In questo articolo Carmelo Albanese propone il concetto benjaminiano di memoria come strumento in grado di sovvertire il modello urbano delle città dominato dalla logica neoliberista. Attraverso i ricordi e la potenza evocativa della nostalgia è possibile restituire senso ai territori, riscoprirli come spazi che accolgono la vita, e progettare, quindi, un futuro altrenativo a quello di un presente «fondato sulla regola dell’omologazione e l’annullamento di qualsiasi prospettiva storica».
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Si parte dal presupposto che uno degli ostacoli più grandi alla religione neoliberista, che necessita di ridurre persone, cose e territori a merci, per includerle nelle logiche del profitto, consista proprio nella memoria, nei ricordi e in particolare nelle memorie e nei ricordi considerati a partire dalla loro relazione con i territori[1]. È dunque inevitabile che si guardi in avanti e si progetti il futuro, o un presente diverso, sempre da una prospettiva intrisa di passato, fino a considerare il presente come il futuro del passato[2]. Partendo da questi presupposti è abbastanza chiaro che qualsiasi ipotesi tesa a sovvertire il modello urbano attuale delle città, restituendo senso ai territori, debba incontrare come prima condizione la disponibilità ad uscire dalla dittatura del moderno per ritornare all'idea di territori pensati per ospitare la vita:
«Quelle vie erano fatte per la gente. Come tutti i veri commons, la strada stessa era il prodotto della gente che ci viveva e che la rendeva vivibile. Gli edifici sul bordo della strada non erano case private nel senso moderno del termine, garage per il deposito notturno dei lavoratori. La soglia di casa separava due spazi vivibili, uno intimo, l'altro comune. Ma né le case in questo senso intimo né le strade come usi civici sono sopravvissute allo sviluppo economico»[3].
Collocare il sol dell’avvenire nelle permanenze degli ultimi bagliori sopravvisuti alla modernità significa, ce ne rendiamo conto, proporre una visione di riscatto dal sapore crepuscolare. Pone in essere un’analogia impegnativa da sostenere tra la parusia di quel sole immaginario che aveva ispirato le principali teorie emancipatorie novecentesche, sempre posto sulla linea dell’orizzonte di un futuro prossimo cui si sarebbe giunti attraverso la coscienza e la lotta di classe, e fioche contraddittorie luci traballanti, che tornano ad essere visibili in permanenze di tramonti riaffioranti dal passato, dalle storie di vita, dai tramandi, dai luoghi vitali salvati all’omologazione.
Individuare pazientemente questi frammenti significa creare i presupposti per future lotte sui territori ispirate a una rinnovata coscienza di luogo[4]. Indicare una via attraverso la quale un pensiero politico, che ancora si vuole emancipatorio, possa riscoprire il valore della memoria storica, lasciandosene di nuovo contaminare e volgendola, in senso benjaminiano, alla costruzione di un presente e di un futuro diversi, partendo dal presupposto che lo spazio e i modi, attraverso i quali si produce storicamente, costituiscono una dimensione prima di tutto politica[5].
Restituire unicità ai singoli territori, dunque dignità, immaginare che in un futuro prossimo deturpare una valle, snaturare gli equilibri di un quartiere periferico coprendolo di cemento e persino recidere un albero, possa far gridare allo scempio esattamente come avverrebbe oggi di fronte all'ipotesi di demolire il Colosseo o Notre Dame. Il «passato popolare senza nome da difendere»[6], da mettere per una volta in rilievo. Dare importanza agli infiniti luoghi della quotidianità, dei territori, difendendoli come siamo soliti difendere le stanze della casa di Augusto.
Si è soliti credere che progresso sia ciò che succederà in avanti e non ciò che ci lasciamo alle spalle. In realtà progredire significa cambiare in meglio le proprie condizioni di vita. Affinché sia possibile, per le società umane, tornare a progredire materialmente, occorre dunque guardare a tutti i momenti del passato in cui ciò è accaduto, riscoprirli, rintracciare in quei momenti le chiavi con le quali tornare a incidere sul presente in modo edificante.
Se fino ad ora ogni tentativo di far riemergere valori del passato, o della tradizione, era visto come un processo di conservazione, occorrerà prendere atto che oggi costituisce uno strumento molto utile per arginare lo strapotere di un presente fondato sulla regola dell’omologazione e l’annullamento di qualsiasi prospettiva storica. Il nostalgico oggi è, necessariamente, un progressista a sua insaputa (se per progresso intendiamo il progresso della società umana e non quello tecnologico). Colui che sente di non poter più accondiscendere alla religione dell’eterno presente e che cerca benjaminianamente, l’ultimo momento utile in cui era ancora possibile sentirsi protagonisti delle vicende del mondo.
Proprio per il carico emancipatorio e potenzialmente rivoluzionario rappresentato dalla memoria dei luoghi, chi prova a ripensare la società e le città attraverso la chiave locale e territorialista, rischia non di rado di essere ritenuto un passatista, o gli viene attribuita l'etichetta, ritenuta erroneamente sprezzante, di nostalgico. Non di rado, anche i discorsi di chi individua nella memoria dei luoghi, una dimensione utile alla ricomposizione del disastro urbano contemporaneo, iniziano con un preambolo che racchiude la presa di distanza dalla nostalgia. È come se il mantra: «intendiamoci, non voglio per questo cadere nella nostalgia», andasse a costituire una specie di retorica richiesta di permesso ad occuparsi del tema della memoria[7], o meglio della città e dell'urbanistica a partire dalla relazione tra le comunità e le memorie dei luoghi, tracciando per questa via una storia parallela, una storia altra. È come se l'uditorio degli urbanisti, quello consolidato, ufficiale, fosse indisponibile persino all'ipotesi che possa esistere un punto di vista disposto a incedere in questo tipo di sentimento[8].
L'idea di volgere lo sguardo all'indietro, “come i gamberi” secondo un intendimento comune, o come il granchio secondo Illich[9] significherebbe, nella visione manichea di molti urbanisti votati al progresso per il progresso, la fine di qualsiasi orizzonte per la disciplina. Invece:
«Ricordare significa lasciare apparire le cose, lasciarle emergere da sotto la superficie dell'acqua, lasciarle sorgere dalle nebbie. Significa anche voltarsi e guardare indietro con occhi pieni di desiderio, tendere l'orecchio per cogliere una melodia affievolita dalla lontananza. Significa risvegliare i morti evocandone le ombre»[10].
Anche chi coraggiosamente rivendica un approccio orientato ai luoghi d'altronde, si limita spesso a sostenere che si può e si deve incedere in un ritorno al passato, che è essenziale ricorrere alla memoria, ma lo si deve fare sempre razionalmente. Facendo molta attenzione a compiere «il balzo della tigre» (Benjamin, 1997) da una prospettiva non razionale, mossi dal sentimento.
Il sentimento confonde, non è lineare, non consente la lucidità dell'analisi. Solo la razionalità può avventurarsi lungo tale sentiero. Eppure, proprio il livello di ottundimento della razionalità in epoca contemporanea (una razionalità tanto ottusa da concepire il posturbano), ci consiglia di compiere il «balzo della tigre» mossi non dalla ragione, ma proprio dal sentimento. Quindi anche, se non soprattutto, partendo dalla nostalgia, la cui potenza evocativa può scardinare l’ineffabilità del presente, sbaragliarlo, riaprire gli orizzonti del pensiero su piani diversi rispetto ai dogmi imposti da una razionalità schiacciata e asservita alle regole del mercato. Finalmente libero dai condizionamenti cui anche i più illuminati processi razionali, i più audaci, i più antagonisti e anticonformisti, sono esposti, perpetuando inconsapevolmente le tante epifanie nascoste nella prepotenza del neoliberismo.
Sostenere il bisogno del «treno sentimentale» della nostalgia significa permettere al pensiero scientifico e razionale di lasciarsi contaminare dall'immateriale, da ciò che è rimasto fuori dal metodo (Amsterdamski, 1986) e che può costituire un valido strumento per «generare assiomi differenti»[11]. Solo dopo sarà possibile tornare ai procedimenti razionali attraverso un'intellettualità rinnovata, attraverso un pensiero politico nuovamente forte che sappia riprendere coscienza di sé e sia in grado di guidarci nei passi successivi.
La nostalgia, della quale in questa sede si vogliono prendere le difese, è dunque tutt'altro che una retrotopia nella quale smarrirsi (Bauman, 2018), quanto piuttosto uno slancio all'indietro dal quale comunque si torna al presente, sia pure per certi versi un po' cambiati e nuovamente umani.
[1] «Occorre tuttavia rilevare come lo spazio che appare oggi nell'orizzonte dei nostri pensieri, della nostra teoria, dei nostri sistemi, non sia un'innovazione; lo spazio stesso, nell'esperienza occidentale ha una storia, e non è possibile misconoscere questo intreccio fatale del tempo con lo spazio», M. Focault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Mimesis, Milano-Udine 2011, p. 20. [2] I. Illich, Nello specchio del passato, red edizioni, Como 1992, pp. 181, 182. [3] Ivi, p. 49. [4] L. Decandia, Dell'identita. Saggio sui luoghi: per una critica della razionalità urbanistica, Rubbettino Editore, Catanzaro 2000, pp. 69, 70. [5] H. Lefebvre, Spazio e politica, Ombre corte, Verona 2018, pp. 56, 57. [6] Dal documentario: Pasolini e la forma della città, Raiteche, 07/02/1974., [7] G. Consonni, Urbanità e bellezza, Solfanelli, Chieti 2018, pp. 18, 19. [8] «Fin quando l'urbanistica somiglierà a una disciplina di policies di polizie per la città, fin quando essa avrà un carattere prescrittivo, allora sarà impossibile che assuma orecchie e occhi nuovi e che sia una disciplina anzitutto di ascolto delle città», F. La Cecla, Contro l'urbanistica, Einaudi, Torino 2015, p. 14. [9] I. Illich, op.cit., p. 194
[10] I. Illich, op.cit., p. 191 [11] D. Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città, Ombre corte, Verona 2012, p. 43
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Carmelo Albanese, nato a Roma nel 1969 è filosofo e urbanista. Autore di diversi saggi, romanzi e docu-film.
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