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Magia e tecnica nell’epoca del contagio


Maurizio Cannavacciuolo, Yoyo, 2004, olio su tela, 24 x 18 cm


Con questo testo di Marco Mazzeo inauguriamo la collana «forme di vita» di DeriveApprodi: una collana che ospiterà prodotti del «pensiero critico», quel pensiero, cioè, filosofico, antropologico, storico, scientifico, disposto a mettere in discussione un mondo strutturato quasi totalmente in base all’economia di mercato, fornendo al lettore strumenti per immaginare nuovi modi di produrre, avere relazioni affettive, mettersi in rapporto con l’ecosistema al quale apparteniamo. Per dare concretezza, in altre parole, al motto «un altro mondo è possibile».

In fondo a questa pagina, è possibile scaricare in formato PDF il libro di Marco Mazzeo che inaugura la nuova collana, intitolato Ciò che è mio è tuo. Magia e tecnica nell’epoca del contagio.



Una collana da sogno

La collana «forme di vita» riprende, sotto forma diversa, il progetto teorico dell’omonima rivista (6 numeri, DeriveApprodi, 2004-2007). L’espressione richiama un sintagma del linguaggio ordinario: forme di vita sono chiuse negli zoo, indicano stili dell’esistenza umana, appassionano i fan di Star Wars. Nel contempo, il nome è il condensato di una complessa stratificazione teorica. «Forme di vita» è un sintagma che sfoggia una struttura di tipo onirico: breve e intuitiva è l’espressione; lunghe e faticose le sue articolazioni sotterranee. Come capita per l’analisi di un sogno, se si vuole comprendere il significato delle forme umane della vita e il loro rapporto con quel che le circonda occorre lavorare su due piani. Per un verso, registrare dettagli bizzarri e colori inquietanti che caratterizzano l’esperienza quotidiana nel momento di vigilanza minima: prenoto un rider sullo smartphone per far apparire un paio di pizze a casa mia, ritiro lo stipendio via web, schivo un mendicante in una piazza gremita di gabbiani. Per un altro, occorre dedicarsi a una discussione ingarbugliata circa le condizioni di possibilità su cui si fondano quelle esperienze: l’intreccio tra vita e linguaggio, il rapporto tra produzione e lavoro, la relazione tra tecnica e pensiero magico, la capacità umana di non riconoscere negli altri sapiens il proprio simile.

Forme di vita è una collana, dunque, da sogno. Non certo perché alluda al paradiso, per quello sono sufficienti i filosofi alla moda. Il motivo è terreno: il suo obiettivo è mettere a fuoco quel che già da sempre sfila sotto i nostri occhi e, per questo, risulta invisibile o misterioso. Perché ieri mattina ho accettato di lavorare gratis? Come mai i miei amici non ricordano gli incubi della notte scorsa? Perché l’odio è ovunque e, nel contempo, assente quando si tratta di rivolgerlo contro chi sfrutta e uccide? Qual è la struttura biologica tipica dei sapiens? Gli interrogativi si somigliano più di quel che si potrebbe immaginare giacché tutti riguardano un’ideologia sempre a portata di mano: il senso comune.

Deserti di filosofia pura

Quindici anni or sono, la rivista cercava di fronteggiare la pretesa delle tecnoscienze e del pensiero riduzionista di monopolizzare i temi legati alla natura umana: la pericolosità della specie, il rapporto tra esperienza e linguaggio, il significato delle condotte rituali. Oggi si tratta di affrontare una sfida, legata alla precedente, segnata però da caratteri specifici. Dopo appena due decenni, lo scenario filosofico sembra una landa desolata. Per un verso, i paradigmi che alla fine del secolo scorso dominavano la scena paiono polverizzati in microscuole e sottotemi. La filosofia analitica ha dichiaratamente abbandonato i suoi autori di riferimento (Frege, Wittgenstein) e i suoi campi di applicazione (l’analisi concettuale, il linguaggio ordinario) per dedicarsi alle basi ontologiche della semantica e allo studio di una mente che si dichiara non linguistica. Se impegnato politicamente, il pensiero post-moderno si è fuso con i cultural studies, caratterizzati da una erraticità così sfrenata da risultare quantomeno sospetta. Altrimenti, i reduci di molti paradigmi del Novecento inseguono mode pop, al fine di imbellettarsi sotto i riflettori di quel che Guy Debord chiama «società dello spettacolo». Le scienze cognitive, dal canto loro, sembrano aver abbandonato la loro vocazione unitaria e multidisciplinare a favore della centralità (teorica ed empirica) delle neuroscienze e di un darwinismo ancora concentrato sulla nozione di «adattamento». La cosiddetta scuola di Francoforte pare aver avuto il suo ultimo episodio notevole, probabilmente il peggiore, nell’ottimismo dialogico di Habermas e nella sua sistematica rimozione della natura conflittuale dell’animale umano.

Questa polvere paradigmatica rischia di trovare tappa successiva nella formazione rassegnata di una distesa desertica. È un Sahara del pensiero al quale potremmo dare il nome provvisorio di «filosofia pura». Pura è ogni filosofia autoreferenziale che punti a relegare la discussione del tempo presente ai cinque minuti dell’amaro da bere al Pub. È pura se, viceversa, pretende di descrivere i fenomeni in modo neutro come fosse possibile fotografare quel che ci accade sospesi sulla nuvola del dio che, dall’alto, osserva le cose degli uomini. È pura quando si compiace, abbracciando le rovine dell’accademia in una stretta mortale. È pura quando esce dal circuito universitario con l’obiettivo di blandire il lettore e far sentire alle sue orecchie le storie del senso comune secondo il ritmo più suadente («il mercato è il sale della vita, la concorrenza il suo re, io il prossimo vassallo»).

La collana si contrappone a ogni filosofia pura perché priva di corpo critico: arresa alla possibilità di trasformare il mondo, è contenta di trovarsi nella parte giusta del pianeta o nell’area di confort di chi uno stipendio ancora lo ha o, quanto meno, può nutrire l’ambizione di ottenerlo.

Storia naturale, capitalismo distruttivo

L’immagine del deserto non è casuale. L’inasprirsi di conflitti, locali e internazionali, magari legati al dissesto ambientale fanno del Sahara che avanza la descrizione di un concreto stato di cose e, contemporaneamente, una metafora adatta allo scenario filosofico. Per indagare sulla desertificazione, della filosofia e del pianeta, è necessaria la costruzione collettiva di una rinnovata storia naturale. Da quella tradizionale abbiam preso quel che si poteva: una quantità sconfinata di campioni organici, forme rare, tracce di culture scomparse che ancora fanno bella mostra di sé nei musei sparsi per il globo. Di essa, però, occorre diffidare poiché contribuisce a confondere due piani oggi mescolati più che mai. La passeggiata al museo consola proprio perché ingarbuglia, come un gatto nel cesto, i fili della natura tra i gomitoli della storia. È di questa sovrapposizione che oggi il mondo neoliberale si abbevera. L’economia di mercato costituirebbe la realizzazione storica della natura umana giacché miglior mondo possibile, unico freno alla guerra civile globale, realizzazione delle migliori capacità dei sapiens. Distinguere tra storia e natura equivarrebbe a contare gli stuzzicadenti caduti a terra: una perdita di tempo. Quel che conta sarebbe, invece, comprendere il modo nel quale aumentare le performance produttive e conciliare nel diritto interessi contrapposti di donne, bambini, neri, malati.

Una nuova storia naturale si distingue da quella fondata da Plinio perché non si accontenta della fusione a freddo tra dinosauri e modalità della produzione, faglie geologiche e varietà diacronica dei costumi. La nostra storia dev’esser naturale come storico-naturali sono le lingue: radicate in facoltà biologiche dell’Homo sapiens (linguaggio, neotenia, posizionalità eccentrica), eppure in grado di esistere solo grazie alla curvatura storica di una condotta collettiva. Solo in questo modo sarà possibile comprendere le nuove organizzazioni pulsionali che oggi assumono la noia e la malinconia, la centralità della capacità umana di prestare attenzione a dettagli cangianti dei dintorni, l’attualità di classici dimenticati della linguistica o dell’antropologia filosofica, il contributo del pensiero della differenza a un nuovo modo di costruire la scena pubblica dei sapiens. Solo con una storia naturale finalmente materialista potremo riconoscere, senza sconti e senza lagne, il carattere distruttivo del capitalismo. Canaglia appostata al banco della frutta, il regno neoliberale si giova del gioco delle tre carte: confonde il fatto che la nostra specie manchi di un ambiente specifico con la necessità logica di distruggere habitat. Che oggi «circa un milione di specie siano già prossimi all’estinzione» (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity, aprile 2019, p. 4) non è una circostanza ineluttabile, il Big one che un giorno scuoterà le terre della California. È piuttosto la ferita inferta da un regime di sfruttamento; una ferita tanto profonda da sembrare inevitabile come fosse l’impronta dell’astronauta che sbarca sulla Luna.

Filosofia della storia, precarietà della vita

Per questa ragione, è necessario lavorare a una filosofia della storia naturale che non riduca il tempo degli umani al piano millenario dell’erosione delle creste montane o al presente eterno nel quale confondere le superstizioni di oggi con le potenzialità ambivalenti che caratterizzano la specie. La nuova storia naturale non teme azioni di rapina: dall’evoluzionismo trae l’idea che il tempo non sia orientato al progresso; dà fondamento alla convinzione delle scienze storiche che le varietà etico-politiche, culturali e linguistiche elevino alla seconda la contingenza tipica del vivente. Una delle parole che indica con nitidezza questa contingenza al quadrato è «precarietà». Se la contingenza della vita organica è regolata da variazione causale e selezione adattiva, la vita umana è precaria giacché segnata da una contingenza organica (trascrizione del Dna, mutazione genica) che, per stare in piedi, ha bisogno a propria volta della contingenza dei modi produttivi e dell’organizzazione sociale cui è affidata (caccia e pesca, tribù, industria pesante, Comune di Parigi, economia digitale, Stato nazione). Come sia possibile liberare una vita costitutivamente precaria, la nostra, dalla precarietà dello sfruttamento neoliberale o dall’asservimento premoderno, è il ronzio che affligge l’orecchio della nuova storia naturale. Per superare l’acufene, come ben sa chi soffre del disturbo uditivo, a nulla serve concentrarsi sul suo suono ingombrante. Sarà necessario avere il coraggio di prendere la questione alla larga e, con pazienza, rileggere e pubblicare classici perduti della filosofia, esordienti claudicanti perché ambiziosi, autori maledetti dalla moda e dalle miseria di un’epoca.

La collana accoglierà diverse tipologie di testi. In primo luogo libri che teorizzano esplicitamente la necessità per Homo sapiens della relazione a incastro tra storia e natura. In seconda battuta, accoglierà saggi che lavorino anche solo su una delle due dimensioni secondo un taglio teorico in grado di apportare contributi, pure in modo implicito o indiretto, a costruire una storia naturale né riduzionista né vaga. A tal fine, la collana mescolerà classici dimenticati, saggi di autori affermati, lavori di ricercatori più o meno noti, voci dissonanti disposte al confronto.



Qui sotto è disponibile il libro di Marco Mazzeo, Ciò che è mio è tuo. Magia e tecnica all’epoca del contagio.




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