Pubblichiamo la prima parte di una nota di Rossana Rossanda al libro di Alberto Magnaghi Un’idea di libertà. San Vittore ’79 – Rebibbia ’82 pubblicato la prima volta nel 1985 da manifestolibri e poi ripubblicato da DeriveApprodi nel 2014.
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Alberto Magnaghi insegna alla Facoltà di Architettura del Poli-tecnico di Milano, ha quarantaquattro anni, ne ha passati quasi tre in carcere, arrestato il 21 dicembre 1979 nell’ambito dell’istruttoria del «7 aprile». Era stato nel Partito comunista, attivo fra gli studenti e nella federazione di Torino, fino alla rottura del 1968. Nel 1969 è tra i fondatori di Potere operaio, non il più numeroso ma forse il più colto tra i gruppi che allora si formano alla sinistra del Pci, alimentato dalla cultura dei «Quaderni Rossi» e di «Classe operaia», con un suo radicamento non esteso ma tenace nelle lotte in fabbrica che riesplodono con una diversa qualità alla fine di quel decennio e traverseranno tutti i primi anni settanta. Di Potere operaio sarà anche nel 1970 segretario politico. Potere operaio vivrà meno di quattro anni, lacerato tra le diverse tensioni che nascono attorno al suo nucleo vitale: l’intuizione, a volte l’anticipo di quella radicalità operaia e della sua nuova natura che sarebbe stata propria di quel ciclo di scontro. Ma è forse anche la prima formazione «estremista» a cogliere la natura non accidentale del gap fra strutture politiche e carattere dello spirito sociale e traduce questa inquietudine in un infittire di congressi, di mutamenti di direzione, di tensione fra correnti: accelerare lo scontro nelle classiche forme giacobine d’una presa del potere o costruire altri esiti e altri protagonismi in un movimento sempre più antagonista e però sempre più complesso? Nel dilemma affiora un dubbio forse più radicale sulla propria ragion d’essere come partito fra i partiti. Lo scioglimento del gruppo si sancirà nel maggio 1973 a Rosolina, e qualche anno dopo alcuni esponenti del Potop tenteranno di far crescere nell’Autonomia una forma di politica radicale e radicalmente diversa. Magnaghi è di quelli che, come molti suoi compagni del nord più legati alle esperienze di fabbrica, erano stati contro l’illusione dello «scontro». Vede così nello scioglimento di Potop l’esito definitivo d’un ruolo del partito e d’una concezione povera e palingenetica della rivoluzione; residui, e drammatici, perché sembrano scivolare verso differenti rovine. Lascia allora la milizia in una organizzazione e non la riprenderà più, neanche nelle forme fluide dell’Autonomia; tenta l’uso di quella cultura che lo aveva portato prima nel Partito comunista poi in Potere operaio e di quella sua personale tensione verso un fare collettivo, lavorare fra gli altri e con altri nell’università. È il momento del rapporto più intenso fra insegnanti, studenti, altre figure sociali che gravitavano attorno agli atenei aperti: oggetto, al Politecnico di Milano, soprattutto l’analisi del territorio ai fini d’un intervento nel momento in cui, sotto l’avanzare delle sinistre, va in pezzi l’antico carcame notabilare degli enti locali, e fuori e dentro le istituzioni di base fluiscono uomini, donne, bisogni, culture, progetti ravvicinati di autogoverno. Autogoverno di un tessuto più ricco di funzioni e poteri. In quegli anni, essere architetto, urbanista, con una compiuta esperienza critica in due forze di sinistra, aiuta a disvelare la trama dei poteri e delle necessità, illumina le scelte e le radicalizza, sembra sposare tensione morale e competenza: soprattutto riscopre la politica dall’indistinto dei movimenti – articolati soltanto dalla relativamente povera dialettica interna e da ancora più povere «scadenze», essenzialmente simboliche, in bilico fra dentro e fuori le istituzioni – in protagonisti specifici, caratterizzati da tradizioni e progetti specifici con controparti specifiche. Un torrente meno impetuoso ma meno ristretto, il dilagare d’un muoversi della società in diversi soggetti e diversi conflitti, adiacenti, sincronici. Saranno, per Magnaghi e altri, gli anni nei quali le commissioni universitarie o le «150 ore» o riviste come i «Quaderni del territorio» si proporranno come fornitori di idee, competenze, personale «di governo» diverso dagli enti locali rinnovati. Ma presto, con il 1976, vi incontreranno un altro fronte. Non sono più e solo gli antichi meccanismi di proprietà e dominio del territorio a contrastare la sua possibile restituzione agli uomini che ne formano la rete vivente, ma la centralità delle tecniche di mediazione fra i partiti, della spartizione a tutti i livelli nel quadro della solidarietà nazionale. L’orbita della ricerca traversa diagonalmente partiti e sindacati e si scontra con l’insediamento degli equilibri del potere pubblico: è uno scontro amaro, pesante, non limpido, un’altra porta che si chiude. In questo quadro l’impegno nella rivista «Quaderni del territorio» non è ritiro dalla politica, ma certo dalle sue forme; convinzione acquisita che il fare dei grandi o piccoli partiti, riformisti o rivoluzionari, non sia più in grado di trasformare nulla e che le nuove contraddizioni che vengono esprimendosi, sia nelle soggettività alternative sia nel ristrutturarsi dei potentati proprietari, comportano non solo la definizione di altri obiettivi, ma il consumarsi degli antichi strumenti e forse delle forme classiche del conflitto. Per cui, come molti, vede nella fuga non in avanti, ma fuori dalla storia, delle avanguardie giacobine d’un altra stagione un cammino quasi inevitabile e mortale – ostinate quanto più sradicate, mimetiche, proiettate in pure figurazioni di scontro o integrazione con gli apparati dello Stato, pronti a questo tipo drammatico ed esclusivo di guerra. Da allora chi aveva traversato la parabola di Potere operaio, come di altri gruppi alla sinistra del Pci, avrebbe collocato il bisogno di comunismo infinitamente più vicino e più distante, nell’intuizione d’un liberarsi della persona e di una autonomia dei soggetti sociali che si sarebbero espressi ormai, se si fossero espressi, su altri modelli che quelli del passato gregarismo e su altri contenuti che su quelli del passato operaismo. Ai «politici» capire che mutava così la loro funzione; chi non capì teorizzò la rinuncia alla rappresentanza, a sinistra o a destra, nell’autonomia del politico. A chi non sceglieva ne la cecità degli irriducibili ne la separatezza degli altri, restava come sola milizia o impegno possibile, una ricerca sulla realtà che ne liberasse gli agenti diretti – le persone, le vite, tutto quel che i poteri alienano – e dei poteri osservasse il mutare dei meccanismi. Sarebbe stata, questa, ancora un’idea totalizzante della politica, coniugata con una pratica di rigorosa estraneità dalle organizzazioni. Poteva allora succedere, in una biografia come quella di Magnaghi, di scoprire per la prima volta una dimensione sorgiva di politicità nei moduli di quello specifico «collettivo» che era il suo paese nelle Langhe, non soltanto Comune o piano regolatore ma intersecarsi di vite, lavoro comune o confrontato, identità fra presente e tradizione, cui tornare come nel ritrovamento degli antichi motivi musicali o riti o feste; essere insieme nel correre delle stagioni. E nel medesimo tempo studiare la metropoli come città-fabbrica, e poi modificare l’ottica, problemizzare il termine, ristudiare, fare studiare, scrivere, fare scrivere, legare analisi e scritti altrui – una rete di relazioni che con la carcerazione non cesserà, solo restandone sussultoria e disarticolata. La carcerazione precipita inattesa nel dicembre 1979. Inattesa a fil di ragione, troppi anni essendo passati da quel maggio 1973 in cui Potere operaio s’era dissolto, e parendo inverosimile di essere coinvolto nella montatura che un procuratore di Padova monta contro gli ex compagni, Antonio Negri anzitutto, arrestandoli il 7 aprile con l’accusa di essere il cervello occulto di tutta l’eversione italiana, leaders delle Brigate rosse, mandanti ed esecutori di tutti i loro attentati, compreso l’assassinio Moro. E tuttavia la stessa enormità del «teorema» lo rende pericoloso per chiunque abbia avuto a che fare con Potere operaio; anzi, quando già nell’estate cade l’accusa agli arrestati del 7 aprile di essere i capi delle Br e i sequestratori di Moro, per restare in piedi il teorema Calogero dove spingere più indietro nel tempo e in una sfera più astrattamente ideologica e di comando le loro colpe, agganciandole a tutto il Potere operaio fin dal congresso del 1971. L’operazione è stata consentita dalle «confessioni» di Carlo Fioroni, già processato e reo confesso d’un sequestro con conseguente assassinio per estorsione pri- vata, personaggio esile e frustrato, capace di tutte le viltà e le fantasie della debolezza. A quel punto occorre fare una retata di tutto quel che era stata la dirigenza di Potop dal 1969 al 1973, città per città scegliendo l’uomo/simbolo adatto; così a Milano i mandanti colpiscono non solo la più tardiva Autonomia, e la sua rivista «Rosso», ma tentano di individuare nell’università una sorta di secondo centro intellettuale dell’eversione, come Calogero aveva pensato Padova. Così il 21 dicembre viene arrestato, con altri, Magnaghi.
«Se sarò arrestato» – si era detto una volta, sappiamo dal suo diario. Se. Tutto inatteso e possibile, atteso ma impossibile; fuori dal ragionamento. Magnaghi si trovò la stessa sera a San Vittore, in isolamento. Vi sarebbe rimasto fino all’agosto 1980, poi a Rebibbia fino al settembre 1982, quando esce in libertà provvisoria per decorrenza di termini. All’uscita lo attende un’altra prova, la malattia. Altro irrazionale. Il primo e il secondo faranno sì che il processo 7 aprile, finalmente aperto nel marzo 1983, sarà vissuto come una macchina torpida, negatrice, astratta. La non verità dell’istruttoria rende il processo non vero, impossibile a svolgersi con verità, luogo di verità. In carcere Magnaghi aveva steso documenti, ragionato sulle ragioni della non ragione del teorema, reclamato il «processo subito» come sede d’un dibattimento che avrebbe fatto chiarezza. Ma fin dai primi giorni l’impostazione del giudizio dimostra questa illusione «garantista», la natura esemplare e condivisa dai media d’un rito che non ha a che vedere con le responsabilità reali dei singoli uomini. Come altri, in aula Magnaghi si dichiarerà innocente, ricostruirà la sua parte di storia con la chiarezza di chi è abituato a spiegare, ma anche il fastidio di chi si sente intrappolato in una rete di comunicazione irreale. Saranno molti a vivere così quel processo singolare, il più tipico dell’emergenza, che sarà il «7 aprile». Nessun reato specifico gli è addebitato. Nessun «pentito» si ricorda di lui e quindi testimonia di lui. Soltanto l’assente Fioroni aveva detto quattro anni prima di credere di ricordare un colloquio che sarebbe avvenuto ancora otto anni prima, nel 1971. Magnaghi sarà condannato ugualmente a sette anni di carcere, ne ha già scontati in preventiva quasi tre, resta in libertà provvisoria. Come andranno in libertà provvisoria tutti gli altri imputati di quel solo processo, mese prima o mese dopo. Il 7 aprile emana voluminose condanne e poi allenta la presa senza lasciarla. Come ebbe a dire ad alcuni giornalisti il Pubblico Ministero, si tratta di dimostrare che lo Stato è capace di arrestare, processare e condannare; dopo di che saprà essere «clemente». La giustizia non c’entra. È stato scelto uno dei gruppi dell’estrema sinistra, non più estremista di altri, non sanguinoso, forse per questo più fastidioso e suggestivo, a pagare per tutti esemplarmente – con il carcere preventivo, gli anni del processo e di libertà condizionata, l’interruzione dei ritmi della vita e degli affetti e del lavoro – la colpa di aver pensato una rivoluzione, una eversione, uno sbocco non restauratore al rovesciarsi delle strutture e dei valori. Tutto questo deve esser detto a chi avrà letto le pagine che precedono, perché in esse non lo avrà trovato. Eppure sono note di diario, stese prima a San Vittore poi a Rebibbia, nel poco tempo proprio recuperato. Ma in esse non è consegnato nulla che si riferisca a questa ragione del vissuto. Qualche richiamo non basta a fornire una scheda di identificazione. Una volta il diario annota la eco, a San Vittore, dell’inno di Potere operaio, fragile traccia presto perduta nel dialogo derisorio che segue. Un’altra volta, al detenuto comune che gli chiede «Perché sei qui?», Magnaghi risponde con esitazione. Non può dire la verità, inafferrabile anche per lui: «Per una montatura politica». Dice una non verità, che però la dentro dovrebbe avere valore contante: «Per costituzione di banda armata», l’imputazione. Senza sorpresa vedrà il comune voltargli le spalle annoiato, come a confermare l’insignificanza di quel «ferrovecchio» che sembra diventata la terminologia politica. Insignificanza per l’altro, consunzione per sé. Poi su questo passato il diario non tornerà più, come se da tempo fosse un terreno di identità perduto, né l’imputazione potesse dargli corpo. Questo sicuramente il segno distintivo, a parte, di queste pagine. Nella molta letteratura carceraria, la privazione della libertà è vissuta come interruzione d’una continuità che resta il luogo della persona. Il vero io è prima, fuori, e ci si arrovella su questa sua negazione. Oppure ci si dibatte interminabilmente su una linea di difesa. O si protesta, si descrive il patito quotidiano, l’umiliazione immediata, l’ogni giorno della detenzione. Tutti e tre questi livelli stanno nell’esperienza di Magnaghi, ma non nel diario. In carcere trova i compagni del passato ed altri, e con loro appena può discute, dipinge, costruisce oggetti, tiene dei corsi; è un naturale aggregatore. Con essi avviene la digestione del passato, diverso quanto è comune l’immagine che il rinvio a giudizio e il carcere a tutti sovrappone; e scrive non soltanto memoriali di difesa, ma documenti, interpretazioni del teorema, aggredisce in Un sequestro di stato e poi Dal teorema al sistema l’impianto istruttorio e l’operazione che lo sottende. E poi scrive, fuori, agli amici: dell’essenziale politico, dell’essenziale ricerca d’un interlocutore, e quando chiude su una nota personale, sarà sul registro della gaiezza, dell’ironia. Ma già nelle prime note del diario affiorano le tracce dell’offesa, psicologica o fisica, patita, non come protesta quanto come anatomia d’un meccanismo impersonale e distruttivo, rispondente a una logica che «prima» sarebbe parsa assurda: la segregazione e il suo illeggibile arredo, il tavolo negato, la distruzione cieca del modesto paesaggio personale delle celle, la geometria senza senso delle scansioni nel tempo e nello spazio della giornata carceraria.
Tutto questo è vissuto persino con eleganza; ma quando è solo con se stesso e scrivendo guarda all’essenziale, nulla ne resta – né riflessioni sul perché si trovi là, ne un lasciarsi andare a malinconie o speranze, che pure intervallano il tempo interiore. È come se nel tempo recuperato e consegnato alle righe avvenisse uno spostamento di «quel» vissuto ad altri livelli, quelli della comunicazione abituale, mentre il confronto si fa con qualcosa di più dell’identità: con un io fondamentale, fragile e ostinato, che la brusca separazione dalla libertà mette allo scoperto. Come se dal primo giorno – anche se si chiarirà nel tempo e per sussulti – fosse acquisita la certezza che nel carcere deve avvenire una «spoliazione» dai moduli dell’identità passata, o almeno di quei suoi aspetti attraverso i quali ci presentiamo e comunichiamo. Deve? Almeno nel senso che così è, dato di fatto contro il quale in nessun momento Magnaghi protesta. Si può chiedersi perché. Per contenutezza? Per troppo sapere di sé, già bruciato in quei pesanti passaggi che devono essere stati la fine dell’appartenenza al Pci, poi a Potere operaio, quei padri abbandonati, forse anche la frustrazione di quanto di illuminista c’era nell’ipotesi d’un lavoro politico di ricerca – tutte vicende che sempre hanno portato lui, Alberto Magnaghi, a un fine, a un’impasse, a una lacerazione? Fino a quel luogo/non luogo che è San Vittore, in quell’architettura di mura e rapporti tutta convergente a un centro che è vuoto, e ti priva dunque non solo del movimento, ma d’una tua intelligibile collocazione. In questo non luogo, quando scrive – in quel suo stile ellittico, dove si mescola il linguaggio dell’architetto con quello del politico e sempre seguendo il ritmo d’una esposizione di premesse, afferrate, rigirate, riprese fino a una conclusione, dove il linguaggio si affina, ed è la zona della scoperta, dell’asseverazione patita – non riaffiora il passato, né come ricordo di un’assemblea, o d’un progetto, o d’un errore; e raramente persone o volti che non siano strettamente fungibili a quel momento della riflessione. Neppure gli affetti, relegati nel silenzio. Né i luoghi della vita, salvo uno, le Langhe. Fin dal primo giorno il castello di Prunetto, le cui segrete gli avevano dato anni prima un brivido di premonizione che lo riassale nei giorni dell’isolamento, e nuovamente gli ritorna alla memoria quando dal fondo del carcere sale alle celle comuni, dai cubicoli al salone delle feste. E più tardi quando vedrà dalla bocca di lupo la prima neve cadere su Milano, ancora bianca e asciutta, e gli richiamerà la nevicata materna, avvolgente, che tutto ferma al paese, ne muta le figure e i movimenti, i pochi lumi nella notte, e chi vi è preso è quietamente catturato e separato e assolto dal vivere scomposto della città, fermato in se stesso e con altri come lui. Sono le sole righe in cui si avvertono la lontananza, il perduto, è concessa nostalgia. La metropoli non è luogo di ricordi, offre al carcere continuità allusive permanenti, ne è una chiave di lettura e si fa leggere attraverso di esso. Il diario dunque è un percorso nell’io, e in quella figura dell’io moderno che è la ricerca dell’io autentico, il suo livello interiore, oltre quel che chiamiamo «identità». Paradossalmente, ma forse non tanto, questo percorso deve avvenire per «spoliazione», per attraversamento d’un deserto, come il cammello nietschiano che si assume un immenso carico (la vita fino a ieri) sulle spalle e si inoltre in un paesaggio senza lineamenti. La desertificazione come esperienza. La lumaca allo spurgo. Fin dalle prime pagine il carcere – e quel suo iniziale imporsi come totale nell’isolamento – è un patito ed eluso da una convinzione non detta, l’essere il fondo dell’illibertà e della sopravvivenza la condizione per vedere e vedersi nelle ragioni prime. È indiscreto chiedersi, o fa parte d’una biografia che va oltre queste note di diario, perché in Magnaghi avvenga questo, e subito, e allora; da quanto si preparasse in lui questo «ritiro» che la normale estroversa attività non gli avrebbe consentito; perché il viaggio nella coazione sia sostanzialmente vissuto come prova di sé e conoscenza d’uno strato estremo. Un religioso che ha
scelto la cella forse lo sa; Magnaghi, se lo sa, non lo scrive. Ma quel che è certo, è che il filo del diario è questo; come ci si carica d’una perdita non per recuperare il perduto, ma trovare altro. Da San Vittore a Rebibbia la persona si filtra al di là di quel che il carcere le impone o nega; e lo «vince» facendo non della sua parenteticità, ma della sua totalità il luogo dell’io depurato, non distratto. È una scommessa rischiosa, certo inabituale, e almeno finora non scritta. La tripartizione del testo enuncia questo itinerario: prima nel labirinto (dell’istituzione totale o della persona? o ambiguamente delle due?), ed è «lo spurgo», il riflettore su di un sé inerme di fronte all’illogicità possente e negatrice dell’istituzione; poi l’analisi della condizione carceraria come metamorfosi dei sensi, e perfino della funzione di quelle che Kant chiamava le sintesi a priori, i «diversi» spazio e tempo; e infine l’apprendistato a un’idea di libertà come sottrazione alla subalternità al carcere, subalternità che si dà sia se lo accetti sia se dai disperatamente la testa al muro. A questa partizione si sovrappone (e fra il secondo e il terzo capitolo a momenti si interseca) la serie temporale delle note, e il ritmo del loro succedersi. Fittissimo nei primi giorni, quotidiano: dell’isolamento, l’io incerto registra con angoscia la potenza dell’istituzione e la fragilità della persona costruita su relazioni esterne improvvisamente negate e invisibili. E poi l’apprendistato alla brutalità sul corpo: nessuno ti insegna gli oggetti elementari e umilianti della cella, le giornate passate senza lavarti e senza vederti, chissà l’immagine di sé che ha l’animale che non conosce il suo volto. Ma soprattutto il sentirsi affogare nella incomunicazione, come se diventassi a te stesso inesistente. Quando, con un deliberato ritardo, l’amministrazione ti fa pervenire i telegrammi o il pacco, tutte le tue identità esterne, costruite sulla relazione, ti riassalgono – già troppe, già «altre». Già un segmento del cammino nel deserto è stato compiuto. Il diario si interrompe. Riprenderà venti giorni dopo, con la salita dall’isolamento alle celle comuni, dalle segrete del castello di Prunetto alla sala delle feste. Ma le righe di quel giorno si intitoleranno annientamento. Come se non nella solitudine ma nel contatto ritrovato con gli altri si misurasse la perdita di sé patita, e l’impossibilità se non di mimare la comunicazione di prima. Il secondo capitolo, che si stende nel tempo più a lungo e rarefatto, è il più compatto anche come scrittura. L’io inerme alza la testa per vedere il carcere, se stesso in lui, si scinde, si sdoppia, sperimenta la dimensione specifica del carcere come vissuto e nel medesimo tempo la obbietta, allontanandola. La condizione, dopo i primi giorni, è non subire; e si può non subire soltanto cogliendo la struttura interna del meccanismo coattivo, il suo «metamorfosizzarti». A cercare un riferimento, viene alla mente per negativo: potrebbe dirsi «come vivere la condizione di Joseph K. (con il quale l’imputato ha in comune il «non senso» dell’accusa) senza diventare Joseph K.». Traversarla guardandola e guardandosi. E come il corpo diventa un prezioso oggetto da salvaguardare per «dopo», da «portar fuori» il più integro e meno deteriorato possibile, la coscienza è lo strumento della presa di distanza da perfezionare non nella cecità, ma nel massimo di acuità della vista. Che cosa occorre vedere? La logica e i modi del carcere. Non nei suoi eccessi, nella sua regola. A un certo punto, annotando distrattamente l’uscita dallo speciale, Magnaghi scrive qualcosa come «sugli orrori che avvengono là dentro non mi soffermo, perché mi porterebbero fuori strada». È il carcere «pulito», disinfettato dalle protervie della direzione o dell’agente di custodia, il carcere che carcera anche loro che lo interessa, la sua logica e struttura. Allora vedi come esso non ti privi semplicemente della libertà, cioè della tua vita di relazione come si è formata nei tuoi anni, ma del paesaggio nel quale sempre si incastonano i giorni: per cui chi dentro vi si muove è senza sfondo, e essere senza sfondo è come essere senza storia. Il detenuto che non sottostà a questa privazione, non fantasticherà a lungo sui luoghi andati, costruirà un paesaggio, unico possibile nella sua condizione, attorno alle singole figure, nella cella, recependone ma non subendone l’allucinazione delle forme e del colore, e di quei suoi continui rumori misteriosi, amministrativi (chiavi, passi), o orrendi (rumore/dolore di qualcuno che non vedi e si dibatte). Imparerà a sentire che un altro tempo gli viene imposto, quello dei ritmi dell’istituzione, che non ha altra funzione che privarlo del tempo suo, che è poi il tempo del vissuto, dello sperato, dell’atteso, del progettato: la privazione più aspra, quella che anche oggettivata ti sprofonda, in cella, nel mutismo e nella povertà della comunicazione. Imparerà a capire che non esiste lo spazio minimo vitale caro agli architetti del carcere riformato: come se un corpo vivente potesse rimpicciolirsi all’estremo, modificato com’è dall’avere un limite insuperabile ai movimenti, che «fuori» gli pare non esistere, anche se in certa misura un limite c’è sempre, ma «fuori» è vissuto come accidente, superabile, spostabile. Questa essenza della carcerazione, scrostata dai più grevi orrori, ne mette a nudo la coazione, che penetra oltre l’annullamento delle libertà di «fare», fin nei modi di essere elementari – appunto essere nello spazio, in uno spazio leggibile e significante, nel tempo, un tempo flessibile e del quale ci si può, o si crede (qui l’immagine diversamente carceraria della moderna metropoli è ricorrente) servire. Appropriare. In carcere, per riconquistare un «tempo proprio», uno spazio proprio, occorre prima che la metamorfosi dei sensi sia registrata a freddo, patita ma «osservata». Ne uscirà, alla fine di questa cognizione per dolore, quell’«esser nel carcere» che non è il residuo del «prima» né la totalizzazione imposta dall’istituzione dell’oggi – è il soggetto carcerato che si vede nella nuova condizione, domina la metamorfosi che sperimenta. Vive allora se stesso e gli altri come un mondo, una popolazione a sé, che si muove da un carcere all’altro, o dall’isolamento alla cella, senza essere veduta – il sentiero dei camosci, appunto, di cui chi camoscio non è intravede appena le orme – a che disegna una geografia, un paesaggio, un tempo e un modo del muoversi coatto, un trascinarsi dietro di altri esseri resi in questa funzione oscuri, una società separata con le sue sapienze, abilità, regole, agnizioni, tempi di attesa, rapporti. Una società che trova un precario equilibrio nell’autosufficienza; nella quale, presto, il contatto con l’esterno diventa una dolorante rottura del ritmo. Queste pagine che non grondano terrore e sangue (qualche macchia sul muro non ha nome), sono la requisitoria più secca contro la carcerazione, segnando la vacuità di ogni progetto di umanizzazione del carcere. Le strutture ordinate, perfino armoniose nella loro apparente perfetta funzionalità, che in un quartiere non si dà mai, nelle quali alcuni architetti perseguono il carcere «non disumano» (spazi, servizi, sale di socialità) il cardine della detenzione, che sono lo spazio e il tempo limitati e appiattiti, quale che sia il margine di gioco che, come una parte mobile di una macchina, si conceda. Certo ci sono varie forme di inumanità, ma «umano» il carcere non può essere; per essere la pena soltanto privazione di libertà, dovrebbe definire di «quali» libertà oggi ti priva, e denominarle in parole. Ma quale costituzione oserebbe suonare: il detenuto non avrà, per anni dodici, un suo tempo, un suo spazio, possibilità di progetto, possibilità di lavoro (non parliamo neanche del suo lavoro), possibilità di sessualità, possibilità di maternità e via dicendo? Nessuna. La coscienza della società moderna si nutre del fantasma d’un carcere come luogo che semplicemente priva della libertà di violare la norma, di intaccarla, attaccarla; e racconta a se stessa che non deve essere «afflittivo», ma anzi «recuperante». Ma a che, se non alla logica coattiva e all’introezione di tutte le negazioni che ti impone? Non si vive normalmente una situazione così radicalmente fuori dalla norma; il carcere produce perciò o rivolta, o un popolo affine a se stesso, o – è la scommessa del movimento di questi anni – la tribù dei camosci, che ne assume i segreti fino in fondo senza introiettarli. Capace – scrive Magnaghi col linguaggio dell’area omogenea – di «rompere la barriera». Visto così, bizzarramente il carcere puro rivela la sua parentela con il moderno irrompere nella storia dell’io come soggetto non astratto ma come irriducibilità della persona, ne è la negazione. Senza la scoperta di quel modo dell’io, il carcere modello forse non esisterebbe: fino a un secolo fa, era carcerato il grande personaggio, regale o infedele feudatario, nella torre di Londra o nelle segrete d’una fortezza – i soli «io» esistenti in tempi di identità più affidati al ruolo che alla coscienza. Non a caso, la cella del convento è dedicata a quell’io specifico che comunica con Dio nella situazione eccezionale della «chiamata», della «vocazione», dell’essere ultramondano. Per gli altri, la società commina pene corporali o spettacolari a un campionamento, per così dire, della fascia deviante, l’uno preso per tutti o per gli altri. Ma quando l’uno, il singolo, l’individuo si fa persona, e conquista diritti civili e parola, si moltiplicano anche i recinti fisici, la pena deve essere per tutti i violatori della norma, e il carcere si forma, si estende, grandi sale invece che torri, presto più che le sale i raggi con molte celle. Carcere come reciproco dell’esistenza della persona, separazione dal resto del mondo o addirittura, come cerca di razionalizzare la scuola di Francoforte, fabbrica perversa nella quale la forza di lavoro è del tutto fungibile all’interesse della produzione, non potendo sindacalizzarsi e la sua sussistenza essendo ridotta al minimo; sempre come luogo di annientamento della complessità della persona, nel quale la società esorcizza la sua parte segreta, il suo potenziale interiore di rifiuto. È sempre, insomma, la messa a morte di qualcosa che appartiene a tutti in qualcuno. Ed è forse la ragione per la quale il carcere è lontano, segreto; diversamente dal- l’antica pena esemplare, possibilmente invisibile. Una esecuzione lunga, senza sangue, nascosta. Questa «messa a morte» è nel diario della metamorfosi; eluderla, salvarsi è il vivere per scissione scommettendo che la metamorfosi avverrà, ma non nella figura che l’istituzione prevede. In ciò il diario è datato, rivela il suo codice: non può essere stato scritto che da un intellettuale e un politico degli anni Settanta in una comunità carcerata fortemente segnata dalle modifiche della sua composizione in questo ventennio, quando si è raddoppiata e va triplicandosi, con un’intersezione di età e provenienze che stravolgono i lineamenti del carcere di trent’anni fa. Filtra infatti nei compagni (e i carcerati lo sono tutti) questa coscienza di una diminuita singolarità della condizione e sproporzione dei poteri fra singolo e struttura: il detenuto può pensarsi come soggetto e non soltanto oggetto. Soggetto in quanto non «recuperato» ai modi e alle forme previste dall’istituzione quando si vuole educatrice, meglio sarebbe dire addomesticatrice; capace di trovare in sé e nella sua vicenda un principio di legittimazione.
Gennaio 1985
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