Sull’utilità e il danno dei glossari[*]
Il testo che segue affronta una questione filosofica ed etico-politica non poco urgente. Nell'epoca di Google e Wikipedia, Squarcini segnala il carattere niente affatto neutro di glossari e definizioni. L'analisi di un caso centrale per il mondo contemporaneo, quello dello yoga, può servire da spunto per comprendere più a fondo una questione che penetra nel profondo l'economia della conoscenza digitale.
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«Ogni cosa ha il nome che merita» dice l’adagio del parlante convinto. Ognuna delle «cose» che questi vede e fa, pertanto, gli pare appartenga, da sé, a un preciso e ordinato regime di segni, il quale lo aiuta e invita a rintracciare e ribadire i contorni e i confini degli oggetti esistenti. Tutto, così, giace sereno al suo posto e la scena del mondo risulta ordinata. Per il colto parlante non c’è più nulla che sia solo e silente, ora che ogni cosa è debitamente abbinata al suo segno parente. Agli occhi di un tale adepto del nome, perciò, ogni cosa è al «suo posto» quando stanzia nel vano della parola che il posto gli regge, la quale è come il cappotto poggiato sullo schienale di una poltrona in platea. Senza che ne abbia alcuna contezza, le schiere dei nomi, che costui ha ingerito imparando a parlare, partecipano alla preservazione in vita dell’ordine dato e mantengono in fila l’inquieta folla delle cose scomposte. È il corpo del parlante il viale in cui le parole e le cose vanno sempre a braccetto, come marito e moglie: è lì «dentro» che l’uno tira l’altra, offrendosi vicendevole sostegno e amabile compagnia.
Al parlante istruito, insomma, la vita di coppia tra le parole e le cose risulta un «fatto» tanto normale quanto «naturale».
Della fama longeva di cui ha goduto un siffatto sodalizio tra single forniscono sonora e visiva riprova quei musei a cielo aperto che sono i glossari, i dizionari, i lessici, gli abbecedari e i vocabolari, i quali, in tutte le lingue e in tutti i tempi, sono serviti da archivio di stato per gli atti di matrimonio con cui un numero sterminato di oggetti è stato artificiosamente unito, mediante inscindibile «fatto pattizio», a una altrettanto numerosa schiera di segni e di suoni. In quanto cataloghi di parole «naturalmente» conformi alle cose esistenti, da secoli i glossari educano i parlanti a far proprie solo le cose debitamente dotate di un nome, abituandoli a lasciare da parte tutto ciò di cui non gli danno distinta notizia. Tant’è vero che, chiunque sia cresciuto all’ombra di uno dei tanti regimi di segni esistenti, non solo si sente in dovere di riportare le cose ignote e vacanti al cospetto del coniuge dato per noto, ma si rallegra e gioisce nel vedere che la loro «sacra alleanza» è così preservata. La forza del rispetto della consuetudine data trasforma i parlanti in guardiani del «contratto stipulato» dai propri antenati, facendo risultare loro talmente spontaneo l’atto di ricondurre gli oggetti raminghi e sfuggenti alla presenza del loro legittimo padrone da non sapere neppure di farlo.
Del concreto operare in sordina del patto suddetto fornisce palese testimonianza il modo in cui, attualmente, si parla e si pensa alle parole straniere, a maggior ragione se esotiche. Un esempio su tutti: il termine yoga e le «cose» che vi sono connesse. Ai nostri giorni, infatti, è esperienza comune, in quanto utenti passivi delle forme di solidarietà lessicale circolanti in seno all’imperio dei segni a cui siamo soggetti, ritrovarsi a usare parole «straniere» per indicare «cose» ormai divenute ordinarie, senza però avere pressoché alcuna contezza dei modi in cui i nomi, i significati e i «valori» che andiamo loro a mano a mano assegnando ci siano diventati così intimamente familiari. Lo spazio a noi circostante è zeppo di «cose» sensibili a cui siamo soliti riferirci, spontaneamente e sine cura, usando parole come āsana, mantra, agarbattī, yoga mat, masālā biryānī: ignari di com’è che tutto ciò accada, posando gli occhi sulla sagoma di un corpo seduto a gambe incrociate vediamo affiorare in noi la parola āsana; porgendo orecchio a una monotona nenia dal «sapore orientale» ci viene da dire mantra; prestando il naso ai fumi esotici che esalano da una bacchetta incendiata pensiamo sia dato dall’incenso chiamato agarbattī; poggiando le mani su di un sudaticcio tappeto di gomma di scarto veniamo avvisati che il suo «nome proprio» è yoga mat; palpeggiando con la lingua un boccone di riso speziato e piccante siamo indubitabilmente certi che si tratti di masālā biryānī.
In tutti questi casi, la forma della risposta che rivolgiamo allo stimolo sensibile proveniente dall’oggetto che colpisce uno dei nostri cinque sensi è conforme a delle informazioni di cui già siamo in possesso. L’anonimato delle cose sensibili, infatti, dura solo un istante, dopodiché, in automatico, il nostro sistema di riconoscimento le identifica e reifica. Tant’è vero che, in men che non si dica, l’oggetto inizialmente ignoto e latente diventa campione gregario del nome noto e a esso spettante: di tutte le cose, che si tratti di forme, di suoni, di odori, di spessori o di sapori sensibili, siamo soliti sapere non «cosa siano» ma «come si chiamano».
Niente di strano, verrebbe da dire, se non altro perché, abitualmente, il nostro rapporto sensibile con le «cose» e con le «parole» a esse rivolte si svolge sempre secondo siffatti dettami, ossia mediante procedure tanto automatiche quanto inavvertite, rispetto alle quali si presta ben poca attenzione. Tuttavia, colpisce comunque notare non solo che quanto suddetto accada in maniera del tutto inavvertita al parlante che vede, ascolta, annusa, tocca e gusta qualcosa, bensì che un siffatto processo lo tramuti, a sua insaputa, in una sorta di «glossario ambulante», il cui compito ascritto – come una prezzatrice che sputa etichette adesive – è quello di assegnare i nomi, i significati e i «valori» appropriati ai pezzi esibiti dalla merceria circostante. Colpisce soprattutto perché stiamo trattando di «cose» smaccatamente concrete, con cui entriamo in contatto e in relazione tramite i sensi e di cui siamo soliti credere di avere «esperienza diretta».
L’ingerenza dei nomi e delle parole continua a sembrarci cosa di poco conto e, in ultimo, del tutto trascurabile. Richiederebbe, peraltro, un notevole dispendio di energie e di attenzione mettere a fuoco, ogni volta, tutto il dettaglio del graduale dipanarsi del tragitto, contiguo e concomitante, che dal senso dato da uno stimolo porta al significato a questo assegnato. Vista però l’effettiva ingerenza che, a detta tanto degli antichi filosofi del linguaggio quanto degli odierni studiosi di linguistica e di semiotica, i nomi e le parole esercitano sull’articolazione delle nostre sensazioni, azioni e rappresentazioni, la posta in palio è troppo alta per lasciar cadere nell’ombra il problema fin qui descritto. Un problema che, per contro, può perfino rivelarsi fecondo, dal momento che permette di far sedere al medesimo tavolo di lavoro sia le antiche tradizioni degli specialisti dei «trattati di grammatica» (vyākaraṇaśāstra) e dei «teorici della parola» (śabdavādin) in lingua sanscrita (Graheli, 2020; Bronkhorst, 2019; Diaconescu, 2012), sia quelle della linguistica strutturale e della semiotica francofona dei nostri tempi.
Per tutti i parlanti assoggettati a una lingua, l’esperienza sensibile oscilla, senza tregua, tra il contatto con le cose da «significare» e il momento in cui vengono viste attraverso un «significato», al seguito del cui avvicendarsi ai parlanti risulta possibile dire e comprendere il «senso» e il «valore» proprio della cosa che hanno di fronte. Aspetti, questi ultimi, distinti e messi a tema fin dall’insegnamento di Saussure, per il quale il processo di «ricezione» e di «trasmissione» degli stimoli sensibili e delle risposte agli stessi è scandito da un andamento topologico e modale che attraversa, in immissione, i dominî fisico/fisiologico/psichico, e, in emissione, quelli psichico/fisiologico/fisico. L’iniziale posizione di Saussure in proposito è stata così riassunta:
Un atto di parole, come lo descrive Saussure, consiste di tre momenti: uno è «psichico», cioè il collegamento nel cervello di «un dato concetto» con «una corrispondente immagine acustica»; il secondo è «fisiologico»: «il cervello trasmette agli organi della fonazione un impulso correlativo alla immagine [acustica]»; il terzo è «puramente fisico»: «le onde sonore si propagano dalla bocca di A all’orecchio di B» (Saussure, 1922, p. 21). Il terzo momento è percepibile dall’udito; il secondo è percepibile dall’osservazione del movimento, dei nostri organi fonatori (lingua, labbra, eccetera); il primo è rilevabile strumentalmente, per esempio tramite le moderne tecniche di neuroimmagine, che registrano la nostra attività cerebrale quando emettiamo un certo suono, o una certa parola, o una certa frase (Graffi, 2019, p. 159).
Visti in quest’ottica, perciò, gli enormi depositi e repertori di nomi e vocaboli appresi dai parlanti rientrano a pieno titolo tra le condizioni stesse dei loro modi di percepire e valutare le relazioni con gli oggetti di cui fanno quotidiana esperienza sensibile. Mutano così, di conseguenza, anche il ruolo e le funzioni da assegnare ai repertori lessicali stessi, i quali, da utensili neutri e passivi a disposizione dell’utente, diventano strumenti condizionanti e fattori attivi dell’esperienza stessa del parlante, ora disposto e assoggettato dai e ai regimi delle agenzie politico-economiche che governano il conio e la diffusione dei modi dire in vigore al suo tempo.
Attraverso il progressivo apprendimento dei lemmi da dire, l’«animale loquace», come scrive Paolo Virno, viene abitato e «colonizzato» dalla lingua che parla e perciò distinto e distratto dall’ambiente sensibile in cui è immerso:
È il linguaggio verbale a imporci una relazione estrinseca con la nostra vita, il mondo che abitiamo, gli affetti da cui siamo colonizzati. Estrinseca, tale cioè da escludere la piena convergenza dei termini congiunti, è la relazione imbastita dal verbo «avere». La capacità di parlare fa sì che l’animale umano abbia (e non sia) un corpo, [abbia] un catalogo più o meno vasto di esperienze, [abbia] l’una o l’altra inclinazione sentimentale. L’uso dei segni linguistici genera quel distacco dall’ambiente [e dall’abitudine] circostante nel quale si radica l’avere, ossia il possesso di qualcosa con cui mai si collima e mai ci si immedesima. Il distacco in questione. è istituito, e confermato senza posa, dallo scarto tra senso e denotazione che caratterizza ogni locuzione (Virno, 2020, p. 28).
L’apprendimento delle parole e dei modi di dire comporta dunque conseguenze tutt’altro che marginali, a partire dal fatto che il parlante le impiega sia per qualificare le «cose» che dice di avere sia per indicare le «cose» che pensa di essere.
È questa la cifra biopolitica delle ragioni per cui, in tutte le lingue e in tutte le epoche, i glossari, i dizionari, i lessici e i vocabolari sono serviti da archivi normativi in cui ammassare, organizzare e conservare le risultanti «tipo-grafiche» di lunghi processi di codificazione segnica del reale, ora allestite sotto forma di cataloghi delle «parole» dicibili e pensabili. In quanto depositi di «cose disponibili», gli apparati di vocaboli e i dispositivi lessicografici – siano essi scritti e cartacei oppure detti e carnei – hanno svolto l’importante ruolo dei repertori mnestici dello scibile già noto per il cui tramite si istruiscono le nuove generazioni di parlanti in merito all’esistenza delle «cose» tanto «credibili» quanto «possibili».
Tant’è vero che, ancora oggi, ai più appare ovvio – e perfino dovuto – che siano proprio queste le sedi dove merita andare per farsi dare e dire parole che ne spiegano altre. Da secoli, quindi, è al «mulino del verbo» chiamato glossario che si rivolgono generazioni di parlanti, i quali, naturaliter, non dispongono di alcuna «farina» nel loro «sacco». Del resto, essendo sguarniti per sorte dei trucchi che svelano il senso dei segni cifrati, essi non hanno altra porta a cui andare a bussare. Come miseri mendici votati alla questua, i parlanti poveri di segni si recano dinnanzi alla soglia del ricco e corpulento glossario e, trepidanti, lo supplicano, mossi dalla speranza di riuscire finalmente a sapere cosa vogliono dire le parole che gli appaiono astratte. Stando lì in piedi, ossequioso e implorante, l’ignaro parlante assillato dai brucianti «dilemmi» del verbo interroga le «voci» del glossario di turno, sicché da ottenere parole che gli permettano di conoscere il contenuto di segni che, pur sembrando leggibili, continuano a restargli incompresi. Ed ecco che, posto il suo rebus, il glossario lo risolve, descritto il busillis, esso lo sbroglia, dato il groviglio questi lo scioglie.
È proprio in forza della loro utilità in sede di risoluzione dei dilemmi, delle incertezze e delle ambiguità di significato e di «valore» incontrate dai parlanti in combutta che gli apparati e i dispositivi lessicografici del passato venivano indicati mediante termini provenienti dal dominio economico, come nel caso del sanscrito kośa (che, oltre a indicare «custodia», «fodero», «vaso», «recipiente», «scatola», «contenitore», significa anche la «borsa delle monete» e il «forziere dei preziosi»), del latino thesaurus e del francese medievale trésor. Notevoli, infatti, le attestazioni di credito, merito, stima e onore riconosciute al genere letterario del glossario, tanto nel mediterraneo quanto in Sud Asia.
È il ripetersi nel tempo di siffatte attestazioni di credito e stima ad aver dato corpo all’immensa fortuna, fama e gloria di cui gode, da secoli, il sempiterno utensile del glossario. Un utensile di cui oggi si scrive la «storia globale», in forza del fatto che il suo ausilio, a partire dagli antichi lessici Nirukta e Amarakośa in lingua sanscrita, dai dizionari bilingue in cinese classico, oppure dai venti eruditi liber del glossario enciclopedico in lingua latina approntato da Isidoro di Siviglia, arrivando fino agli odierni pop-up delle didascalie da schermo digitale, è stato e continua a risultare necessario e indispensabile.
Ma il glossario non sempre si adopera per illustrare la natura composita e diastratica del significato, la quale finisce per restare nel buio. Non di rado, infatti, obbedendo al dettato che riduce in numeri l’ampiezza delle parole usate per illustrare i vocaboli, è il glossario stesso a stroncare la catena di risonanze che innerva la rete del senso, sebbene sia il primo a mostrarla e a sfruttarla per darsi a vedere. Per questo, nonostante il secolare credito di cui può vantarsi, il glossario rimane comunque uno strumento ambiguo e assai controverso, poiché esposto a vari rischi e palesemente macchiato da parecchi difetti congeniti, primo fra tutti quello di essere testimone e portavoce di istanze e interessi di parte.
È fin troppo ovvio, infatti, notare che l’insieme di parole, termini e nomi che un glossario raccoglie, allinea e ci spiega, sia sempre frutto di discutibile cèrnita, mediante la quale qualcuno, per le proprie «ragioni» – poco importa se nobili o grevi –, ha scelto e raccolto solo alcuni campioni dei tanti modi di dire e parlare delle cose del mondo. Nonostante si annunci come super partes, ogni glossario è sempre «figlio» della parziale visione fissata dai «padri», dei quali tutela il patrimonio di lemmi e tende a reiterarne il dettato, ribadendo così i patriarcali confini del campo (linguistico) solcato dai «progenitori». Stante l’intimo rapporto tra i modi di dire le cose e i modi di farle, il glossario funge da medium e garante del patto tra padri e figli, trasferendo nel corpo di quest’ultimi il sentire dei primi. Reiterando il dire già detto che il glossario trasmette, i neonati al parlare affondano nell’agone politico del dire consensualmente sensato, del dirsi d’accordo che permette l’intesa e dà corpo al «sentire comune», dando così ragione a chi pensa al «[…] linguaggio come organo biologico della prassi pubblica […]» (Virno, 2003, p. 32).
Da ciò deriva un secondo difetto dello strumento chiamato glossario, il quale, dovendo celare l’imbarazzo per l’arbitrarietà delle palesi ragioni patrimoniali che lo animano, non proferisce parola neppure rispetto al suo esser macchiato dall’inevitabile pecca della parzialità del repertorio di lemmi esibiti, che invece presenta come un computo perfetto, compiuto e completo, un opus operatum fatto e finito. Sicché, nonostante l’insieme dei modi di dire le cose sia evidentemente infinito, il gruppo finito di fogli di cui è fatto il glossario azzarda e si ostina a dire, «a chiare lettere», che di siffatta incalcolabile totalità è dato conoscere il numero certo e concluso.
Ne consegue poi un terzo, e più serio, motivo per cui il glossario è stato, e resta, un dispositivo informativo decisamente controverso, ossia il fatto che si approfitti dei deboli per mostrarsi potente. A ben vedere, infatti, l’ampiezza dell’alone di gloria che ammanta un glossario è direttamente proporzionale allo spessore della coltre d’ignoranza che ricopre i suoi utenti, i quali, dovendo per forza apprendere un sistema di segni già dati – e non certo innati –, non possono fare altro che appellarsi alla sua «indispensabile» guida. Come accade nel paese dei ciechi in cui l’orbo è sovrano, la gloria di ogni glossario si nutre e aumenta a fronte del persistere della condizione di minorità dei parlanti a cui si rivolge: è il loro impellente bisogno di imparare a dire «parole» formalmente precise e opportune – sicché da non perder la faccia – a dar corpo al consenso che innalza un glossario al ruolo «celeste» di guru degli erranti. Costoro, essendo obbligati a dotarsi dei modi di dire e pensare che li possono far apparire istruiti e conformi agli occhi degli altri parlanti, diventano sempre più proni e avvezzi al sapere formale e alle certezze soltanto di nome di cui il glossario li inonda. Quest’ultimo, altresì, fungendo da guardiano del campo (linguistico) e da pietra di paragone tra il «barbaro» e il «colto», riscuote sempre maggiore rispetto e stima, assurgendo all’àmbito e autorevole rango di «fonte del significato vero»: poiché «è così che dice il dizionario» ciò va inteso come l’«indiscutibile verdetto». Lo status di indiscutibilità di cui gode la parola data dai dizionari e dai glossari, però, non dipende né dalla loro qualità intrinseca – sempre emendabile e, perciò, soggetta a continua miglioria – né dall’arrogante autoreferenzialità dei loro redattori, bensì è tenuto in vita dall’irrimandabile esigenza di arbitrato che agita e turba i parlanti in contesa. Sono quest’ultimi a presumere, e perfino pretendere, l’esistenza dell’indiscutibilità del significato delle parole che si trovano a usare, seppur non si accorgano che ciò alimenta il perverso circolo vizioso del gioco linguistico. Ed è decisamente perverso ridursi a trarre profitto dalle lacune altrui per accrescere la fama e la gloria di chi le risolve.
Il quarto e ultimo difetto che pertiene e a cui è esposto ogni glossario è quello più grande e gravoso di tutti, poiché, come il treppiedi che regge la tela, è lo sfondo su cui poggiano, si delineano e intrecciano tutte le falle finora descritte. Un difetto macroscopicamente palese, che però resta ben celato dal candore dell’aulica veste in cui è avvolto l’istituto del glossario, il quale – se il suo estensore non prova più nessuna vergogna – non si fa alcuno scrupolo, né remora, nell’incarnare il gravoso ruolo del giudice giusto, il cui diktat risolve l’errore del dire. Tant’è vero che le sue fitte pagine, alla stregua dei Codex juris canonici, straripano di sentenze inappellabili e di sacrosanti verdetti, dei quali, però, non si mostrano gli atti. Del resto, non serve esibirli, dato che il lettore devoto si fida d’ufficio delle dotte parole dei puristi del verbo, sulla cui autorità non osa levare sospetto. Infatti, poiché già crede che nella legge non vi sia traccia d’inganno, quando è messo dinnanzi al glossario il parlante s’inchina, come se fosse sulla soglia di una cripta in cui sono esposte reliquie autentiche e intonse. Sarebbe, altresì, piuttosto blasfemo da parte sua, giunto di fronte a una sacra bacheca che accoglie e ostenta file di parole «eterne» – lì diligentemente ordinate e listate, «date» e dotate di senso a sé stante –, nutrire il dubbio che quei segni non siano altro che aridi fossili di organismi non più viventi, reperti afoni e inerti provenienti da uno scavo archeologico zeppo di oggetti sconnessi, ammennicoli insulsi rinchiusi dentro una mortifera urna per ossa in disuso. Scacciati da sé siffatti pensieri, e rimosso con forza lo scomodo dubbio dell’abuso d’ufficio, il parlante assetato di senso si abbevera fiero alla fonte senza macchia del glossario, affidandosi ciecamente alla «verità» delle sue mendaci parole, che però gli appaiono dire che le parole non sono affatto mendaci.
È questa la frode più grande che un glossario corre il rischio di commettere non esimendosi, per motivi di lucro, dal reiterare l’inganno del «significato a sé stante». Una frode che inizia proprio dallo strappare i vocaboli dal dominio topologico dell’uso – sia discorsivo sia sintattico-grammaticale – e dal riversarli, alla stregua di gelide salme, nei fossi e nei solchi tracciati da ordinati alfabeti, sicché da incantare e indurre in tentazione il lettore, istigandolo a credere che ognuno dei lemmi che vede listati in quel modo sia davvero dotato di un significato «proprio», univoco, che è lì, fermo, fisso, sospeso per aria, senza contesto, retto in sé stesso, chiaro, limpido, discreto e distinto.
A rischio di frode, perciò, sono tutti i glossari che avallano un così perverso criterio, poiché si fanno, volenti o nolenti, alleati del mito del contenuto senza espressione: una patente menzogna, che però spinge comunque a pensare che le parole e le cose siano davvero legate tra loro da un inviolabile «patto di natura», stipulato illo tempore, in un «mondo» estraneo alla vita e alla storia. Una menzogna insolente, poiché prova a negare proprio ciò che è sotto gli occhi di tutti.
Per siffatte ragioni, dal momento che l’impostura del dare e del prendere per ovvia l’univocità del significato non è solo dura a morire ma risorge e si invera ogni giorno – come segnala la nota resa latina dell’adagio di Ecclesiaste (1.10 [nihil sub sole novum]) –, al parlante occorre restare sveglio, allerta e guardingo, sicché da non ridursi a fungere da goffo paggio di corte, condannato a strimpellare, come un’oca giuliva, le nenie gradite al sovrano di turno. A costui, di contro, merita tenere seriamente di conto delle falle e dei difetti finora riassunti, così da evitare non solo di esserne vittima ignara – aspettandosi da un glossario qualcosa che non può né dare né dire –, ma, soprattutto, di perdere l’occasione di trarre profitto proprio dal medium che gli reca dolo e riuscire, così, a fare un buon uso di un cattivo affare.
Assai proficuo e concreto è il vantaggio derivante dall’avere effettiva contezza e dal prendere atto dei tanti rischi a cui si va incontro ogni volta che si presta eccessiva fiducia alle cose «precise» ed esposte «a chiare lettere» da un glossario: vantaggio che va ben oltre i guadagni che si traggono prestando ascolto a un invito alla prudenza o a un monito fine a sé stesso. Per il parlante che fluttua in un oceano di «cose» i cui nomi son tutti listati nel libro dei padri, infatti, è decisivo sapere com’è che queste sono state fatte e in quale fucina hanno preso la forma, sicché da rifarne la stima e avviarsi alla ripresa del conio. È solo al momento in cui rompe i sigilli e riapre i forzieri dei «valori» deposti che il parlante, se è sveglio, allerta e guardingo, si ritrova di fronte alla massa sorgiva della «valuta corrente», il cui metallo prezioso, se torna alla forgia, può ora riversarsi entro stampi e taglie più eque.
È questo il frutto proficuo che viene dall’avere contezza dei rischi legati al ripetere «cose già dette», il quale può dirsi tale poiché, alla stregua del motto «uomo avvisato, mezzo salvato», coincide con la ripresa del conio dei «nomi». Mettendo in mora i valori in vigore, infatti, le forme di vita da essi «ritratte» e «contrite» si sciolgono e tornano nuovamente vacanti, riaprendo la partita dell’uso. Quindi, rovesciando il rapporto di forza che subordinava l’uso concreto al «valore fissato», il parlante afferra le corna del toro del dire e torna a toccare con mano la salienza proveniente dalle cose in itinere, dallo sguardo d’insieme e dal vissuto patito in presenza.
Il reale itinerante ritrova così la sua eloquenza e riprende a essere «udibile».
Infatti, nello stesso modo in cui, stando in presenza del divampare di un fuoco ardente, a chiunque appare evidente che non può mai darsi «combustione» al di fuori della relazione incendiaria che unisce tra loro «combustibile» e «comburente», parimenti, prestando ascolto a un testo che scorre, risulta altrettanto lampante che non possono mai darsi frase, parola, sillaba o lettera che abbiano un senso e un significato a sé stante. Stando, per esempio, in presenza di parole come «pane», «cane», «ponte», «conte» (oppure, in sanscrito, sūtra, tantra, supta, tapta), infatti, anche il più sordo e fervente tra gli adepti del mito del contenuto dato e a sé stante vacilla, poiché si accorge da sé quanto difficile sia decidere se il significato di ognuna di esse venga dalla comune lettera «p» o «c», oppure dalle sillabe «ane» o «onte».
Insomma, per chiunque si trovi in presenza del modularsi del dire in itinere è del tutto evidente che ognuna delle sue singole parti vive di rendita e gode del mutuo soccorso, come peraltro insegna, da quasi cent’anni, la prospettiva cointensiva della glossematica di Louis Trolle Hjelmslev.
Per giunta, è proprio questa la verità elementare a cui danno voce gli stessi glossari, la cui architettura in rimandi palesa, primo tra tutti, il principio semiotico della concomitanza tra «significante» e «significato», «qualificante» e «qualificato» – ossia, stando al dire del lessico sanscrito, della loro «salienza per contatto» (saṃyoga), «mutua coincidenza» (saṃbandha), «conformazione» (sarūpa), «con-rispondenza» (anusāra) –, principio fondante e del quale aveva già chiara contezza non solo il celebre «glossofilo» della lingua sanscrita Bhartṛhari (400-500 d.C. circa), ma perfino gli autori dei primi trattati dedicati allo yoga. Autori che, in tutta evidenza, hanno fatto concretamente tesoro della messa in atto di tale principio e che ci danno buone ragioni per lasciare ad altri l’ingrato compito di trattare le parole come se fossero «oggetti» finiti o «concetti» conchiusi.
Attingendo ai patrimoni speculativi tramandati da tradizioni intellettuali come quelle appena citate, però, non si trovano solo motivi per abbandonare la facile tentazione della «definizione» concisa – che comunque finisce sempre con il rinchiudere i vocaboli entro lo spazio angusto della presuntuosa univocità del «significato letterale» –, bensì ci si trova di fronte a una più estesa concezione topologica della semiosi discorsiva. Una concezione che amplia ed espande l’alveo del processo di significazione, restituendo le singole «parole a sé stanti» al sistema di «correlazioni», «condensazioni», «commutazioni», «connessioni» (saṃyoga) e «coincidenze», «vincoli», «legami» (saṃbandha), da cui queste traggono la propria «sensata salienza». Una salienza che le parole non trovano certo in sé stesse, bensì mutuano, come risultante, dai rapporti di concomitanza, di interdefinizione, di alleanza e di contrarietà, di somiglianza e di differenza, che intrattengono con i vocaboli a esse limitrofi.
Ed ecco che il parlante, avvisato dei rischi e dei pericoli a cui lo espone il glossario e avvertito del principio semiotico della concomitanza, accede a un diverso modo di intendere le potenzialità degli strumenti e dei dispositivi con cui studia le parole. Questo mutamento d’assetto rivoluziona il suo rapporto con l’antico genere letterario del «glossario», il cui principale merito non è più quello di consentire all’allestimento di cataloghi statici di lemmi, quanto semmai di ambire a ritrarre, in maniera dinamica e vivace, l’andamento elastico e cointensivo della significazione in risonanza, fornendo così forma visibile al principio fondante del «reverbero in collisione», al quale, volenti o nolenti, obbediscono tutte le parole di tutte le lingue.
Note
[*] Una versione estesa di questo contributo è stata pubblicata come introduzione al volume Le parole dello yoga. Un glossario, a cura di M. Guagni, M. Ferrara, V. Ferrero, G. Pellegrini, F. Squarcini, I grandi manuali del Corriere della sera, Milano 2021, pp. 7-34; 255-276, con il titolo di Introduzione. Del buon uso dei glossari.
Bibliografia
J. Bronkhorst, A śabda reader. Language in classical Indian thought, Columbia University Press, New York 2019.
B. Diaconescu, Debating Verbal Cognition. The Theory of the Principal Qualificand (mukhyaviśeṣya) in Classical Indian Thought, Motilal Banarsidass, Delhi 2012
A. Graheli (a cura di), The Bloomsbury Research Handbook of Indian Philosophy of Language, Bloomsbury, London 2020.
G. Graffi, Breve storia della linguistica, Carocci, Roma 2019.
F. de Saussure, Cours de linguistique générale, Édition Payot, Paris 1922 (Corso di linguistica generale, trad. it. di T. De Mauro, Laterza, Roma-Bari 1983).
P. Virno, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
P. Virno, Avere. Sulla natura dell’animale loquace, Bollati Boringhieri, Torino 2020.
Immagine: Nanni Balestrini, Il mondo, 1965, collage su carta
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Federico Squarcini (1967) insegna Storia delle religioni all'Università Ca' Foscari di Venezia. Scrittore di numerosi saggi tra cui un’accuratissima edizione degli Yoga Sutra di Patanjali tradotta dal sanscrito con un commento storico-filologico e filosofico che ne cambia profondamente struttura e senso.
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