a seguito della militanza nel Gruppi di studio della Sit-Siemens (Gds) dove lavoravo come impiegato dopo essere emigrato dalla periferia romana di centocelle. Il Gds ruotava intorno a una Comune frequentata – fra gli altri – dal gruppo dei trentini (Curcio, Cagol ecc.) i quali, insieme ad altri diedero vita al Cpm. Il dibattito si concentrò da subito sul tema dell’organizzazione della lotta armata, in contrapposizione con il «volontarismo» che caratterizzava gli altri gruppi della sinistra estrema su questo terreno. Il convegno di Costaferrata aveva lo scopo di definire le ipotesi da perseguire in un periodo segnato dalla strage di Milano, da insorgenze neofasciste e dalla persistenza di un forte movimento di classe. Personalmente non vi partecipai – se i ricordi non mi tradiscono – ma il Gds era rappresentato da Mario Moretti e altri e quindi venni al corrente delle ipotesi che si intendevano perseguire. Data la formazione «operaista», l’opzione superclandestina di Simioni era fuori dal mio orizzonte politico anche prendendo in considerazione eventuali derive autoritarie del quadro istituzionale. Altri si interessarono al riguardo e per qualche mese diedero vita a un «comitato di coordinamento».
In fabbrica di cose da fare ce n’erano fin troppe, se si pensa che dovevamo ancora fare i conti con le Commissioni interne-cinghie di trasmissione, con la cultura autoritaria e paternalistica, col cottimo, con gli infortuni dovuti ai ritmi ecc… e il movimento – sia quello operaio che quello della sinistra estrema – era ancora molto forte, per cui continuai la mia militanza in fabbrica senza un particolare interesse al riguardo.
Una svolta si ebbe nel dicembre del ’71: i gruppi avevano organizzato una manifestazione per il 12 dicembre per rivendicare la liberazione di Valpreda e denunciare la strage di piazza Fontana come strage di Stato (da notare che era stata fortissima l’attività di «controinformazione» nei due anni successivi alla strage). L’8 dicembre la Questura vietò il corteo mettendo tutti di fronte a delle scelte. Alcuni – il gruppo del Manifesto e Lotta continua – giunsero a un compromesso e tennero un comizio (consentito dalla questura), altri – in particolare Potere operaio – erano intenzionati ad affrontare lo scontro di piazza; la notte dell’11 dicembre ci fu una retata che portò all’arresto di parecchi militanti di Po che stavano preparando l’armamentario per gli scontri (molotov e quant’altro). In sostanza il divieto della Questura chiarì in modo netto che, o si costruiva un’organizzazione in grado di affrontare il terreno di scontro imposto, oppure diventava velleitario qualsiasi discorso sulla violenza proletaria.
Gli esiti del dibattito che scaturì da quella impasse del dicembre ’71 sono noti: 1) nacquero i «servizi d’ordine» (rivendicazione del diritto di essere in piazza e autodifesa da provocazioni poliziesche o neofasciste); 2) nacque l’idea del braccio armato, che avrebbe dovuto trasformare lo scontro di piazza in momento insurrezionale. 3) nacquero le Br – dopo l’abbandono dell’ipotesi Superclan – come primi nuclei organizzati interni agli ambiti di lotta nelle fabbriche e nei quartieri (era la fase della propaganda armata e della giustizia proletaria).
Personalmente aderii alle Br non nella primavera del ’71, ma in quella del ’72. Ma a questo punto credo di dover fare qualche commento:
a) sono convinto che i ricordi di quel periodo abbiano avuto il tempo di adattarsi agli esiti – che ciascuno ha stabilito siano stati – dell’esperienza fatta. Tutto ciò avviene/è avvenuto il più delle volte in totale buona fede, altre volte – per protagonismo, interesse o quant’altro – in malafede. È necessario, inoltre, fare una differenza fra la ricostruzione di un momento storico e i percorsi individuali dentro quel momento. Il primo comprende le storie di ciascuno ma non vi si appiattisce; b) c’è un’ulteriore distinguo da fare in relazione a quello che vi proponete («illustrare in modo critico il fatto che allora si tentassero strade differenti per uno stesso scopo di fondo, che era rappresentato dalla scelta di lotta armata») perché, se la pratica e l’auspicio della violenza proletaria fu un tratto comune a tutte le aggregazioni della sinistra rivoluzionaria dell’epoca (tanto che questo mi sembra un assioma più che un teorema da dimostrare), la «lotta armata» è una versione specifica del come, del quando e del perché della violenza proletaria. A partire dalla fine degli anni ’60 tutte le ipotesi al riguardo erano sul tappeto: da quella dei fochi guevaristi all’autodifesa dalle aggressioni poliziesche e neofasciste, dall’insurrezione alla lotta armata di lunga durata, e tutte sono state tentate o praticate;
c) rispetto ai racconti dietrologici di Franceschini e soci credo si tratti di ricordi/affermazioni addomesticate. Il periodo in questione è quello che la stampa ufficiale definiva «degli opposti estremismi» ed è logico (oltre che documentabile) che la Digos di allora e i servizi (il Sid) facessero bene attenzione a ciò che avveniva all’interno dei gruppi, a maggior ragione in quegli ambiti in cui il discorso sulla violenza proletaria si evolveva in ipotesi di lotta armata.
In altre parole: un conto è la volontà degli apparati dello stato di «giocare al deus ex machina» attraverso:
a) l’infiltrazione dei gruppi della sinistra;
b) lo sfruttamento della propensione alla violenza (verbale o meno) per creare allarme sociale e giustificare una svolta repressiva, quando non un colpo di stato come quello di Borghese e soci;
c) l’utilizzo dei gruppi neofascisti in chiave intimidatoria per provocare una reazione che permettesse la militarizzazione della piazza;
d) provocazioni di vario genere fino a perseguire la strategia stragista addossandone la responsabilità agli «opposti estremismi».
Altro è sostenere che in tutto o in parte la sinistra eversiva sia stata eterodiretta attraverso personaggi equivoci presenti al suo interno. Sarebbe un falso storico ai danni, non solo di due generazioni di militanti, ma della logica stessa degli avvenimenti.
Va detto, inoltre, che i partiti della sinistra ufficiale – Pci in testa – non erano esenti da preoccupazioni circa la tenuta delle istituzioni, soprattutto la parte più vicina alla tradizione della Resistenza – vedi il libro di Pietro Secchia La Resistenza accusa 1945-1973 – e ciò portava parecchi militanti del Pci a simpatizzare – o almeno a mantenere aperta la discussione – con i giovani della sinistra estrema.
Sinistra proletaria nel corso del ’71 – dopo l’uscita di Simioni – pubblicò alcuni numeri di «Nuova Resistenza» anche nel tentativo di dare continuità alla lotta partigiana nella realtà che si era venuta a creare in Italia e nel resto del mondo.
Tutto ciò per dire che non è verosimile che il Pci non fosse al corrente di cosa bolliva in pentola (d’altra parte in fabbrica, durante il periodo della «semiclandestinità» delle Brigate rosse il sindacato e i quadri del Pci dovevano avere ben pochi dubbi su chi potesse essere responsabile delle prime azioni.
Clandestinità
Corrado Alunni
La prima impressione che ho avuto leggendo Clandestina è stata che le vicende e i personaggi narrati – fra i quali ci sono anch’io – appartenessero a un’epoca lontana e romantica. Eppure vent’anni non sono un’eternità. È un tempo certamente lungo che può affievolire i ricordi e le passioni, ma non presentarsi come un abisso difficile da colmare perfino per chi è stato segnato profondamente da quelle vicende. I valori e le aspirazioni che ci muovevano non sono cambiati. Ci sono ancora. Li ritrovo dentro di me così come nei compagni con i quali ho condiviso quelle esperienze e con tanta altra gente con la quale condivido il presente. Ciò che credo sia radicalmente mutato è piuttosto l’orizzonte di possibilità in cui quelle aspirazioni si collocavano. Vent’anni fa la possibilità di trasformare il mondo sembrava tangibile, e quanto più la si desiderava, tanto più sembrava imminente. Oggi, quello stesso orizzonte sembra incomprensibile e inafferrabile. Il venir meno di quelle aspettative lascia un vuoto, percorso solo dall’eco della sconfitta. E in effetti la sconfitta c’è stata, almeno per coloro che stavano combattendo una guerra. Una sconfitta fatta di migliaia di anni di galera, di compagni morti ammazzati, di pentimenti, di disperazione, di rimorsi. Una sconfitta senza limiti, se si pensa che non ci è concesso nemmeno il ruolo di vinti ma solo quello di criminali, di reietti o di ricercati. Qualcuno ha voluto addirittura attribuire una relazione di causa-effetto fra la sconfitta dei gruppi armati e quella dei movimenti sociali, come se la prima avesse indotto o determinato l’altra. Secondo questa visione, da un lato vi erano i movimenti sociali di protesta e di liberazione, dall’altro le organizzazioni che con la loro pratica armata davano modo allo Stato di distendere tutto il suo apparato repressivo, non già contro loro stessi ma contro quei movimenti. In realtà – e oggi dovrebbe essere evidente – quello Stato, così come tutte le democrazie occidentali, stava attraversando un periodo di trasformazione radicale e trasferendo la sede delle decisioni reali dall’ambito democratico-parlamentare a quello esecutivo-amministrativo. Che i gruppi armati abbiano o meno fatto da paravento a questa trasformazione non è rilevante, semmai, al riguardo, bisognerebbe riflettere sul ruolo che ha avuto lo stragismo e l’incapacità (teorica? politica?) della sinistra istituzionale (ed extraistituzionale) di separare il terrorismo di Stato dalla violenza dei gruppi armati, senza rinunciare alle sue posizioni e iniziative critiche. Di fronte a tante responsabilità (spesso solo gettataci addosso) e delusioni, (queste sì, reali) verrebbe la tentazione di rimuovere il passato, di fare tabula rasa della memoria. E poi, dopo decine di processi penali passati a cercare di spiegare, di testimoniare le motivazioni del nostro agire, e dopo i fatti che ne sono conseguiti, chi ha voglia di mettersi a polemizzare con chi quei fatti e quelle motivazioni neanche conosce? Certo, in noi pesa anche la stanchezza, ma forse ciò che più conta è la consapevolezza dell’inutilità di difendersi da accuse false, o la consapevolezza dell’inutilità di cercare un qualche ruolo in un dibattito che si morde la coda. Semmai, ciò che ci può concretamente interessare è la sorte dei nostri compagni che ancora marciscono nelle galere, o vedere onorata la memoria di quelli morti. È il quadro fosco degli «anni di piombo», così come ci è stato consegnato dalla pubblicistica di Stato, e quel che manca è l’umanità di cui erano pieni quegli uomini e quelle donne che facevano scelte drammatiche con la morte nel cuore. Come, ad esempio, la clandestinità. Per quelli che, come me, avevano qualche anno in più di Mària e dei suoi compagni quella scelta proveniva da lontano. A partire dal ’68 molti fattori rendevano plausibile a un militante di sinistra la possibilità di doversi dare alla clandestinità: dall’allarme per il pericolo di un golpe al clima seguito alla strage di Piazza Fontana a Milano, dalle vicende dell’America Latina al desiderio di sentirsi vicini a tutti i popoli che combattevano contro l’imperialismo. E poi c’era anche la tradizione partigiana (soprattutto quella dei Gap, i Gruppi d’azione patriottica della Resistenza, tradizione che ben si adattava al nuovo contesto metropolitano) a suggerire possibili soluzioni operative ai gruppi che già allora credevano necessario affrontare la lotta con le armi. Successivamente, fino ad arrivare agli anni in cui si svolge la storia di Clandestina, molti dei motivi ideologici che avevano reso plausibile la scelta della clandestinità erano stati sostituiti dalle necessità organizzative delle formazioni armate definitivamente strutturate. Ormai era necessario disporre di militanti «a tempo pieno», e più ce n’erano più era necessario provvedere all’autofinanziamento (le rapine in banca) e alle strutture logistiche (case, automobili, documenti falsi ecc...). Paradossalmente, molto del tempo dei clandestini finiva per essere occupato dalla necessità di mantenere la loro clandestinità. A volte la clandestinità era dovuta alla necessità di non farsi arrestare, ossia era un’alternativa alla galera o all’esilio; altre volte, invece, era una scelta militante. In ogni caso essa comportava una separazione dall’ambito esistenziale e politico in cui era maturata quella scelta o quella necessità. Molte sono state le conseguenze di quella inevitabile separazione, sia sul terreno delle ipotesi politiche che su quello dell’umanità dei soggetti che l’hanno scelta o subita. In primo luogo bisogna sottolineare che la clandestinità, quando non era supportata da uno spessore individuale e dalla possibilità di vivere, sia pure indirettamente, la comunanza di lotta con i movimenti, poteva portare a un atteggiamento militarista, una sorta di gioco alla guerra che – quando il gioco finì – fu gravido di conseguenze sul terreno del «pentitismo». D’altra parte, al di là delle motivazioni ideologiche, il senso reale della militanza clandestina stava nel desiderio di cambiare la realtà nei luoghi di lavoro e di vita, proprio quell’ambito da cui ci si separava. Un tale sforzo di astrazione non poteva non lasciare tracce e produrre lacerazioni. E poi, come era possibile passare da un ambito sostanzialmente democratico – come erano le istanze del movimento – a quello burocratico di un’organizzazione militare con le sue regole e le sue gerarchie? Una delle preoccupazioni maggiori dei clandestini era quella di non essere strumentalizzati da decisioni prese da altri, anche se accanto a questo c’era, ovviamente, anche la consapevolezza della necessità di dover coniugare la democrazia con le necessità organizzative. A questo riguardo credo sia utile ricordare che, nel corso dei processi all’Autonomia organizzata (nello specifico in quello del 7 aprile), l’ipotesi accusatoria si basava proprio sull’esistenza di un progetto che prevedeva un «partito dell’insurrezione» accanto al quale sarebbe esistito un «braccio armato» che, separato organizzativamente dalle espressioni pubbliche, metteva in atto una pratica armata ispirata dagli «ideologici». Probabilmente una delle cause – sul terreno psicologico – del proliferare di «piccole bande armate» sul finire degli anni Settanta è proprio il tentativo (o la possibilità) di risolvere questa contraddizione nell’ambito del piccolo gruppo, dove tutti sono omogenei e corresponsabili, e dove la democrazia diretta si coniuga facilmente con le necessità organizzative. La figura dell’intellettuale separata da quella del combattente era ormai del tutto inaccettabile, apparteneva a un’altra epoca, a un’altra rivoluzione, a un’altra cultura. Una delle scommesse – spesso perse – di chi si avvicinava alla lotta armata era, semmai, la pretesa di ricomporre quella separazione, nella certezza che i soggetti fossero divenuti così ricchi da riunire nella loro militanza rivoluzionaria la separazione fra lavoro manuale e intellettuale tipica della società che volevano cambiare. Paradossalmente (?) la società di oggi sembra aver recepito questa, come altre critiche dei movimenti degli anni Settanta, generando figure produttive che riuniscono entrambi gli aspetti. Riuscire/provare a ricomporre questa separazione dava già un senso alle cose, un senso che gli sforzi di interpretare le trasformazioni della realtà sociale stentavano a dare. Tutto ciò, comunque, non servì ad arginare il pentitismo. Ripensando alle dimensioni di quel fenomeno – per altro proseguito negli anni con personaggi assai diversi, fino a far diventare il nostro paese una repubblica fondata sul pentitismo – viene da chiedersi se lo Stato abbia sviluppato tecniche persuasive particolarmente efficaci o se invece si sia trattato di soggetti psicologicamente deboli o spregevoli o scarsamente motivati. Cosa sicuramente vera, non solo in riferimento ai casi di tortura denunciati negli «anni di piombo» e quasi sempre archiviati, ma anche rispetto all’utilizzazione di un sistema scientifico di pressioni sui soggetti che vedevano/vedono come uniche alternative la morte (magari per mano di un ex «complice» tradito, o per suicidio) o la vita (quella del pentito che si redime denunciando i suoi ex compagni).In Clandestina è descritta anche la genesi di un pentito, o meglio di un caso particolare di pentitismo. (Più che di «pentito» si dovrebbe parlare di infiltrato, anche se gli atti processuali non hanno mai voluto darne conto). In genere, la decisione di collaborare è stata presa dagli interessati dopo l’arresto e dopo che l’insieme di pressioni psicofisiche attuate dagli inquirenti avevano dispiegato i loro effetti. In questo caso, invece, non ci fu neppure l’arresto, e la imprecisione nella militanza di ciascuno, soprattutto perché la teoria, i «passaggi», le forme di organizzazione, gli obiettivi da raggiungere erano tutti da inventare, e ogni tentativo di mutuarli dai classici o dalle rivoluzioni precedenti non poteva che tradursi in un disastro. Tutto ciò trasmetteva un senso di insicurezza e di precarietà, tanto che rifarsi a un modello che nella storia aveva già avuto la sua sistemazione teorica e il suo successo pratico diventava una tentazione irresistibile per molti. Il problema che si pose al momento della sconfitta fu per tutti reinterrogarsi sul modo in cui si intendeva la militanza, in che prospettiva, con quali esiti possibili. Ma precisiamo. Sconfitta nel senso che si viene catturati e che, da clandestini o da prigionieri, si perde il senso e la fiducia nel fare collettivo. Se, ad esempio, un militante – e ce n’erano molti – si immaginava che alla fine ci sarebbe stata una sorta di «presa del Palazzo d’inverno» da parte del movimento operaio con alla testa il partito armato, e poi invece, nel suo percorso si trovava di fronte la marcia dei «colletti bianchi di Torino» e la fine dell’occupazione operaia della Fiat, i suoi punti di riferimento erano destinati ad andare in crisi, e a maggior ragione li avrebbe persi se l’organizzazione di cui faceva parte avesse cominciato a teorizzare e praticare obiettivi diversi dai precedenti. Si potrebbe riassumere la questione con un vecchio adagio marxiano: «Il comunismo è l’inferno del presente e non il paradiso di domani», intendendo con questo che una militanza comunista dovrebbe misurarsi con le trasformazioni che riesce a produrre nella realtà quotidiana e non rispetto a un obiettivo (magari la presa del potere) da raggiungere in un vago futuro. Ricordo proprio Mària, la protagonista di Clandestina, che, vent’anni anni fa, mi chiedeva: «Ma come e quando finirà tutto questo (il cui de sac nel quale ci eravamo cacciati)?». Forse tutti insieme (magari nel momento cruciale del convegno di Bologna contro la repressione, nel settembre del 1977) avremmo potuto delineare un percorso che ci permettesse di uscirne in piedi, ma eravamo troppo pieni di certezze per comprendere quello che stava accadendo (e d’altronde non c’era proprio nessuno che lo comprendeva) e così ognuno tirava dalla propria parte una coperta che diventava sempre più stretta. Allora non sono riuscito (non c’è riuscito nessuno) a dare una risposta adeguata a quella domanda di Mària. Ma proprio la consapevolezza della nostra incapacità di definire un percorso verosimile, unito al desiderio insopprimibile di continuare – insieme, dal piccolo gruppo fino ai più lontani popoli in lotta – la ricerca di una trasformazione possibile, dà conto di come la sconfitta possa essere guardata in faccia senza perdere ideali o umanità. I «pentiti» scontano nei confronti degli altri ex militanti questo enorme scarto: la loro scelta di vita e i loro ideali erano reversibilili. L’irreversibilità non è da confondere con l’«irriducibilità» riferita ai compagni tuttora prigionieri nelle patrie galere. Questi ultimi continuano a ritenere giusta la loro militanza e/o ritengono inaccettabile giungere a qualsiasi mediazione, anche sul terreno giuridico-penale, come ad esempio l’utilizzo dei benefici previsti dalla legge Gozzini (anche se poi questa stessa legge – pur con tutte le critiche già ampiamente portate alle sue caratteristiche premiami – è frutto di una lotta durata anni da parte di tutti i detenuti e, in primo luogo, di quelli «politici»). Questa scelta è sicuramente da rispettare, ma non si tratta di ancorare alcuno alla visione del mondo propria di vent’anni fa, e nemmeno al metodo o ai riferimenti ideologici. Piuttosto, è necessario riconoscere a ciascuno la libertà (il dovere) di utilizzare la propria intelligenza nel modo migliore per perseguire nel presente quelle stesse (o quelle ancora più precise) attese di comunismo. È stato sufficiente che si verificassero le condizioni perché il meccanismo (la reversibilità) scattasse: la paura del carcere, la prospettiva di una vita segnata da una scelta rivelatasi troppo gravosa, il timore per la propria incolumità, la presa di coscienza (vera o falsa) dell’impossibilità delle proprie attese, magari un po’ d’invidia o di rancore per i compagni ancora in libertà, e poi qualche ceffone (o peggio!), l’isolamento, il magistrato intrigante e paterno, la mamma... Bastava cominciare con una piccola ammissione, un fatto, un nome, un soprannome e il gioco del ricatto era fatto: «Se non ti penti ti sbattiamo all’Asinara e ci pensano i tuoi compagni a sistemarti!». Superata quella soglia ci si dimenticava di chi erano i propri compagni e veniva alla mente un esercito di belve assetate di sangue. Quanto a quest’ultimo aspetto è innegabile che, a un certo punto, si è assistito a un imbarbarimento dei rapporti in carcere – a prevalere non poteva essere che il disprezzo, la vendetta o il settarismo – ma forse ancora più importante è stato il tentativo degli inquirenti di sfruttare questo stato d’animo manovrando la composizione dei detenuti in carcere in modo da creare il massimo di confusione e di tensione. E il nostro «pentito» infiltrato di Clandestina? Era tutto questo, ovviamente, ma forse in lui c’era anche un’irresistibile voglia di continuare a giocare alla guerra (anche se nelle vesti di «agente segreto al servizio di sua maestà», e perciò con buone chances di vincere... questa volta). Ho parlato spesso di sconfitta, ma credo che in conclusione vada fatta chiarezza su questo punto. Chi avrebbe vinto, allora? Certo che il panorama appare sconsolante: i vari segretari e leader dei partiti della cosiddetta «prima repubblica» sono scomparsi dalla scena con ignominia; la famigerata Democrazia cristiana e gli odiati riformisti del Partito comunista non ci sono più (almeno con i connotati di allora). In realtà, a essere sconfitto è stato il patto che ha governato la vita sociale e politica del nostro paese dal dopoguerra in poi, e con esso tutti gli attori e le relazioni che vi erano collegati: dai personaggi al governo da quarant’anni ai loro partiti fino alle loro relazioni clientelari; dall’opposizione istituzionale al suo apparato organizzativo e ideologico; dall’opposizione extraistituzionale con i suoi partitini giù giù fino ai gruppi armati e ai loro progetti rivoluzionari, È diventata irrealistica l’ipotesi di una rivoluzione politica, così come quella di un riformismo capace di regolamentare e dare un volto umano al capitalismo attraverso la socialdemocrazia o il socialismo reale. L’orizzonte di possibilità della rivoluzione, infatti, stava nella percezione (razionale o istintiva) del rapporto di forza fra movimenti antagonisti e Stato, del suo modificarsi in relazione alle lotte, alle rivendicazioni o alle iniziative soggettive. L’ipotesi riformista, da parte sua, aveva un senso solo nella capacità del suo apparato organizzativo, ideologico e sindacale di egemonizzare e mediare le spinte antagoniste in cambio di «welfare State» e di aumenti salariali compatibili con le esigenze dell’accumulazione di capitale, ossia aveva un senso nella contrattazione della ridistribuzione della ricchezza – sia dal punto di vista quantitativo che da quello qualitativo – in un orizzonte di piena occupazione. In altri termini è entrato definitivamente in crisi un modo storicamente determinato di accumulazione capitalistica, quello che a una maggiore estensione della sfera produttiva faceva seguire una riproduzione allargata del rapporto di lavoro salariato. Una crisi che ha determinato una sua nuova allocazione sia nello spazio (la globalizzazione) sia nel tempo che non è più quello di lavoro dell’operaio massa ma quello dell’intero vivere sociale. Oggi siamo già in un altro mondo, e l’orizzonte è indeterminato. Vivere in questa società è come navigare nel cyberspazio senza sapere dove andare, bombardati da un universo di immagini, suoni, notizie che rimandano le une alle altre in una ricorsività che cerca senso. L’unica certezza sembra quella a posteriori, cioè la risultante delle infinite spinte che confliggono e sospingono incessantemente il vivere sociale: l’intelligenza politica non sa e non cerca più di determinare la vicenda sociale e non è più in grado di affermare se stessa come un processo oggettivo che pretende dai soggetti comportamenti coerenti con la sua natura. Eppure è proprio in questa nuova realtà che già nascono dinamiche, rapporti sociali, comportamenti che ripropongono – in modo assolutamente diverso – l’antica contraddizione. Clandestina testimonia l’assurdità di quelle scelte drammatiche in questo nuovo orizzonte di senso, ma riporta anche una dimensione di umanità ricca di vicende che, alla generalità delle persone, sono note solo come «anni di piombo».
Prima immagine: Corrado Alunni e Maria Teresa Zoni durante l'udienza di un processo a Milano.
Seconda immagine: Parte delle armi rinvenute nella base di via Negroli a Milano dopo l'arresto di Corrado Alunni.
Comments