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Odio i fascisti. È bello dirlo



Odio i fascisti
Immagine: Khaled Houranis, Picasso in Palestine, 2011

Un commento di Louisa Yousfi sulla situazione politica in Francia nell’imminenza dei ballottaggi per le legislative, inizialmente comparso sui social della scrittrice.

La traduzione è di Anna Curcio.


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 Come molti miei amici e compagni, ho dovuto ingoiare il rospo molte volte da quando è iniziata questa fase politica. C'era l'idea che non era il momento di nutrire emozioni troppo forti o di fare analisi troppo precise, si trattava piuttosto di far propria a grandi linee quella dinamica generale, per la verità dai contorni un po' confusi, che si chiamava «antifascismo». Si trattava, come al solito, di mostrare la nostra dignità di fronte alla mancanza di dignità di 12 milioni di persone (e molte altre) che non vogliono più respirare la stessa aria che respiriamo noi, gli sporchi neri e  arabi di questo Paese.

Si trattava, come da copione, di dire che «non avranno il nostro odio», che la loro bruttezza non ci contaminerà. Noi, che siamo dalla parte giusta della storia, avevamo il dovere di dare l'esempio. Far vedere quanto si sbagliano a odiarci, noi che non odiamo nemmeno coloro che vorrebbero vederci morti, che vorrebbero riportarci al nostro posto di tirapiedi o rimpatriarci nei nostri Paesi d'origine.

Per raggiungere questo obiettivo, noi stessi ci siamo abbandonati a ogni possibile «ruffianeria». Abbiamo lasciato che si dicesse che chi vota Rassemblement National non lo fa esattamente per razzismo, o meglio che questo razzismo non era affatto un razzismo vero e proprio, poiché trovava una spiegazione al di fuori di sé: per esempio, nella precarizzazione delle classi lavoratrici bianche, nella rovina dei servizi pubblici, nel lavaggio del cervello orchestrato dai media...

Così abbiamo lasciato che si dicesse che il razzismo non aveva una sua logica, né una sua densità storica, che era certamente l'effetto di un'eterogeneità di cause e che non si era ancora cristallizzato in una realtà politica definita. L'intera storia delle nostre famiglie testimoniava invece la concretezza materiale di questa schifezza che è il razzismo. Ho passato la vita a sentirmi dire che il razzismo non è vero razzismo: è rabbia mal indirizzata, alienazione, stupidità, risentimento... va bene, va bene, ma quando inizia esattamente a essere razzismo? Esiste davvero o è sempre la proiezione di un falso problema? E quindi, soffriamo per un falso problema, moriamo per un falso problema? E ancora, esistiamo davvero o siamo qui solo come effetto di una deviazione dai «veri» interessi di classe?

  È stata questa sensazione di combattere con un fantasma a portarmi a fare politica nel movimento decoloniale, il cui contributo principale è stato proprio quello di prendere sul serio la questione razziale, senza rimandarla altrove, senza cercare una soluzione guardando dall'altra parte. Dovevamo guardare in faccia il mostro, sopportare tutte le sue detestabili caratteristiche, analizzarle con precisione e non abbassare mai lo sguardo. Non a caso siamo stati paradossalmente tra coloro che hanno formulato ipotesi sui «beaufs», il piccolo proletariato bianco, imponendoci di non condannarli mai al fascismo nonostante l'evidenza della loro adesione ideologica.

  Ma allora, sia chiaro fin da ora, non è ruffianeria il nome di quella compassione che crede di poter cullare i demoni dei piccoli bianchi traducendo le loro stesse idee («dite di avere paura dei musulmani ma la verità è che volete uno stipendio migliore», «vi sentite culturalmente insicuri, ma è perché vivete la desertificazione della sanità»), cosa che i nostri stessi demoni non hanno mai avuto il diritto di fare, noi, i cui eccessi, strafalcioni e difetti diventano subito linee invalicabili per la sinistra che ci condanna su due piedi (la barbarie). No, non si tratta tanto di fare i gradassi e di avere più fegato del carnefice ma piuttosto di «rispettare» il male che vogliamo combattere. Perché per combattere davvero un nemico, bisogna innanzitutto riconoscere che esiste, bisogna essere in grado di identificare tutti i suoi volti e, soprattutto, tutti i suoi possibili movimenti. Dobbiamo sapere che il «patto razziale» che lega tra loro la società civile, la società politica, le classi lavoratrici bianche e la borghesia di questo Paese non richiede il paternalismo compiacente nei confronti dei ragazzi bianchi persi a causa del razzismo, ma proprio il rispetto della responsabilità di ciascuno di noi, dei nostri compagni e dei nostri nemici. Dico «nemici» perché sono nemici.

Sono cresciuta in mezzo ai fascisti della peggior specie (in Costa Azzurra), ho vissuto la mia quotidianità di bambina e di giovane donna a contatto con quesi esseri spietati e la loro spaventosa crudeltà, e ne ho conservato un'esperienza indelebile: quella della rabbia, dell'odio. Li odio. È bello dirlo. È bello scriverlo quando c'è ancora chi vuole mascherare la propria meschina vigliaccheria come eleganza dell'anima.

Se il fascismo ci ha insegnato qualcosa, è questo: di fronte a un esercito di fascisti, abbiamo bisogno di un esercito di antifascisti ben disciplinati, decisi a non cedere, a non tradire, fermi e per nulla «gentili» come scriveva Brecht. Poco gentili mentre «si prepara il terreno per la gentilezza». Quindi non affrettiamo i tempi. La gentilezza è l'orizzonte. Oggi, come dice la canzone partigiana, «è l’allarme».


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Louisa Yousfi è giornalista e anima il blog politico «Paroles d’honneur». Figlia di algerini immigrati in Francia, con questo libro denuncia il conflitto assimilazionista che le politiche delle istituzioni francesi non smettono di alimentare da almeno mezzo secolo. Per DeriveApprodi ha pubblicato Restare barbari. I selvaggi all'assalto dell'Impero (2023).

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