Continuiamo ad occuparci di capitalismo digitale con questa seconda nota sulle conseguenze dell’uso delle piattaforme nel lavoro sociale. Se in precedenza ci siamo occupati delle modifiche sostanziali che avvengono nella «relazione d’aiuto» (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/note-sull-utilizzo-delle-piattaforme-digitali-nel-lavoro-sociale-prima-parte) adesso proviamo a capire, con l’aiuto di uno specialista del settore, come cambia la formazione degli operatori e cosa ciò possa prefigurare.
* * *
Come avviene in numerosi contesti lavorativi nei quali vengono introdotte tecnologie digitali, anche nel terzo settore, in particolare in quello che viene definito lavoro sociale, le conoscenze pregresse tendono a perdere buona parte della loro utilità. In tal senso, agli operatori sociali non viene chiesto soprattutto di attivare relazioni complesse e affinare le proprie capacità di comunicazione, quanto di essere disponibili ad apprendere le modalità d’uso di particolari dispositivi digitali e di attenersi alle richieste informative di questi ultimi, anche perché un deficit professionale in tale ambito potrebbe pregiudicare la partecipazione a bandi per l’acquisizione di commesse pubbliche o private. Nulla di problematico in tutto ciò, se non fosse che tali strumenti digitali di fatto formano l’operatore e plasmano i suoi interventi. Ciò premesso, la domanda che ci poniamo è: quale valore ha la formazione nel settore sociale? Più precisamente: la formazione professionale richiesta per la gestione dei dispositivi digitali in che relazione si pone con le aspettative formative degli operatori? Ed ancora: colmare il divario digitale è un accrescimento oppure una sostituzione di competenze?
Nell’epoca pre-digitale la formazione degli operatori è consistita soprattutto nell’acquisizione delle conoscenze e competenze necessarie a gestire una relazione con persone «speciali» portatori di bisogni complessi da soddisfare. Oggi, invece, il nocciolo della formazione è di tipo tecnico, legato all’utilizzo di macchine digitali standardizzate che rispondono a una gestione rigida e nient’affatto relazionale. Con l’irruzione della pandemia da Covid-19 il passaggio anzidetto è divenuto diffuso ed evidente in molti settori produttivi, compreso il settore sociale, giustificato dal fatto che la modalità lavorativa da remoto non ha fermato (e neanche rallentato) le attività professionali.
Per capire come le richieste formative da parte delle cooperative, imprese e Onlus del settore si siano modificate, riportiamo due narrazioni tratte dal cantiere di socioanalisi Ombre digitali sul lavoro sociale (a cura di R. Curcio, Sensibili alle foglie, Roma 2022):
Sto facendo l’esperienza della didattica a distanza mista e voglio raccontare come avviene il disciplinamento del mio corpo e delle mie dissociazioni. Ho degli studenti in classe e altri collegati a distanza per via del Covid19. La mia formazione è consistita nel dovermi impratichire nello spazio di una mattina all’uso di Microsoft Teams, il software utilizzato dalla scuola per questo genere di necessità. Dovendo accedere a Teams per connettermi con questi ragazzi on line ho dovuto gestire il mio corpo nello spazio della classe riempito con altri corpi in presenza. Normalmente il mio dispositivo è mobile, disordinato, entro in aula e passeggio, non riesco a stare mai ferma, sono iperattiva, interagisco con gli altri. Avendo simultaneamente il collegamento a distanza non posso comportarmi in questo modo, perché devo anche sempre essere sotto l’occhio della telecamera. Questo mi obbliga a stare immobile affinché chi è a casa possa vedermi. Ma stare dietro alla mia cattedra è anche un po’ ridicolo perché la classe è enorme e io sono alta un metro e sessanta e se mi siedo l’ultimo della fila non riesce neanche a vedermi. Quindi devo disciplinare il mio corpo e anche le mie dissociazioni (…) devo essere contemporaneamente in presenza nella relazione con i ragazzini che ho davanti e, contemporaneamente in una maniera diversa davanti lo schermo (…) Ho dovuto predispormi a un vero e proprio addestramento a Microsoft Teams e questa formazione è avvenuta in questo modo: Il professore d’informatica ha mandato una mail di disponibilità al nostro addestramento all’utilizzo della piattaforma ma, non riuscendo a trovare un momento al di fuori delle sue lezioni perché per questo non veniva pagato, ci ha chiesto di andare da lui nelle ore in cui faceva delle verifiche agli allievi delle sue classi (…) In quella situazione la relazione con la sua classe si è spenta e la sua attenzione si è dirottata su di me per addestrarmi alla tecnologia di Microsoft Teams mentre i suoi studenti, buon per loro, facevano una verifica non sorvegliata.
In questa prima storia, che potremmo definire di «dissociazione e disciplinamento», risalta il fatto che i cambiamenti repentini nelle modalità di trasmissione dei saperi, introdotti in origine da una emergenza sanitaria, siano diventati operativi, ordinari e normativi per gli operatori sociali. In tal senso, il miglior percorso formativo è quello che riesce ad «allineare» senza particolari traumi gli operatori sociali ai dispositivi digitali. Da un altro lato, sono evidenti i cambiamenti nelle stesse modalità di esercizio professionale: da una modalità interattiva - che comunicava con il corpo empatia e vicinanza alla sua «classe speciale» - la nostra professionista alle prese con «Teams» è di fatto obbligata a cambiare le proprie abitudini professionali, a gestire diversamente il proprio corpo e la relazione didattica con i propri allievi.
Ascoltiamo adesso la seconda storia nella quale emerge nettamente come l’utilizzo dei dispositivi digitali abbia generato una cesura tra il lavoro sociale «pre-digitale» e quello «post-digitale» e quindi la necessità di percorsi di adeguamento professionale:
Tredici anni fa quando ho iniziato a lavorare la modalità relazionale era completamente lasciata all’esperienza e alle affinità nel rapporto operatore utente. Non veniva chiesta una documentazione se non una velina della terapia farmacologica rilasciata dallo psichiatra e un diario dove si segnavano le spese dei singoli utenti. Tutto il tempo era dedicato alla relazione. Poi pian piano ho visto un passaggio alla scrittura; prima su carta semplice, poi su carta intestata e infine si è giunti a una scheda predefinita da riempire rispondendo a un certo numero di domande. Con il salto al digitale questa scheda, a sua volta, si è trasformata in una cartella onnicomprensiva: dall’anamnesi al programma quotidiano, dalla diagnosi psichiatrica alle consegne giornaliere, al progetto riabilitativo (…) La relazione e il percorso educativo delle persone che seguivo doveva essere per forza vincolato a questa procedura di «Valutazione delle Abilità Definizione degli Obiettivi». Io me ne sono andata via prima di quest’ultimo passaggio.
I passaggi di questo brano, che vanno dall’introduzione del diario di bordo alla scheda omnicomprensiva, non definiscono soltanto un cambio di strumenti ma anche il cambiamento nella qualità dell’organizzazione del lavoro. Comunque sia, ciò che in questa sede ci preme evidenziare è il diverso atteggiamento delle operatrici nei confronti delle nuove procedure: se la protagonista del primo brano, obtorto collo, ha deciso di adeguarsi al nuovo modus operandi, la protagonista del secondo brano compie la scelta opposta: si rifiuta di adeguarsi alla nuova organizzazione e, cosi facendo, non obbedendo agli input della macchina non ha altra scelta che abbandonare il lavoro.
Queste due narrazioni ci raccontano come le nuove tecnologie stanno cambiando l’organizzazione del lavoro nel settore sociale e come, di conseguenza, diventa necessario che anche gli operatori cambiano mentalità e prassi operative: non perché migliori ma perché richieste dalle applicazioni digitali. Il vecchio modus operandi predigitale, in altri termini, diventa obsoleto, non più utile e neppure funzionale. In questo scenario si è innestato uno «scontro culturale» dal quale emergono difficoltà soggettive di adattamento a fronte delle caratteristiche sempre più standardizzate della formazione degli operatori.
* * *
Francesco Mainieri, nato a Cosenza nel 1970, ha conseguito la laurea in sociologia vecchio ordinamento presso l’università «La Sapienza» di Roma nell’anno accademico 2000/01, con una tesi sperimentale su: «Il contributo della cooperazione sociale allo sviluppo locale». Dal 1997 lavora nell’ambito dei servizi alla persona, con particolare attenzione verso l’utenza tossicodipendente.
Opmerkingen