Un abbozzo di critica della gastrologia contemporanea attraverso un confronto tra due classici del pensiero materialistico, il materialismo antropologico di Feuerbach e la critica dell’economia politica di Marx, per interrogarsi sul significato etico e politico del rapporto tra umanità e cibo, come veicolo per trasformare il nostro modo di stare al mondo.
Il testo Tesi sulla natura, di Gianni-Emilio Simonetti, ripubblicato su «Machina» nella sezione «Il passo dello sherpa» lo scorso 13 novembre, ha sollevato ancora una volta l’interrogativo sull’attualità del motto «l’uomo è ciò che mangia» con cui Feuerbach, recensendo lo scritto sulla dottrina dell’alimentazione di Moleschott nel 1850, aveva accarezzato la speranza di risolvere l’enigma del «sacrificio in cui il corpo viene mangiato e il sangue bevuto (in cui, cioè, si mangia e si beve)». Se Feuerbach stesso aveva sentito l’esigenza di tornare sull’argomento dodici anni dopo per difendere la legittimità della sua posizione materialista al di qua della trivialità del gioco di parole tedesco [1], a maggior ragione Simonetti, a quasi due secoli di distanza, si chiede cosa sia rimasto di quel materialismo, oggi che, altro che mangiatori di loto, di serpenti, di testuggini o di locuste: a voler dare nome ai popoli in base ai loro costumi alimentari, come i poeti e gli storiografi greci ricordati da Feuerbach, a molti sulla faccia della terra varrebbe un più generico attributo di mangiatori non di pani [2], bensì di c.a.n.i [3].
Certo, forse dieci anni fa non era ancora così capillare tanto il bombardamento mediatico intorno alla gastronomia, quanto il sentimento di preoccupazione per il destino del pianeta che ha spinto a declinare la questione alimentare nei termini di un consumo più consapevole e di una produzione più rispettosa non solo delle persone ma anche dell’ambiente, sempre che sia ancora legittimo chiamarlo così – come fanno, del resto anche gli inglesi con environment, i francesi con environnement e i tedeschi con Umgebung – ora che abbiamo capito che quello spazio non solo circonda uomo, che potrebbe dunque ambire a dominarlo, ma che con l’essere umano instaura una relazione reciproca. Nel contesto di un’ennesima rivoluzione copernicana che rovescia l’antropologia in ecologia, e che con la pandemia ha raggiunto il suo culmine e probabilmente un punto di non ritorno, il cibo diventa il perno attorno al quale dipanare le possibilità di un ritrovato rapporto tra soggetto e oggetto, interno ed esterno, uomo e natura; e la gastrologia feuerbachiana la bandiera di chi rivendica il diritto a identificare ciò che mangia e, soprattutto, a identificarsi in ciò che mangia.
Siamo quindi alla resa dei conti di quel fenomeno che Karl Marx – proprio mentre porta a compimento la sua presa di distanza da un’antropologia filosofica che non afferra la storicità come condizione fondamentale per definire la condizione umana – designa come la separazione tra esseri umani e natura tipica della nostra modernità? Saremmo dunque all’ultimo atto del processo all’origine della società borghese capitalistica, in quanto processo che – secondo colui che dedica undici tesi alla critica della filosofia di Feuerbach, e che fa proprio il motto di Terenzio Homo sum, humani nihil a me alienum puto – conduce gli individui a non possedere più come proprie le condizioni oggettive della produzione e riproduzione della vita materiale? In altre parole, saremmo prossimi alla riconciliazione di quella scissione e all’inveramento del motto di Feuerbach e, dunque, all’inverso, anche di quello di Terenzio e Marx?
Che quella del gusto non sia questione di individui isolati fuori dalla storia, ma che sia legata, cronologicamente e logicamente, alla scienza sociale per eccellenza – almeno in Occidente – dell’età moderna, l’economia politica, ce lo insegna Agamben: «il piacere che non si gode» di questa scienza non esatta starebbe di fronte al «sapere che non si sa» dell’estetica, l’oggetto dell’una e dell’altra ugualmente forme senza contenuto – il valore di scambio tanto quanto la bellezza – nel cui crinale si collocherebbe il senso «sovrannumerario», a colmare lo spazio tra sensibile e intelligibile [4], che è, in fondo, lo stare al mondo dell’uomo.
Prima e più di Agamben, però, ce lo insegnò il giovane Marx, e proprio in quelle tesi che rivolge a Feuerbach, in cui chiarisce che il rapporto tra soggetto e oggetto alla base di ogni giudizio altro non è che prassi – e dunque, un insieme di determinati rapporti sociali – non perché siano rapporti prestabiliti, ma perché, al contrario, sono frutto delle forme che il cosiddetto «ricambio materiale organico» [Stoffwechsel] tra esseri umani e natura (come dirà di lì a pochi anni elaborando la sua presa di distanza tanto dalla filosofia classica tedesca quanto da ogni materialismo precedente) assume nelle diverse formazioni sociali: uno scambio che preso in sé ha un carattere transtorico, ma che nello specifico della moderna società capitalistica prende la forma di una rottura.
La gastrologia contemporanea, allora, che da un lato rivendica la centralità del senso intermedio come mediatore tra soggetto e oggetto, riconoscendone tanto la radice sensibile quanto la valenza simbolica, farebbe dell’ambivalenza all’origine dell’estetica – e dell’economia politica – un punto di forza dell’integrità di mente e corpo, più che una questione irrisolta dell’epistemologia; e, allo stesso tempo, sarebbe quindi l’attuazione più profonda non solo della prima, ma anche dell’ultima tesi del giovane Marx su Feuerbach, che alla possibilità di un giudizio sul mondo associa la necessità di trasformarlo. Oggi, infatti, dire che l’uomo è ciò che mangia e mangia ciò che è significa essere consapevoli che se vogliamo colmare quella frattura tra noi e il mondo dobbiamo divenire responsabili di ciò che mangiamo, perché da ciò che mangiamo dipendono tanto le sorti degli individui quanto le sorti del mondo (che sono poi la stessa cosa): sapere ciò che mangiamo significa sentirsi responsabili della nostra possibilità di trasformare il nostro – di noi in quanto individui storicamente determinati – modo di stare al mondo.
Mangiare, dunque, sarebbe un atto rivoluzionario.
Del resto, a riconciliare l’antropologia gastronomica di Feuerbach con la critica dell’economia politica di Marx, e a rivolvere il conflitto del materialismo dialettico del secondo non solo col materialismo antropologico del primo, ma addirittura col materialismo volgare dei naturalisti alla Moleschott, ci avrebbe già implicitamente pensato una scelta traduttiva, negli ultimi anni molto diffusa – a ulteriore testimonianza dell’identità tra l’organo del gusto e l’organo del linguaggio – che illumina l’origine fisiologica del tedesco Stoffwechsel nei testi di Marx dai Grundrisse al Capitale: non semplicemente scambio di materia, ma precisamente metabolismo [5].
Scienza naturale e rivoluzione, dunque, finalmente? Come vuole Feuerbach nella recensione in cui ci istruisce, con Moleschott, sul significato etico e politico per il popolo della dottrina dell’alimentazione, perché è «proprio dell’uomo un gusto accompagnato dalla conoscenza, non dalla preghiera». Sinceramente, non so se Marx conoscesse questo testo, successivo alla sua resa dei conti con la filosofia feuerbachiana (mi accorgo ora di non essermelo mai chiesto prima); ma mi chiedo cosa avrebbe pensato di un altro paio di frasi abbastanza paradigmatiche, sebbene non siano divenute, a quanto ne so, famose come quella che invece proprio a quell’enofilo di Marx calzerebbe a pennello, per lo meno nella versione in cui Feuerbach nel 1862 specifica «che l’uomo non solo mangia, ma inoltre beve, anche se non fa rima con il suo essere» [6].
Nella sua prima formulazione, invece, il motto era preceduto da un rimbrotto: «Se volete migliorare il popolo, allora dategli cibi migliori, invece di prediche contro il peccato». E quali sarebbero questi cibi migliori, se non i legumi? Feuerbach individua addirittura nella dieta vegetariana il germe di «una nuova rivoluzione» molto prima di noi, insomma! E poco dopo continua:
«non lasciamo soprattutto che la politica, per quanto attualmente ripugnante e deprimente, guasti il nostro appetito […]. [Il] compito dell’uomo è appunto scoprire la causa della percezione sensibile elevando il suo oggetto a oggetto di scienza» [7].
Che la politica si occupi di ciò che mangiamo è fuor di dubbio; mi domando però se il compito, suo e nostro, debba assumere semplicemente la forma di una rivendicazione della sovranità alimentare che rischia di diventare una sbiadita caricatura di una classificazione etnografica dei popoli in base a ciò che mangiano, o se non ci si debba preoccupare, piuttosto che solo di sostanze, ancora, soprattutto, di relazioni, di forme di socialità alimentare che per ora si insinuano soltanto negli interstizi del capitale, e di certo non ci fanno «la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come [ci] vien voglia» [8]. E, d’altro canto, che la coscienza di ciò che mangiamo sia una forma di autocoscienza, questo è pure certo; ma se non si accompagna con una trasformazione dei rapporti economici e sociali, non rischia di rimanere semplicemente una forma mondana di sacrificio?
Per cominciare a rispondere, magari, potremmo tornare a chiamarci tutte e tutti compagne e compagni – non solo mangiatrici e mangiatori di pane, ma coloro che il pane lo dividono.
Note [1]«Mensch ist, was er ißt», dove ist è la terza persona del verbo essere e ißt del verbo mangiare. Cfr. L. Feuerbach, Il mistero del sacrificio, ovvero l’uomo è ciò che mangia, in Id., L’uomo è ciò che mangia, a cura di A. Tagliapietra, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp. 3-4. [2] Feuerbach ricorda che Omero chiama l’essere umano in generale sitofago, mangiatore di grano o di pane. Ivi, p. 5. [3] I composti alimentari non identificabili del testo di Simonetti. [4] Cfr. G. Agamben, Gusto, Quodlibet, Macerata 2015 (originariamente pubblicato in Enciclopedia Einaudi, vol.6, Einaudi, Torino 1979), p. 27, p. 50, 52, passim. [5] La scelta si deve principalmente agli studi di John Bellamy Foster, ma è ormai consolidata nel mondo anglosassone e molto usata anche nella letteratura in italiano. Della questione dei diversi usi del concetto di “metabolismo” si occupa da ultimo Kohei Saito nel volume Karl Marx’s Ecosocialism. Capital, Nature, and the Unfinished Critique of Political Economy, Monthly review Press, New York 2017. [6] L. Feuerbach, Il mistero del sacrificio, cit., p. 4. [7] Cfr. Id., La scienza naturale e la rivoluzione, in Id., L’uomo è ciò che mangia, cit., pp. 69-71. [8] Cfr. K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 24.
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