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Non c'è una via diversa dallo sperimentare

Intervista a Franco Piperno tratta da Gli operaisti (DeriveApprodi, 2005)


Franco Piperno in una foto dell'archivio storico de L'Unità

Continuamo con la pubblicazione dei materiali per ricordare Franco Piperno.

Qui una sua lunga e dettagliata intervista uscita nel volume Gli operaisti (DeriveApprodi, 2005), curato da Guido Borio, Francesca Pozzi e Gigi Roggero, in cui si parla, tra le altre cose, della sua formazione, delle valutazioni sulle esperienze politiche a cui ha partecipato, del rapporto tra movimenti e memoria.


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Cominciamo dal tuo percorso di formazione politica e culturale.

 Se dovessi caratterizzare la situazione di oggi rispetto a quella dell'inizio degli anni Sessanta, farei riferimento prima di tutto al ruolo diverso che gioca il lavoro nell'innovazione. Una volta l'innovazione in fabbrica aveva certo quella che, in una conferenza di molti anni fa, Romano Alquati chiamava – riprendendola da Marx – la via delle scienze, del pensiero tecnico-scientifico che si materializza in strumenti (ad esempio la cellula fotoelettrica che permette il controllo della catena); l'altra via dell'innovazione era costituita dal risparmio di fatica operaia. Almeno per me gran parte dell'interesse intellettuale della condizione operaia era esattamente questo (non dico che sia così in generale, sto parlando della mia esperienza). L'operaio lì ha una funzione innovativa, se si vuole anche suo malgrado: lui lo fa per risparmiare fatica, ma la conseguenza è generalmente umana, per esprimermi nel gergo della tradizione marxista. Ciò che oggi è venuto a mancare è esattamente questo, mentre quelli sono (esagerando per ovvie ragioni dialogiche) gli anni del processo di estinzione.

Però, a me sembra che tutto il processo di automazione, e poi l'introduzione in senso forte della telematica nel processo produttivo, abbia come conseguenza significativa questo, al di là di una definizione economica della condizione di classe tramite la categoria dello sfruttamento. Fra l'altro su tale definizione io ho avuto fortissime perplessità fin da piccolo, perché per sfruttare bisogna che ci sia qualcuno che davvero produce, cioè qualcuno che accresce davvero il valore di quella merce, che questo qualcuno non sia genericamente tutti perché se no la cosa non funziona. Allora, al di là di come la teoria economica, anche di parte marxista, si è rappresentata il processo, era dubbio che si potesse parlare di sfruttamento, perché questo comporta un'idea di produzione e accrescimento della ricchezza che invece non è così ovvia come sembra, cioè può anche darsi che la ricchezza non accresca mai, che semplicemente si distribuisca in maniera diversa nel tempo di una giornata, dei consumi, delle forme. Dunque, il riferimento alla classe operaia in quegli anni per noi del movimento, e anche per noi della Fgci (perché io in quegli anni ero nella Fgci a Pisa), riguardava le forme di insorgenza, le condotte di massa operaie interessanti proprio dal punto di vista dell'effetto innovativo che avevano sul processo produttivo. Detto ancora in altri termini: in una specie di romanzo su come è andata la storia dell'umanità, la classe operaia appare come quella che realizza il sogno antropologico umano di scaricarsi la fatica, fisica e possibilmente anche cerebrale nei termini in cui è fatica, e quindi in cui è ripetizione. Infatti, è solo parzialmente un problema di capacità di fare lavoro fisico con i muscoli, in gran parte si tratta del fatto che la ripetizione, per come è fatta la nostra condizione umana, comporta una mera fatica; nella tradizione dei movimenti di liberazione, per come corrono nei secoli, la fatica brutale e ripetitiva viene disprezzata. Allora, da questo punto di vista le lotte di classe operaia sono state in qualche maniera la conclusione di questo lungo percorso, che ha portato a una sorta di matematizzazione del mondo vista dall'altra parte. Cioè, tutto questo è stato reso possibile perché in realtà c'è la macchina automatica, e questa non ha una base esperienziale, ma soprattutto simbolica-speculativa. Quindi, appare come una cosa esterna, perché non è nata dall'automatizzazione per esperienza, ma dai teoremi di Turing. Ciò lo si può vedere anche dal punto di vista della vigenza della legge del valore, per dirla in termini a noi famigliari: è come se fosse saltato il rapporto fra valore e tempo di lavoro, non solo nella critica all'economia politica, ma nell'esperienza. Da qui i comportamenti che non si comprendono, cioè il fatto che uno possa ritrovarsi disoccupato a cinquant'anni, tutte quelle cose che, se viste dal punto di vista della vita quotidiana, sono paradossali rispetto al regime a cui la società di fabbrica ci aveva abituato. C'è oggi un rimescolamento del tempo, del modo di concepire il tempo nella vita quotidiana, di come attraverso la categoria del tempo ci organizziamo la vita quotidiana.

Non credo in conseguenza che ci sia una specie di soggettività unica possibile; per me ovviamente non c'era neanche prima, neppure nel Medioevo c'è stata, però il ruolo centrale che giocava la soggettività operaia nell'Italia degli anni Sessanta (per dare un riferimento concreto) era legata all'essere al centro del processo di innovazione, che aveva delle forti conseguenze anche sull'immaginario. L'idea – che del resto c'è anche in Marx – del fattore modernizzante della condizione di classe era poi diventata il punto di approdo di questo sottrarsi alla fatica. È come se consegnando la catena di montaggio al computer ci si fosse nello stesso tempo definitivamente scrollati di dosso la necessità della fatica, ed è come se ciò aprisse delle nuove libertà e possibilità, che a mio parere non c'è un modo di conoscere se non sperimentandole. Dunque, è come se ci fosse da attendersi una moltiplicazione di soggettività. Perché poi le soggettività sono come dei protagonisti collettivi, in cui anche il singolo si identifica e attraverso questa identificazione si spiega il mondo e si sottrae pure alle paturnie del non-senso della sua vita. La soggettività allora è una di queste forme collettive che entrano nel simbolico e permettono al singolo di inserirsi in una cosa che lo rende organico a qualche altra; perché il dolore più forte non è quello della fatica e della disoccupazione ma è quello del non-senso, di essere cioè indotto in una condizione in cui il tempo ti scorre sotto il culo senza senso. Quindi da questo punto di vista io credo che la situazione sia oggi più interessante di quella che c'era quando ero giovane: allora c'era inevitabilmente anche un sacco di paccottiglia, per esempio c'era il marxismo-leninismo, che aveva purtroppo uguale cittadinanza lì dentro.

Credo invece che dal lato economico per così dire, compresa la critica all'economia politica, non possa venire più niente (ora ovviamente esagero). Quindi, per esempio ho un po' di diffidenza verso il concepire un qualche ritorno ciclico della soggettività operaia, il che è naturalmente diverso dal discorso più generale sulle soggettività collettive. Una soggettività operaia in quanto tale a mio parere era profondamente legata al ruolo che il lavoro ha avuto dentro la forma della fabbrica, cioè a quella sua collocazione di cui parlavo prima sull'innovazione, e ciò è fortemente saltato. Per esemplificare, si pensi al tipo di tecnologie che vengono usate negli ambiti produttivi che presentano tassi di sviluppo più alti: sono nanotecnologie, biotecnologie, dimensioni in cui l'elemento del sapere umano accumulato è di gran lunga predominante, e i tempi di queste innovazioni sono tutti quanti legati a questo processo di ricerca e di rapporto (che naturalmente per alcuni versi è anche deplorevole) rispetto alla natura. Nelle biotecnologie e in questi campi il vero valore non è mica dato dal tempo di lavoro che ci hanno messo i ricercatori a trovare il batterio tal dei tali, oppure a scoprire com'era la catena del Dna: il vero valore è la sua capacità di riprodurre i comportamenti naturali e quindi di affidare l’automatico direttamente alla natura. Si tenga presente che nello sviluppo delle tecnologie c'è sempre stata l'idea per la quale il significato vero della tecnica è che ha un suo certo automatismo, così come succede nelle cose naturali. La tecnica propriamente detta non ha bisogno per il suo fruitore della conoscenza, anzi è proprio per questo che la tecnica si diffonde. Prendiamo il computer: la grande maggioranza dei miei amici non ha la minima idea di come esso funzioni, né sarebbe in grado di fare il più piccolo programma. La grande maggioranza dei miei amici usa in realtà il computer come una macchina da scrivere con una memoria molto ricca, per cui tu la puoi interrogare; ma di tutto quell'altro aspetto che fa la potenza del computer loro in realtà non sanno assolutamente niente, ma non è importante che ne sappiano. Tutto questo per dire che l'effetto nella vita quotidiana delle nuove tecnologie, le quali derivano direttamente dalla ricerca scientifica, è di introdurre anche bisogni completamente nuovi. Da questo punto di vista, è come se l'iniziativa politica sovversiva si spostasse direttamente sul terreno della produzione: si tratterà cioè di vedere, dentro una cosa di questo genere, che tipo di bisogni si possono collettivamente inventare.

Questo processo di scaricare il corpo dalla fatica è secondo me una cosa che ha delle conseguenze nel nostro modo di vivere oltre che nella stratificazione sociale. Per dirla in positivo, le soggettività non sono tanto contro, o meglio, è evidente che ci sono anche tutte le forme di resistenza e pure di sofferenza, però non è l'aspetto più interessante, in quanto io temo che il povero o l'emarginato siano una condizione umana; l'aspetto secondo me più significativo è quello di avere delle soggettività per. Io penso che le cose più significative del '68, di quel ciclo di lotte, stiano proprio in questo, di essere delle cose che proponevano e in parte realizzavano – magari in una misura spesso mutilata – altri modi di vivere. Quindi, a me sembra che oggi ci siano delle possibilità per via dell'innovazione tecnologica, che concretamente vuol dire che il tempo di lavoro necessario è fortemente ridotto dal punto di vista del bisogno sociale. Dal punto di vista del disciplinamento il discorso è diverso. È come per la legge del valore: secondo me quella non vale più da un sacco di tempo, diverso è il fatto che poi dal punto di vista dell'organizzazione sociale vi si ricorra ancora come elemento di disciplinamento.

Allora, il mio interesse, anche umano e sentimentale, è per tutte le forme di cooperazione che noi possiamo fare senza prima aver fatto la rivoluzione e scacciato i nostri nemici. Se per esempio pensiamo che il comunismo sia un'alternativa non di ideale proclamato ma prima di tutto di vita quotidiana, di modo di vivere, anche di umanità e oserei dire di dolcezza, allora la cosa interessante è sperimentare quello che a noi sembra adeguato, e subordinare tutto a questo tipo di esperienza. Non pretendere che tutta l'Italia o tutti i Centri sociali sperimentino, nessuna di queste cose in partenza è universale, casomai l'universale sarà un punto di approdo. Ma per riacquistare il nostro potere di agire e quindi anche per potere appropriarsi di questo terreno di possibilità che lo sviluppo delle scienze del lavoro umano e del sapere in generale permettono, non c'è una via diversa dallo sperimentare. Io non ci credo che ci sia una qualche teoria in grado di dirci cos'è che dobbiamo fare, proprio perché è come se fossimo passati attraverso uno stretto e usciti in mare aperto, e avessimo prima di tutto il bisogno di sperimentare nella navigazione, ovviamente aperti al naufragio. Quindi, sono interessato a tutte le esperienze di autogoverno. A me sembra enormemente più importante che un quartiere riesca ad appropriarsi di tutti quegli spazi di libertà che ci sono e non sono occupati da nessuno; non è che deve andare lì per cacciare un altro, perché il capitalismo spesso non vede neanche alcune attività non avendo una possibilità di utilizzazione in termini di aumento progressivo del rendimento, è come se avessero l'orizzonte delimitato dagli strumenti che usano. Quella è la forza, quello per me è un elemento di costruzione della soggettività. Spero anch'io naturalmente che si possa costruire una soggettività abbastanza universale da poter essere all'altezza del genere umano; ma penso che ciò, come in altre epoche, sarà un frutto di ricerca collettiva e anche di scelte drammatiche. Per esempio, penso che sia sbagliato tentare di organizzare i precari attraverso un sindacato. Anch'io chiaramente credo che ci sia bisogno di garantire loro dei diritti, ma questi diritti sono proporzionali alla loro forza, non è che vengano da qualche teoria generale su quello che è giusto per gli umani, è legato alla loro capacità di organizzarsi. Una cosa che a me interessa di questo tipo di lavoro precario è il fatto che il tipo di garanzie che richiede sono le stesse che dovrebbero essere date in generale a tutti i cittadini. Piuttosto che regolamentare la forma di prestazione del lavoro precario attraverso degli accordi tra sindacati e padroni o cose del genere, sarebbe meglio garantire al cittadino in generale delle cose che vanno dalla sicurezza alla pensione. Comunque, questo è solo un esempio per dire che ci sono alcune iniziative che non seguirei più; naturalmente fermo restando che se invece le fanno, la cosa funziona e va bene io sono contento, non è che abbia un atteggiamento negativo.

Allora, bisogna vedere la soglia della cooperazione a partire dalla quale è possibile intervenire per usare innovazioni e tecnologie anche in un altro modo. Però, a me questa sembra una via positiva (nel senso ottocentesco di positiva, cioè di concreta) per affrontare anche le nuove forme che deve avere l'organizzazione politica. Siamo, come in altre epoche, in un momento in cui produzione e lotta politica coincidono: solo se sei capace di produrre bisogni o desideri o passioni che riescono a utilizzare queste nuove tecnologie tu hai un certo tipo di protagonismo. Altrimenti puoi avere sempre (cosa assolutamente legittima e umana) le forme di resistenza, comprese le forme operaie di resistenza, che sono dignitosissime intendiamoci, però nello stesso tempo mi fanno venire il magone, come ad esempio a Crotone quando hanno lottato per tenere aperto uno stabilimento chimico, cosa che non ha più alcuna giustificazione da nessun punto di vista, è come quelli che lottano contro le macchine, anche se da una parte ti senti sentimentalmente con loro. È la stessa sensazione che ho avuto con quelli delle Brigate rosse, giudicavo pazzesco quello che facevano, ma nello stesso tempo mi sono sentito per alcuni aspetti dalla loro parte: una parte che era destinata a perdere, ma toccava perdere insieme. Casomai c'è da capitalizzare su quella sofferenza, è una brutta espressione, voglio dire che c'è da tenere conto degli elementi positivi di sentimentalità che ci sono proprio in quel modo di difendersi.

 


Potere operaio ha rappresentato una forma di organizzazione di cui sarebbe importante mettere in evidenza limiti e ricchezze. Quanto un'analisi critica di questo tipo può essere oggi utile, nel momento in cui uno dei problemi centrali è la reinvenzione di forme di cooperazione all'altezza dei desideri e delle forme di vita delle soggettività contemporanee? Tu sei in una posizione importante per rispondere, in quanto sei stato una delle figure principali, per certi versi la più influente, nelle scelte anche organizzative di Po.

Nel ricostruire le cose mi sento sempre come se non fossi stato neanche messo davanti a delle vere scelte; era talmente collettiva la tensione (poi, ben inteso, ognuno lavorava anche per i fatti suoi, studiava) che l'ho vissuta troppo dall'interno per riuscire a fare differenze. L'aspetto che mi sembra importante nella domanda è come avere e rendere la cooperazione politica (o se si vuole la forma-partito, per metterla nei termini tradizionali, dove non si parla più del partito ma solo della forma-partito come problema dell'organizzazione) adeguata a questo grado raggiunto dalla cooperazione sociale. Questo è il vero problema. Ho una fiducia forse immotivata nel fatto che l'autorganizzazione sia la via maestra, però dicendo autorganizzazione ancora non si è detto niente, perché poi questa è completamente fatta dalle proposte, non è una cosa metafisica. E soprattutto c'è un elemento di errore, io ero sperimentalista prima che mi succedessero i guai, sono profondamente legato all'idea che non si possa conseguire niente se non si sbaglia. Quindi, quando mi dicono: «avete sbagliato questo o quello», sono completamente d'accordo e dico che abbiamo sbagliato molto di più, ma che non c'è una via per arrivare alle cose se non facendo errori. Secondo me il vero punto è esattamente come la cooperazione politica, quindi l'elemento cosciente, possa essere adeguata.

Io penso che la via molecolare sia quella giusta. Per fare un paragone con un momento importante della storia politica d'Italia, quando c'è stato il dibattito nei comunisti italiani negli anni intorno al '19, devo dire che idealmente parteggio più per la componente torinese che per Bordiga. Quello di fare una federazione del Partito comunista in ogni provincia d'Italia era un progetto burocratico sbagliato, invece l'idea dei torinesi era di lasciare che dalle diverse province, città o esperienze d'Italia arrivasse il rapporto con quello che doveva essere il Partito comunista. Dunque, non la scelta di venti tesi e andare ai congressi socialisti, ma piuttosto un'esperienza di autorganizzazione fortemente legata agli operai, e da questa far nascere il partito. Non è che pretenda di indicare quella come soluzione, perché non è questo il punto e non è la situazione. Però, credo profondamente nella capacità e nella completezza che si può dare solo nella concretezza di esperienze locali, e poi il mettere in relazione questi tentativi attraverso la forma – per me quella sì tradizionale – della riunione, della parola, cioè della discussione. Perché la discussione ha come esperienza umana di grande importanza il fatto che in essa (salvo quando non sia profferta di comandi) necessariamente tutti gli interlocutori sono messi su uno stesso livello. È paradossale che perfino quando si incontrano sindacati e padroni alla fine bisogna che ci sia una capacità nel chiudere le trattative; oltre ai casini, alle lotte, alle forze in campo, conta anche la cooperazione umana come elemento generale del modo che hanno gli esseri umani di stare insieme. Quindi, credo a delle forme – tradizionali se si vuole – di democrazia legate al collettivo, piuttosto che a una struttura di rappresentanza per delegato, io lì non mi sono mosso molto. È come per il federalismo: il vero federalismo è basato sul fatto che le città (non le regioni che non ci sono) aderiscano a un progetto di stare insieme, ma è basato anche sul fatto che la città se ne possa andare. Per far nascere il potere non dal corpo del sovrano che delega, ma viceversa dalle città che si mettono insieme e costruiscono queste forme, bisogna necessariamente che ci sia una rinuncia di sovranità dell'elemento più piccolo, è lui che rinuncia a una parte della sua sovranità per costruire la cosa più grande.

Come metro per giudicare se una cosa va o no c'è il grado di autorealizzazione degli individui che compongono il collettivo. Non sono assolutamente per una dimensione ascetica, sono per una cosa sensuale e piacevole, solo che metto l'accento sul fatto che uno dei guai introdotti nella mentalità dall'epoca capitalistica è quello di cercare la ricchezza dove essa non c'è, oppure di avere una rappresentazione necessariamente impoverita della ricchezza perché questa è rappresentata per esempio in termini di reddito pro-capite. In questo c'è sicuramente una promozione dell'individuo come di quello che io chiamo l'individuo sociale, che è per me la categoria interpretativa più interessante. Sono convinto che il punto di approdo dell'operaio-massa, per dirla in termini a noi famigliari, sia stato poi l'individuo sociale, cioè l'individuo che è all'altezza del genere, in cui l'elemento di cooperazione con l'altro è diventato un suo stesso bisogno. Allora, questo individuo sociale per molti aspetti c'è già e noi dovremmo cercare di agire (in questo mi interessa il vostro discorso sulla cooperazione politica) come se lui già ci fosse, non come se dovessimo costruirlo. Detto in altri termini, secondo me bisogna agire come se fossimo nella pienezza dei tempi, non come se bisognasse aspettare ancora un'altra epoca. Dobbiamo concepire la fine della storia, nel senso che non c'è la necessità di rincorrere il progresso, ma piuttosto di vivere all'altezza delle nostre possibilità. Quindi, bisogna avere per esempio un atteggiamento negativo verso le cose che comportano troppo futuro, al limite avere verso di esso un atteggiamento negativo in quanto imbroglio. Ovviamente anch'io penso agli elementi inediti, mai visti, però questi per me sono più elementi nascosti del presente che elementi che devono ancora venire. Io continuo a pensare che sia un diritto la violenza esercitata in forma di autodifesa e anche di affermazione delle proprie istanze; però è diverso questo, che è un modo a mio parere saggio e inevitabile di concepire la lotta politica, dal pensare che per prima cosa sia necessario scontrarsi con lo Stato. Io tenderei più a trovare tutti quegli aspetti del territorio immaginario dove lo Stato non c'è, non è in grado di esserci, e che sono però elementi che a noi interessano e piacciono, piuttosto che avere una logica antagonista.

 


Ritorniamo all'analisi dei tuoi percorsi all'interno dell'esperienza operaista. 

 Quando parlo di operaismo mi riferisco a coloro che hanno ri­massaggiato il cuore della tradizione operaista italiana, a partire dal gruppo dei «Quaderni rossi». Già quell'esperienza aveva delle carat­teristiche che scartavano rispetto all'operaismo italiano, che era nato tra fine Ottocento e inizio Novecento e subisce una forte influenza di Sorel, in termini di orgoglio dei produttori. Gramsci giovane è ri­conducibile a quel tipo di influenza, anche Nenni, e naturalmente lo stesso Mussolini. Negli anni Sessanta si tratta di un altro operaismo in Italia: non l'orgoglio dei produttori, ma il rifiuto del lavoro. Gli operai che aderivano a Potere operaio, compresi quelli vecchi, ave­vano in odio la propria condizione operaia. Se si vuole la si può met­tere da una parte in termini di valorizzazione come forza-lavoro, che va insieme all'orgoglio della propria condizione, e dall'altra come crescita della coscienza di classe e quindi cumulazione politica. Anche se noi abbiamo preso delle cose dalla tradizione anarco-sindacalista, la differenza su questo punto era però netta: per noi (detta in maniera molto schematica) il fine della lotta era la distruzione della condizione di classe operaia, non invece la sua generalizzazio­ne come elemento morale positivo. Per noi non è stato intellettual­mente un problema contrapporci, eventualmente sul terreno stesso della violenza, con le organizzazioni operaie, perché non credevamo che l'operaio in quanto tale rappresentasse la dimensione della ve­rità; quindi, ci sembrava inevitabile che si finisse alle mani ed even­tualmente a maniere più pesanti con la tradizione socialdemocrati­ca. Non che ricercassimo questo come elemento di verità, però non ci sorprendeva che alla fine ci trovassimo il Pci come controparte dal punto di vista della repressione; ci sembrava, forse con un elemento di masochismo, perfettamente coerente con quello che noi pensava­mo del Pci e della socialdemocrazia. Le cose che i socialdemocratici tedeschi avevano fatto dopo la Prima guerra mondiale non ci sem­bravano dei tradimenti, ma a loro modo una forma di coerenza con la loro interpretazione della centralità del processo produttivo e della posizione che la classe operaia vi occupa. Da qui anche esigenze che altrimenti sembrano inconcepibili. Per esempio, per noi è stata fon­damentale la critica a Gramsci, in anni in cui tutti civettavano con lui; oppure la critica dell'esperienza socialdemocratica tedesca e delle sue analogie con quella sovietica. Qui troviamo le cose belle di Sérge, in cui la stessa organizzazione russa viene tutto sommato in­terpretata come una variante di quella kautskiana, anche se gli uni volevano appropriarsi dello Stato e gli altri no. Quando dico i russi non dico necessariamente Lenin e in ogni caso non tutto Lenin; ci sono suoi testi, tipo Stato e rivoluzione, che vanno esattamente in un altro senso. Però, tutta la teorizzazione del Partito comunista russo è fatta in realtà in maniera assai analoga alla socialdemocrazia tedesca, su posizioni più radicali e tenendo conto che i russi erano co­stretti alla clandestinità, costrizione che i tedeschi non avevano; ma per il resto l'apparato, il funzionario di professione ecc. coincideva­no. C'era anche una sorta di accecamento (e su questo Walter Benja­min ha ragione) da parte dei bolscevichi russi attorno al progresso, al fatto che l'Unione Sovietica dovesse competere sul piano della produzione di ricchezza con i paesi capitalisti.  

L'esperienza di Potere operaio nasce anche attraverso compa­gni che vengono dalle federazioni giovanili dei partiti, in parte pure dal Pci, i romani per esempio vengono quasi tutti dalla Fgci e quelli più anziani magari dal partito, anche in Toscana. In Veneto è diverso, Toni è stato segretario della federazione socialista di Padova, in­fatti conosceva Panzieri quando questi era vicesegretario del Psi sotto Morandi; successivamente invece c'è stata la generazione di Despali che non aveva fatto niente nei partiti. Anche Alberto Magnaghi viene dal Pci, Sergio Bologna no, ha un giro diverso, in parte vengono dal Pci pure i napoletani. Comunque, in Potere operaio la critica al socialismo reale vi è già dall'inizio, non abbiamo aspettato la caduta del blocco. Era diverso ovviamente l'atteggiamento di soli­darietà che si aveva verso il Vietnam perché era in lotta con gli americani, ma non c'era nessuna illusione sullo Stato socialista del Vietnam o su quello cinese. Salvo gli scritti di Tronti che, con una certa genialità, aveva capito che la funzione vera della Cina era stata quella di impedire la chiusura del mercato mondiale; questo costituiva di per sé un elemento di sovversione, non perché i cinesi con­fermavano il potere operaio, ma nel senso che l'essere a parte di quella cosa enorme che è la Cina introduceva una zeppa nel merca­to. Quindi, noi abbiamo sempre avuto un atteggiamento assai critico­ nei riguardi delle lotte di liberazione nazionale, anche se, secondo me giustamente e ovviamente, eravamo con loro per una ragione primaria, come in prima approssimazione si è con quelli che lottano. Contrariamente a quello che facevano i compagni di Lotta continua, noi abbiamo fin dall'inizio molto insistito sulle condizio­ni di classe, per esempio sulla parola d'ordine del salario, che in qualche maniera americanizzava la proposta di Potere operaio. Per esempio, per noi la cosa decisiva del «salario uguale per tutti» era il tipo di ricomposizione che permetteva, non pensavamo certo che gli aumenti salariali uguali per tutti trasformassero gli operai in quadri comunisti. Innanzitutto, era una maniera di svelare il mec­canismo salariale e di ricondurlo ai rapporti di forza, sganciandolo dalle cose economiche, perché in tutta la tradizione sindacale e an­che comunista si pensava che nello scontro capitale-lavoro si doves­se tenere conto dei dati economici obiettivi. Noi invece insistevamo sull'altro aspetto, oserei dire in questo caso un po' come lo defini­sce Sraffa: in quel libretto aureo che è Produzione di merci a mezzo di merci sostiene apertamente che il salario è una specie di bottino di guerra, cioè quanto prenderai dipende dalla tua capacità, non di­pende dal valore della forza-lavoro. Tralasciando se sia giusto o meno, da un punto di vista politico è un elemento di grande forza. Uno non si mette a lottare per far nascere il sole, perché normal­mente è un processo che va da sé, quindi se il salario era determi­nato da leggi economiche c'era poco da giocare; se invece il salario è frutto del braccio di ferro per cui alla fine prende di più chi è più ca­pace di imporsi, la stessa lotta politica assume un tipo di legittima­zione diversa, quasi ontologica, strutturale. Il libretto di Sraffa cre­do che sia uscito in traduzione italiana nel '59 o nel '60, io ero an­cora al liceo; nel '60 ci sono stati gli scontri per il governo Tambroni, che per la mia generazione sono stati la prima esperien­za, siamo usciti per la strada anche a Catanzaro che era un posto sper­duto, ci siamo affrontati con la polizia, è stata la nostra nascita. Que­sti elementi di scontro politico rendevano la lettura dei libri più si­gnificativa, come sempre succede, perché vedi più cose se sei dentro le lotte. Non dico necessariamente che il filone «Quaderni rossi» e «Classe operaia» venga da là perché non è vero, però certamente è un libro coerente con questo tipo di impostazione, malgra­do venga da tutt'altra direzione. Ha funzionato come un modo di­verso di affrontare il problema economico e anche un modo di con­cepire le cose che Tronti scriveva in Operai e capitale quando parlava del carattere immediatamente politico della lotta economica, non poi il secondo Tronti dell'autonomia del politico. 

  Quindi, avevamo questi elementi di novità, alcuni elaborati da noi, la maggior parte erano cose prese – come succede con le espe­rienze politiche – da gente che era venuta prima. Tuttavia, in que­gli anni in Italia sembrava che l'insieme di questo altro movimen­to operaio, che era sempre esistito, fosse finalmente fuso in un'esperienza concreta. Mi ricordo che avevo incontrato Gasparotto qualche anno dopo la morte di Potere operaio e gli avevo chiesto cosa ne pensava di tale esperienza, perché io avevo idealizzato di più «Classe operaia»: Gasparotto mi aveva detto che non c'era paragone, cioè l'esperienza di Potere operaio era stata estremamen­te più larga. Comunque, in Potere operaio rivivevano anche molte cose di «Classe operaia», dell'inizio dei «Quaderni rossi», anche l'atteggiamento verso l'inchiesta, che è stato un altro elemento fondamentale per la nascita di questi gruppi. 

Secondo me la vera sconfitta si era determinata con la crisi del petrolio che a mio parere è il vero convitato di pietra di quegli anni. Gli assenteismi in Fiat prima avevano raggiunto punte del 19-20%, il che di fatto voleva dire che Agnelli non poteva materialmente en­trare in fabbrica, c'erano condizioni nell'erogazione del lavoro di fabbrica che erano state conquistate dagli operai e che erano in parte condizioni non codificate da nessun accordo. Tutto questo è stato veramente annullato dalla crisi del petrolio. Prima di tutto con essa si constata quanto integra sia la capacità di reazione dei padroni, come questa sappia giocare sulla congiuntura internazionale, da­vanti a cui tu ti senti viceversa sguarnito. Questo ha anche compor­tato un'attenzione assai più pronunciata di Potere operaio per gli aspetti immediatamente politico-statuali dello scontro, e una certa deriva verso la violenza che è a mio parere frutto di tale situazione. Di nuovo, non parlo della violenza nel senso dello scontro che per me è fisiologico, ma dell'organizzazione paramilitare (magari spes­so farsesca) della violenza, e ne parlo anche in termini autocritici. Alla crisi di quegli anni alcuni reagiscono intensificando o tentando il rapporto organico con le Br. In Potere operaio si determina (e io collaboro a questa cosa) una specie di critica al modello Br e un'accentuazione invece (se si vuole è paradossale, ma è fatta in funzione della critica al modello brigatista) degli elementi leninisti del parti­to. Dunque, non tanto perché credessimo al modello del partito le­ninista, quanto per impedire una sottospecie dell'organizzazione di tipo castrista-maoista, che era sicuramente peggiore del modello le­ninista. Questo per dire che nella seconda parte della vita di Potere operaio il dibattito è azzoppato: da una parte si è perso l'intervento in fabbrica, o meglio continua ma non è più il motore vero, la di­scussione si è invece spostata sugli aspetti antistatuali. È secondo me meno interessante la seconda parte, anche se più drammatica per noi che l'abbiamo vissuta. Posso aver trovato una buona idea quella di scioglierci, salvo le furbizie che ci sono state.  

 


«La classe», non solo come giornale ma come esperienza, è uno dei momenti che, seppur durato per pochi mesi nel '69, è stato di particola­re importanza. 

 In quei mesi il vero merito de «La classe» è stato di essere il me­gafono di quello che avveniva alla Fiat, e quindi di circolare proprio come circolavano le automobili in Italia, distribuendo i giornali, qualche volta diffusi davvero da due o tre persone. Dal punto di vista dei contenuti io non ho mai più visto quel giornale; certamente ci sono in nuce molte cose che poi si sviluppano in Potere operaio, ma credo che da un punto di vista politico il suo significato stia in una motivazione perfettamente trontiana, per cui la strategia è dentro la classe e invece l'organizzazione è la tattica. «La classe» ha giocato proprio il ruolo di rappresentare grumi di organizzazione su un di­scorso strategico facile da far passare come immediatamente rece­pibile dagli operai, che però mancavano di questa possibilità di far ponte fra una cosa e l'altra. E «La classe» a mio parere ha molto aiu­tato la Fiat, soprattutto nel rapporto fra quello che succedeva a Tori­no e la situazione in altri posti. In particolare ricordo la funzione che ha avuto a Roma sulle fabbriche della cintura. Pur non essendo una città operaia, a partire dal fascismo Roma ha avuto nuclei di classe operaia, qualche volta anche in settori tecnologicamente avanzati, come per esempio nella televisione o nella telefonia, la Fatme, l'Ale­nia e le imprese della ricerca spaziale. Noi peraltro qui a Roma abbiamo usato le facoltà scientifiche per penetrare là dentro, poiché erano fabbriche da un punto di vista tecnico molto caratterizzate, funzionava proprio la provenienza dalle facoltà di Ingegneria, di Matematica, di Fisica; abbiamo anche intrecciato dei buoni rappor­ti, durati qualche anno. «La classe» è stata il modo con cui noi siamo arrivati in gran parte di queste fabbriche, anche a Pomezia. 

Successivamente sono poi usciti quattro numeri di «Linea di massa», sulla scuola e la formazione (che è stato fatto a Roma), sui tecnici, sui comitati di base di Milano, su Porto Marghera. L'anno dopo c'è stata «Compagni», una rivista in due numeri, un'opera­zione fatta con Feltrinelli. 

 


«Potere operaio», insieme a «Lotta continua», è il primo giornale settimanale distribuito in edicola. 

 Per quanto riguarda il giornale, cominciamo intanto dal basso che come sempre contiene più verità delle cose che stanno in alto. Abbiamo realizzato un'operazione editoriale che aveva la garanzia di fatto dalle librerie Feltrinelli, per cui potevamo andare in edicola. Questo grazie a Giangiacomo, e il nostro accordo con lui era stato che le librerie Feltrinelli, che negli anni Settanta avevano punti di vendita in tutta Italia, ci compravano un certo numero di copie in anticipo. Con quello che ci compravano le librerie Feltrinelli, dato che ovviamente non pagavamo i giornalisti, affrontavamo il problema della stampa e dei costi di distribuzione; poi con la distribuzione militante­ riuscivamo a raggranellare anche i soldi per i singoli luoghi. Finché è durata, era stata un'operazione non male, che aveva sfruttato i legami sociali e il rapporto con Feltrinelli, e l'anda­re in edicola corrispondeva a una capacità di penetrazione che non avremmo avuto in altro modo. Avevamo già pensato in quegli anni alla radio, abbiamo fatto qualche trasmissione pirata. Feltrinelli ci aveva dato alcune apparecchiature di Radio Gap; non le avevamo costruite noi, Giangiacomo ci ha dato sette apparecchiature di trasmissione, poi tre si sono scassate subito. Per esempio, nel quartie­re di San Lorenzo a Roma facevamo le trasmissioni quando c'era il giornale radio più seguito; la nostra trasmittente non aveva potenza tale da coprire Roma perché si doveva fare clandestina, quindi biso­gnava contare sul periodo prima che la parabola della polizia posta­le ci individuasse. Allora andavamo su tetti tranquilli, sempre tra­mite giri di compagni, là montavamo l'antenna, aspettavamo le otto, quando tutta la gente era davanti alla televisione interrompe­vamo la trasmissione, restava l'immagine ma invece il sonoro era nostro. Ciò aveva avuto un effetto straordinario sui quartieri roma­ni. Una volta c'era anche Bifo in una di queste trasmissioni; poi facevamo anche cose divertenti, alternando voci maschili, femminili, gente più o meno giovane. Quindi, la cosa aveva un aspetto di orga­nizzazione che era assai migliore della realtà, perché poi facevamo le cose con le nostre macchine. È da lì che è cominciata l'idea della radio libera, che poi in realtà esploderà nel periodo '76-77 soprat­tutto con Bologna e Radio Alice. 

 


Qual era la redazione di «Potere operaio»? 

 Ci sono state tre versioni di «Potere operaio»: una è il settimanale con Feltrinelli, quindi il mensile, poi c'è stato un «Potere ope­raio del lunedì». La prima versione di «Potere operaio», quella di cui parlavamo prima, e «Potere operaio del lunedì» avevano una re­dazione a Roma; il mensile aveva invece la redazione a Milano ed era anche in parte fatto da compagni diversi. Il mensile era diventa­to (se mi si passa il termine pomposo) la rivista teorica, invece il settimanale tentava di avere un foglio di quotidiano, con un tipo di impostazione rapida. C'era un certo uso della fotografia, onestamente penso che ci fosse una grafica notevole: abbiamo anche ottenuto (nessuno lo sa, neanche la polizia) il premio Bompiani per la grafica del numero del 1° maggio del ‘72. Questo lo dico non per una medaglia ma solo per esemplificare il tipo di energie che avevamo raccolto­; anche il rapporto che avevamo con i pittori a Roma non era certo dottrinario, perché fra l'altro queste persone in genere sono bravissime quando dipingono ma appena si mettono a parlare delle loro cose è meglio chiudere le orecchie. Però, era interessante che queste persone venissero alle riunioni; a parte Schifano, c'erano Baruchello o Matta, che era una figura notevole. Anche da un punto di vista letterario non c'era solo Nanni Balestrini, che era già uno formato, veniva dal Gruppo 63; c'è stato un periodo in cui il rappor­to era perfino buono con Eco e, dal momento che questi è un opportunista, il fatto che si fosse avvicinato stava a significare che sen­tiva un elemento tutto positivo. 

 


Quanto una lettura critica delle esperienze dell'operaismo e dei nodi da esse sollevati può essere attuale per i percorsi dei nuovi movimenti? 

 Il movimento no global ha nella critica radicale del sistema di produzione un filo che lo tiene legato all'operaismo. In entrambi i casi c'è un tentativo di fuoriuscire dal sistema, con forme di esodo diverse. Per me era un esodo quando gli operai della Fiat avevano costruito un assenteismo di massa, che arrivava al 20%; lo stesso è per quelli che vanno in fabbrica come scotto transitorio da pagare per accumulare abbastanza soldi per fare altro, magari un viaggio in India o aprirsi un negozio da barbiere, non ha importanza. 

Un altro tema interessante che è riemerso è quello dell'organiz­zazione, non come partito, bensì come tentativo di sottrarsi alla pura protesta, alla semplice voice, per costruire esperienze di eman­cipazione e di liberazione. Penso allora che l'operaismo partito con i «Quaderni rossi» sia utile a questa nuova generazione di militanti perché affronta la stessa questione. Gli operaisti possono essere visti come la generazione che ha dissodato il terreno e fornito alcu­ni attrezzi concettuali utili. 

Faccio un esempio che mi è caro. Negli anni Settanta – soprat­tutto da parte di Lotta continua, e noi di Potere operaio vi guarda­vamo con simpatia – c'è stata la tematica di «prendiamoci la città». Si tratta di una ripresa delle questioni dell'autogoverno, che sono un altro aspetto dei nuovi movimenti. La stessa esperienza sovieti­sta, al di là della tragica fine, è stata importante in quanto forma di organizzazione diversa dalla rappresentanza. Quindi, c'è nella costruzione di esperienze politiche che non siano strutturate attorno alla rappresentanza un elemento di continuità, ancorché talvolta inconsapevole rispetto agli anni Sessanta e Settanta. È anche pos­sibile che il risultato sia quello dell'altra volta, però ciò che conta nelle grandi esperienze di massa non è tanto la soluzione dei problemi, ma i problemi che si sceglie di affrontare. Il problema, se si vuole, è quello del potere, non nel senso di prenderlo ma di con­frontarsi con la capacità del potere capitalistico di affrontare delle questioni. La biopolitica è interessante perché riguarda questioni tradizionalmente sottratte alla politica, su cui però il potere inter­viene ed è capace di tracciare un rapporto unificante. Tutto ciò pone dei problemi di autoregolazione delle comunità umane che vanno affrontate, viceversa la soluzione è di tipo autoritario, un governo del mondo che stabilisce le cose. 

Infine, penso che sia stata la presenza degli immigrati a cam­biare il panorama, anche dal punto di vista sentimentale: è un fatto che si introduce molecolarmente nella vita quotidiana e modifica le mentalità. Nell'Italia degli anni Sessanta la presenza degli stra­nieri era insignificante dal punto di vista del vissuto, mentre ora attorno alla presenza degli immigrati si produce un cambiamento notevole, non tanto per il loro numero, quanto per la qualità che immettono nella discussione. Tutto ciò consente di porre gli stes­si problemi in maniera diversa, non solo in termini di flussi eco­nomici, ma anche di vita delle persone, modificando aspetti umo­rali, sentimentali, lessicali. Gli immigrati come fenomeno di massa sono secondo me il fenomeno più significativo della storia italiana almeno dall'Unità in avanti, ma forse anche prima. 

 


Tu prima hai tematizzato il rapporto tra generazioni politiche e di movimento. Le generazioni dell'operaismo furono fecondamente «di­struttrici di memoria», marcarono cioè una soluzione di continuità netta con la generazione precedente, quella della Resistenza, e un punto di cesura con le retoriche antifasciste dei partiti e gruppi della si­nistra, istituzionale e radicale. 

 L'elemento fondamentale è che quando noi eravamo giovani e adolescenti la generazione che aveva fatto la Resistenza era parte­cipe in maniera significativa del potere. Noi abbiamo avuto da gio­vani ammirazione per la Resistenza, ma quando abbiamo iniziato a fare politica abbiamo constatato che questa storia funzionava come un blocco alle nostre tematiche. Fortunatamente, invece, noi siamo stati sconfitti, e questo ci permette la relazione con le nuove generazioni. È un elemento interessante, vuol dire che una generazione ha continuato a pensare in maniera sovversiva, al di dei compromessi che sempre ci sono nella vita. La generazione del '68 in Italia non è stata assorbita, forse per pochezza dei nostri avversari più che per merito nostro. Questo ha costituito un elemento in più del panorama del movimento attuale. 

Noi siamo una generazione che ha fatto un'esperienza tempo­ralmente lunga, su un periodo tale da permettere di formarci dav­vero, e per alcuni versi in modo irreversibile. Penso ad esempio al­l'esperienza della latitanza, si tratta di cose che incidono in modo irreparabile, è una questione di modo di vita. Il movimento attua­le intanto non è ancora durato abbastanza da far crescere tutta una generazione estranea e ostile. C'è poi un altro elemento più insidioso e complesso: opponendoci alla tradizione egemonica del movimento operaio, noi siamo cresciuti nel confronto anche con lo sforzo intellettuale (penso ad esempio alla critica a Gramsci). I nuovi compagni del movimento hanno criticato l'aspetto tecnico ed economico della società, ma non hanno dovuto anche confron­tarsi con quelli che formalmente e ufficialmente si oppongono alla società. Semplificando, a noi è toccato in sorte di confrontarci con Agnelli ma anche con Togliatti. Ora, Fassino non è Togliatti, ed è visto come immediatamente estraneo. Ciò ha indubbiamente delle conseguenze per la quantità e raffinatezza di argomenti che si forma il militante, però libera anche energia che può essere im­piegata a costruire e non più a demolire. La mia speranza è che con queste nuove generazioni ci sia un atteggiamento rivolto al vivere, mentre per noi il peso del futuro è stato forte. 


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Franco Piperno (1943-2025) è stato protagonista presso il comune di Cosenza dell’ideazione e creazione del nuovo planetario, professore di Struttura del materia e Astronomia visiva all’Università della Calabria ed è altresì noto per la sua partecipazione alle vicende politiche degli anni Settanta in Italia. Ha curato per Machina la sezione «sestanti».

Per DeriveApprodi ha pubblicato: Lo spettacolo cosmico. Scrivere il cielo: lezioni di astronomia visiva (I edizione 2007) e Il vento del meriggio (2008).

 

 

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