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Pensiero critico e ingiustizia del mondo

Sulla Scuola di Francoforte

 


Scuola di Francoforte
Gianni Politi, Quadro giallo - elite status, 2019

La teoria critica e la Scuola di Francoforte attraversano l’intero Novecento, dalla Repubblica di Weimar all’esplosione dei movimenti negli anni Sessanta e Settanta, passando per i fascismi e la guerra. Confrontandosi con un recente libro di Stuart Jeffries, Grand Hotel Abisso (EDT, 2023), Ruggero D’Alessandro analizza punti di forza e criticità della prospettiva francofortese, che possono forse essere riassunti dalle parole pronunciate da Adorno nel 1969: «Ho istituito un modello teorico di pensiero, come potevo immaginare che qualcuno lo avrebbe implementato con le bottiglie Molotov?».


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La teoria critica della società traversa molti decenni del Novecento: Repubblica di Weimar, fascismi europei, guerra, Shoah, fino all’esplosione dei movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta.

È caratterizzata da inequivocabili punti chiave:

  • visione del marxismo rinnovata da luce critica;

interesse per la psicoanalisi;

  • approccio multidisciplinare con la presenza nell’Institut für Sozialforschung (Istituto per la ricerca sociale) di Francoforte di filosofi e sociologi, economisti e politologi, geografi e letterati, musicologi e storici

  • condanna tanto del capitalismo occidentale che del dispotismo orientale/stalinismo

  • alcuni protagonisti adottano una metodologia che non mira a costruire un sistema rigoroso; si preferisce quella che Benjamin e Adorno chiamano «costellazione», arricchita di «messaggi in bottiglia» (Flaschenpost) da affidare all’oceano della comunicazione.


Quando la direzione dell’Institut è affidata nel 1930 al neo-cattedratico Max Horkheimer emerge il rapporto sofferto fra le componenti base della metodologia marxiana e marxista: teoria e prassi. Un pensiero troppo sganciato dal contatto con il reale rischia di smarrire il senso; d’altro canto, una realtà che condiziona la riflessione critica finisce per asservirla.

Si legge sgomento nelle parole pronunciate nel 1969 da Theodor Adorno:

 

Ho istituito un modello teorico di pensiero, come potevo immaginare che qualcuno lo avrebbe implementato con le bottiglie Molotov[1]?

 

Proprio nella turbolenta e imprevista stagione dei movimenti sociali di quegli anni emerge con chiarezza il privilegiare la sfera teorica da parte di una Scuola che nella società non vede alcuno spazio per accusare, tantomeno abbattere l’ordine costituito.

Jeffries ricorda alcune contraddizioni della «teoria critica della società»: dall’origine alto-borghese dei sodali a un Horkheimer duro con gli studenti contestatori e schierato con gli Stati Uniti nella guerra contro il Vietnam; fra Adorno spesso debole e incerto nelle posizioni da prendere e Marcuse ormai lontano da ciò che l’IfS è diventato; fino alla collaborazione nel 1942-45 di Marcuse, Neumann, Kircheimer con l’Oss – antesignano della Cia.

A fronte di questi aspetti troviamo punti di forza. Oltre ad arricchire la riflessione neo-marxista con apporti di psicoanalisi, psicologia sociale, sociologia, antropologia culturale, studi letterari, economia, oltre la critica inequivocabile alle dittature dell’Est Europa (v. Marcuse, Soviet Marxism, Harvard University Press, 1955), i francofortesi, come evidenzia Jeffries,

 

Si occuparono della nascita di quella che chiamarono «l’industria culturale» e da qui esplorarono una nuova relazione tra cultura e politica, nella quale la prima serviva da lacchè del capitalismo sebbene disponesse del potenziale, per lo più irrealizzato, di esserne il becchino[2].

 

Un capitolo a parte riguarda Walter Benjamin che si staglia anni dopo la tragica morte (1940) come il pensatore più originale e ricco d’interessi. Adorno e Hannah Arendt capiscono subito di avere a che fare con una figura geniale. Horkheimer, dal canto suo, non entrerà mai in sintonia con il pensatore berlinese; come accade nei primi anni Sessanta con Jürgen Habermas.

In queste occasioni appare evidente la dipendenza di Adorno dal capo indiscusso dell’Istituto: il risultato è la sua incapacità di prendere le difese di chi meriterebbe di far parte a pieno titolo della Scuola. L’autore della Dialettica negativa non troverà mai il coraggio di contestare la svolta conservatrice di Horkheimer.

L’arrivo in terra nordamericana mette a dura prova l’adattabilità dei teorici critici. Alcuni, come accennato, s’inseriscono assai bene nel Nuovo Mondo. Marcuse, Löwenthal e Neumann a guerra conclusa decidono di restare negli States.

Horkheimer e Adorno dal ’41 si trasferiscono in California. Da un lato decidono di pubblicare gli articoli della rivista dell’Istituto solo in tedesco – isolandosi in tal modo dalla comunità intellettuale newyorkese. Quanto ai riferimenti al marxismo in versione critica sono ormai messi da parte.

D’altro canto, i due teorici critici si dedicano fino al 1944 a un testo radicalmente critico del modello di capitalismo oligopolistico statunitense: La dialettica dell’illuminismo (in prima edizione ad Amsterdam, senza echi e con il titolo Dialettica dell’illuminismo). Il capitolo dedicato a quella che chiamano «industria culturale» fotografa con mix di lucidità e ironia la razionale irrazionalità dell’American way of life. Una realtà che si diffonderà in Europa dalla fine degli anni Cinquanta con il boom socio-economico.

Al rientro a fine anni Quaranta per Horkheimer si spiana la strada del successo accademico, fino al rettorato. Nel decennio Cinquanta ottiene anche un prestigioso insegnamento a Chicago per un paio di mesi l’anno.

Adorno fatica di più per ottenere l’ordinariato. Ma mostra una produzione prodigiosa in qualità, ricchezza d’interessi e quantità: oltre una ventina i titoli fra il 1950 e il ’69. Negli anni Sessanta non si contano i suoi interventi radiofonici, televisivi, sulla carta stampata.

Le cautele adottate dall’Istituto nel Nuovo Mondo si acuiscono con il rientro a casa. Gli studenti attorno al ’66-69 faticano a trovare i testi di trent’anni prima: il direttore prima di pensionarsi mette in soffitta i prestigiosi numeri della «Zeitschrift für Sozialforschung». Per tutto il decennio degli anni Trenta la rivista dell’Istituto rappresenta una palestra di pensiero radicale, coraggioso, anticonformista; capace di misurarsi con il pensiero filosofico e la riflessione politica, l’analisi economica e la ricerca sociale, un approccio originale alla psicoanalisi e la lettura di testi letterari alla luce della nuova società di massa.

Marcuse ricompare nel giugno 1967 partecipando all’affollato convegno sulla guerra in Vietnam organizzato dal Movimento studentesco (l’SDS di Rudi Dutschke e Hans Jürgen Krahl, con qualche incursione del franco-tedesco Daniel Cohn-Bendit, protagonista del Maggio parigino). L’autore del celebrato (eppur poco letto) L’uomo a una dimensione si schiera con simpatia per i ribelli, gli anticolonialisti, gli studenti, gli operai ancora dotati di coscienza di classe. Prende con forza le difese della studiosa e rivoluzionaria Angela Davis, laureatasi con lo stesso Marcuse, arrestata e processata per deliranti accuse di terrorismo.

La distanza con gli antichi sodali è ormai incolmabile: testimoniata dall’amichevole ma sofferta corrispondenza con «Teddy» (Adorno).

Habermas in un primo tempo accusa la sinistra extraparlamentare di fare il gioco della reazione antidemocratica. L’accusa che lancia agli studenti contestatori dev’essere piaciuta molto al reazionario Horkheimer: «fascisti di sinistra». Poi, vent’anni dopo ammetterà di aver esagerato sia con le parole che nell’analisi. Ma questa è un’altra storia.

Assieme ai volumi fondamentali di Martin Jay (L’immaginazione dialettica, 1973) e Rolf Wiggershaus (La Scuola di Francoforte, 1986), quello di Jeffries si caratterizza per una riconsiderazione acuta, mantenendo attenzione ai numerosi protagonisti e alle personalità più defilate (almeno una ventina gli studiosi che gravitano nei decenni della prima generazione dell’Istituto), sia nella brillantezza dello stile. Il sottotitolo «biografia avventurosa» in questo senso va letto come indiscutibile originalità dell’ampio volume. Jeffries si muove agilmente nel solco dell’ottima tradizione di studi biografici in tipico British style.



Note

[1] Stuart Jeffries, Grand Hotel Abisso. Biografia avventurosa della Scuola di Francoforte, EDT, Torino 2023, p. IX

[2] Jeffries, op. cit., p. XIX


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Ruggero D'Alessandro si occupa di sociologia e storia della cultura, politologia e storia contemporanea. Tiene lezioni in università di diversi paesi europei, tra cui l'Italia. Per DeriveApprodi ha pubblicato: Gioventù ribelle a Londra (2016), Gioventù ribelle a San Francisco (2018), L'Utopia possibile (2019).

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