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Mario Cresci. Un esorcismo del tempo



Pubblichiamo un articolo di Arnold Braho sulla mostra Mario Cresci. Un esorcismo del tempo – curata da Marco Scotini e Simona Antonacci – esposta al MAXXI di Roma e conclusasi qualche giorno fa.


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Nove fotografie in movimento documentano l’andamento circolare di un cavallo bendato trattenuto con delle corde da un contadino e mosso, forse, su richiesta proprio dello stesso autore. Ognuno dei nove scatti, che compongono questo frammento della serie Geometria Naturalis (Tricarico 1975, Bergamo 2011) di Mario Cresci, è accompagnato da una riduzione in segno di questo movimento, rappresentata da un cerchio nero su fondo bianco, che segue nel campo visivo il movimento dell’asino, occupando uno spazio sempre diverso. All’interno di queste cornici, grazie ad un sistema associativo e analitico dell’immagine, si manifestano diverse temporalità, che appartengono sia ai soggetti rappresentati, sia all’assenza dei soggetti stessi, al loro doppio, alla loro rappresentazione ridotta a segno. Da questa serie di lavori emerge ciò che compone il tratto caratteristico dell’opera di Mario Cresci: il rifiuto del design e della fotografia al servizio della grande industria, notoriamente legata a strutture di diseguaglianza e violenza di classe. Al rifiuto si accompagna l’avvicinamento a una cultura rurale e pastorale in un luogo lontano da tutti e tutto: Matera.

Cresci ha costruito in Lucania, tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Ottanta, la sua personale pratica fotografica, immergendosi in una profonda ricerca sul campo che intreccia esplorazioni legate all’ identità dei luoghi, alle soggettività e alla cultura materiale, offrendo un’inedita meditazione visiva sul tempo. La sua azione fotografica opera con un metodo «interstiziale, che si situa nello spazio di un intervallo tale da innescare una catena interminabile [1]», ed è con questa lettura critica che la mostra Mario Cresci. Un esorcismo del tempo, a cura di Marco Scotini e Simona Antonacci, che si è appena chiusa, colloca l’opera dell’artista – con un’eccellente messa in scena – all’ultimo piano del MAXXI di Roma.

Ad aprire l’esposizione Un esorcismo del tempo è l’estensione di un evento che prende forma grazie a un carosello di immagini, realizzato attraverso il mezzo fotografico, dove ognuna è l’estensione di quella che la precede, e dove ogni soggettività sembra fondersi in un gruppo sociale piuttosto che rimanere isolata. L’evento in questione rappresenta la protesta dei contadini dopo il terremoto del Belice del 1968, e mette in luce l’attenzione di Cresci verso una politica dell’evento e la costruzione materiale e corporale dello stesso che accompagnerà tutta la mostra. Se è vero che per effettuare un’espressione sociale [2] non si passa dal micro al macro, dal locale al globale, tramite astrazione o totalizzazione, ma attraverso la capacità di tener insieme e di concatenare, è vero anche che nelle grandi serie fotografiche di Mario Cresci l’adozione di una metodologia pre-operativa, con una forte inclinazione antropologica, agisce in funzione di uno scenario ben delineato. Il micro risulta conditio sine qua non per l’espressione di un clima specifico e originale, in un fare fotografico che non permette l’assegnazione di un nome o di un’identità ai personaggi che lo abitano, quanto piuttosto una classe sociale di appartenenza, della subalternità del Mezzogiorno.

L’arrivo di Cresci nel Sud Italia, assieme alla missione urbanistica del gruppo «Il Politecnico» dopo l’elaborazione di un grande piano regolatore di Tricarico, città vicino Matera, coincide con un periodo importante della storia italiana ed Europea segnato dalle lotte operaie, dalle proteste studentesche, dal Sessantotto. È anche attraverso l’allestimento che questo concatenamento tra micro e macro si esprime: all’interno dello spazio infatti le peculiari strutture allestitive modulari compongono delle grandi «colonne vertebrali» che, espandendosi per tutta l’esposizione, assumono la forma labirintica tipica del capoluogo Lucano. Su di esse, sono esposte le serie fotografiche emblematiche di Cresci, composte da circa 400 scatti vintage, una mole densissima di lavori in cui la concezione del tempo dell’evento stesso viene messa in crisi anche grazie alla sua «messa in scena» a parete. Ecco allora che il rapporto lineare di causa-effetto non risulta più un codice esaustivo per comprendere le condizioni sociali di quel preciso periodo storico, quanto piuttosto emerge la necessità di dover attraversare infinite temporalità esorcizzandole. Riconoscere gli spettri che infestano le condizioni sociali del nostro tempo (A. Gordon) è una caratteristica che risulta nell’opera di Cresci con un significato sia individuale che politico. La pratica dell’haunting pone la questione strutturale di come sia possibile percepire i soggetti perduti della storia, delle subalternità, di chi è rimasto (o è ancora) a lungo in posizione di dipendenza da una cultura dominante, volgendo lo sguardo non al passato, ma continuamente al presente. Guardando attentamente la serie Ritratti reali (1972-1974) risulta chiaro come questo sforzo intellettuale si ripresenti in continuazione all’interno dell’opera dell’artista: gruppi di figure sedute all’interno di contesti domestici e contadini portano, disseminate all’interno dello spazio che abitano, foto di memorie familiari, supportate dai più disparati oggetti, come a voler compensare l’assenza e scongiurare la morte di chi non c’è più. Una coppia in una serie di fotografie viene rappresentata attraverso tre diversi piani e distanze. Al loro fianco sono riconoscibili, appesi su una scatola di cartone, il volto di un uomo probabilmente defunto, di un bambino forse ora diventato lui stesso padre, e altri due ritratti della coppia in anni più recenti. Parafrasando Avery Gordon riconoscere il fantasma attraverso questo approccio documentativo, invece di scacciarlo via come ci impone la razionalità moderna, apre la possibilità di pensare il sapere non come conoscenza distaccata e impersonale, ma come un groviglio complesso nel quale le nostre vite sono inevitabilmente coinvolte. Ma perché fotografare proprio i segni di un passato, disconosciuto e conflittuale, con cui il presente rifiuta di fare i conti? Che cosa ci potranno mai dire i fantasmi dei rapporti sociali in cui sono avviluppate le nostre vite? Quali sono gli oggetti e gli strumenti che animano queste presenze spettrali?

Se Misurazioni nasce come mezzo attraverso cui miniaturizzare la realtà fisica con la fotografia (utilizzando alcune parole di Cresci), e fornire un’analisi di grandezza e utilizzo, ciò che avviene successivamente è la generazione della più grande raccolta di immagini di utensili e oggetti della cultura materiale lucana. Strumenti, cose, ma anche animali o veri soggetti umani esistiti, vengono ancora una volta comparati, messi in relazione con la loro rappresentazione, con il loro doppio in forma oggettuale, mediante un uso della fotografia dall’approccio antropologico che ricerca lo spirito di quel tempo che li ha generati. In questa serie di lavori sorprende la presenza di una grande serie di giocattoli, il dispositivo di miniaturizzazione per eccellenza. Tra di essi un Pinocchio in legno (1974) rappresentato in diverse posizioni come un rayogramma. Le posizioni sono possibili grazie a un filo che ne permette il movimento. All’interno della mostra assumono sembianze tutt’altro che miniaturizzate poiché occupano interamente le grandi vetrate dello spazio espositivo.

Ecco allora che la materia fantasmatica di cui è fatta la vita sociale ritorna anche nello spazio della mostra, ponendo questioni cruciali che riguardano la soggettività e la nostra concezione della storia all’interno del nostro di presente, esorcizzando un altro tempo ancora.















Note [1] Un esorcismo del tempo. Mario Cresci: Archivio, Sud e magia, Marco Scotini, in: Mario Cresci. Un esorcismo del tempo, pag.31, Contrasto, MAXXI, Roma, 2023; [2] M. Lazzarato, La politica dell’evento, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004, pag. 27;


Foto: Vincenzo Labellarte


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Arnold Braho è curatore e scrittore. I suoi testi sono apparsi su diverse riviste specializzate italiane, tra cui Flash Art, Artribune, Segno ed Exibart, L’Essenziale Studio. Recentemente ha curato Fare i conti con il rurale alla Fondazione Arsenale (Iseo, Italia). Dal 2021 ha partecipato come assistente curatore a diversi progetti espositivi internazionali, tra cui İstanbul Bienali (Istanbul, Turchia), BETA Biennale (Timisoara, RU), Villa Arson (Nizza, FR).

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