Sergio Bianchi, Mosaico 7, 2010
Nel suo percorso sui frammenti del sapere militante, Federico Chicchi rilegge un’intervista a Félix Guattari pubblicata nel 1974 sulla rivista americana «Diacritics» e rimasta poco conosciuta in Italia. In essa il filosofo francese affronta i temi sviluppati ne La rivoluzione molecolare, permettendoci di osservare come i processi di sfruttamento capitalistici agiscano su livelli e consistenze che la teoria dialettica è incapace di cogliere e quindi contrastare adeguatamente. Insieme alla critica dell’economia politica, è dunque necessario dotarsi di nuove lenti e strumenti per cogliere la complessa articolazione delle forme di assoggettamento e asservimento dentro la macchina capitalistica. Per quanto sia tutt’altro che semplice da comprendere, sostiene Chicchi, studiare Guattari è un esercizio fondamentale per allenarci a osservare la realtà nella sua molteplicità, individuandone i punti deboli e di possibile attacco.
Per approfondire questi temi suggeriamo anche il libro di M. Hardt, Gilles Deleuze. Un apprendistato in filosofia, DeriveApprodi, Roma 2016.
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Nella parola d’ordine la vita deve poter rispondere
alla risposta di morte, non fuggendo, ma facendo che la fuga agisca e
crei. Sotto le parole d’ordine vi sono parole lasciapassare. Parole che
sarebbero come di passaggio, come componenti di passaggio, mentre
le parole d’ordine segnano arresti, composizioni stratificate, organizzate.
La stessa cosa, la stessa parola, ha probabilmente questa doppia
natura: bisogna estrarre l’una dall’altra ‒ trasformare le composizioni
d’ordine in componenti di passaggio.
Deleuze e Guattari, Mille piani
I limiti dell’approccio dialettico: Félix Guattari e la rivoluzione molecolare
La teoria politica anticapitalistica è disseminata di intuizioni sorprendenti. Riflessioni a volte frammentarie che non è facile tenere assieme e che mai come oggi, è opportuno riprendere e mettere, quando possibile, in fibrillazione tra loro. Uno dei compiti della formazione militante che dobbiamo sostenere, mentre affrontiamo la gobba del presente, riguarda, infatti, anche il reagire a una delle tendenze fondamentali del capitalismo, quella della progressiva compartimentazione e metabolizzazione delle prassi antagoniste. Dobbiamo allora, per procedere, porci una domanda diretta: per costruire una pratica del conflitto all’altezza delle sfide che ci aspettano, è necessario affidarci unicamente all’alveo analitico della dottrina marxista? O, al contrario, è bene contaminare questo campo con altri paradigmi e proposte teoriche capaci di generare differenti prospettive di analisi? Non so se anche a voi, come a me, la risposta oggi sembra scontata. In ogni caso, alcuni interpeti del problema hanno tentato, ripetutamente, di screditare le riflessioni degli autori del pensiero filosofico e militante radicale del Novecento (tanto per avere delle coordinate mi riferisco a Foucault, Deleuze, Guattari, Derrida, Debord, al postoperaismo ecc.) accusandoli di aver addirittura contribuito a costruire e legittimare l’architettura del nuovo capitalismo neoliberale. Tale denuncia che circola con insistenza in alcuni ambienti della sinistra italiana è così mal posta, e soprattutto sostenuta con argomenti così licenziosi e poco fondati, che non perderò tempo a ragionarci qui. Quello che mi interessa invece affermare con perentorietà è la convinzione che senza le riflessioni critiche sviluppate (anche contro le «rigidità» del marxismo ortodosso) dal femminismo radicale, come dal postoperaismo italiano, dai postcolonial studies, oltre che dalla cosiddetta French theory, non avremmo alcuna possibilità di intercettare e mostrare la qualità dei dispositivi di governo del capitalismo contemporaneo.
Semiotiche di asservimento e semiotiche di assoggettamento
Propongo allora di recuperare, in questo mio secondo intervento sui frammenti del sapere militante, alcune preziose riflessioni di Félix Guattari dei primi anni Settanta, che ci permettono di osservare come i processi di sfruttamento capitalistici agiscano su livelli e consistenze che la teoria dialettica sarebbe incapace di cogliere e quindi contrastare adeguatamente. In particolare propongo di rileggere, tra i moltissimi riferimenti possibili, un’intervista a Guattari pubblicata dalla importante rivista americana «Diacritics», nel 1974[1]. Alcuni dei passaggi qui contenuti aiutano a inquadrare il punto di vista dell’autore che, come è noto, ha pubblicato, insieme a Gilles Deleuze, l’opera in due volumi denominata Capitalismo e schizofrenia [2]. Molte delle riflessioni che Guattari propone in questa intervista sono sviluppate, per chi volesse approfondire il suo ragionamento, nel volume, edito in Italia da PGreco, intitolato Rivoluzione molecolare. La nuova lotta di classe [3] e discusse in modo stimolante da Maurizio Lazzarato nel suo recente volume Segni e Macchine. Il capitalismo e la produzione di soggettività edito da ombre corte [4].
Il primo prezioso suggerimento «metodologico» di Guattari che vale la pena richiamare a riguardo, è quello che potremmo definire come il necessario superamento del dualismo produzione-rappresentazione. Secondo l’intellettuale e militante francese, separare la produzione e la rappresentazione, assumerli come due processi che si danno separatamente seppur all’interno di una loro tensione dialettica, impedisce di cogliere e di mettere in questione effettivamente le funzioni di potere che controllano e innervano il campo sociale. Per Guattari, il Capitale è infatti definibile, prima di tutto, come un operatore semiotico che funziona secondo «l’azione congiunta di due principali dispositivi di potere: l’assoggettamento sociale e l’asservimento macchinico» [5]. La prospettiva che, diversamente, lavora a partire dalla separazione dei flussi materiali da quelli semiotici caratterizzerebbe invece il pensiero dialettico – e anche quello marxista – rendendo, per questa ragione, la critica dell’economia politica non sufficiente da sola a cogliere l’articolazione complessa (tra assoggettamento e asservimento) dei processi di sfruttamento nella società capitalistica.
Per cercare di spiegare in modo più chiaro la questione potremmo riferirci, ad esempio come propone Guattari, alla questione marxiana dell’alienazione: se restiamo dentro una prospettiva dialettica non siamo in grado di osservare, in tal senso, l’alienazione che come una corruzione di uno stato originario, come sintomo di una degenerazione, una mancanza, che il capitalismo introduce nella costituzione della soggettività. Ci sfuggirebbe così del tutto la possibilità di osservare la potenzialità, in termini di dissenso, che l’alienazione stessa, nel suo costituirsi, può contribuire a determinare. Per evitare di commettere questo «errore» occorre dunque dotarsi di una visione che non acconsenta, in virtù di uno schema dialettico, alla riduzione dei processi all’interno delle contraddizioni rintracciabili nello spazio prodotto da tutta una serie di dualismi riferibili e verificabili in astratto solo all'interno di questo regno interpretativo. «Credo che la dialettica marxista proceda a partire da una simile rottura manichea, come fa il pensiero giudaico cristiano. Il modo di pensare della molteplicità è completamente diverso. […] Perché qui si sostiene che nella molteplicità non c’è rottura tra produzione e rappresentazione» [6]. Non sarebbe così possibile, secondo l’autore, opporre a una macchina di rappresentazione o espressione, una macchina di produzione. Diversamente diventa fondamentale comprenderne le sovrapposizioni, le articolazioni (disgiuntive e congiuntive), le confusioni. Il concatenamento dei flussi semiotici non può essere separato dai flussi sociali o materiali. I segni lavorano come materia e la materia si esprime attraverso dei segni. Non c’è dunque, nel pensare la molteplicità, la possibilità di introdurre un taglio netto possibile tra soggetto e oggetto e tra rappresentazione e produzione. Come chiariremo di seguito, si tratta allora di assumere e considerare la rilevanza, nel funzionamento del capitalismo contemporaneo, di quelle che Guattari chiama semiotiche a-significanti.
Il problema dell’approccio dialettico, che qui con Guattari cerchiamo di osservare nel rapporto tra produzione e rappresentazione, è rintracciabile secondo Michael Hardt in una questione filosofica di fondo: la dialettica hegeliana non riesce a cogliere né le differenze di grado né le differenze di natura dell’essere: «Il movimento negativo della determinazione dialettica pretende di stabilire le basi della vera differenza, ma di fatto ignora la differenza del tutto» [7]. La questione è molto complessa sul piano teorico, e riguarda il corpo a corpo che Guattari, e soprattutto Deleuze, hanno insistentemente combattuto contro l’approccio dialettico hegeliano, e in particolare contro l’eccesso di astrazione che rispetto alla concezione dell’essere ne deriverebbe [8]. Non possiamo ovviamente occuparcene qui. Tratteniamo però il cuore della questione perché costituisce un elemento importante per tentare di comprendere il ragionamento guattariano che svilupperemo di seguito.
Le impalcature semiotiche del Capitale
Che cos’è per Guattari una catena significante? Per continuare a leggere il suo contributo dobbiamo passare da questa questione fondamentale. Come dicevamo, per Guattari occorre, in primo luogo, mostrare come «gli elementi semiotici esistono solo insieme [e non separati da N.d.T.] ad altri elementi di tipo materiale. C’è un assemblaggio collettivo di una catena, ma non possiamo nemmeno dire di produzione o di rappresentazione, piuttosto, ed è questo il termine che stiamo cercando di sviluppare, c’è una catena di trasduzione» [9]. Il concetto di transduction, di origine simondoniana [10] permette, nel descrivere i processi di individuazione, di fuoriuscire dal gioco delle opposizioni tra interiorità ed esteriorità, designando non un rapporto tra due termini esteriori l’uno all’altro, ma una relazione dinamica che costituisce i suoi termini come i poli della stessa operazione di individuazione. «La trasduzione è l’idea che, in sostanza, qualcosa si comporti da solo, qualcosa accada tra le catene di espressione semiotica e la catena materiale» [11]. In questo senso e in generale l’approccio trasduttivo ci insegna a tenere presente la simultaneità e la consustanzialità che la variazione, ravvisabile in una specifica dimensione, produce inevitabilmente sull’altra, e viceversa, essendo le molteplici dimensioni implicate in uno stesso e metastabile dominio relazionale [12].
Guattari ci invita a riconoscere che esistono diverse logiche che attivano le semiotiche capitalistiche. La maggior parte delle teorie critiche del capitalismo assumono la produzione di senso e di soggettività (e con loro le questioni dell’interpretazione e della rappresentazione) come la questione fondamentale su cui produrre azione politica, le stesse non si accorgono però che il capitalismo basa la sua azione prevalentemente sul funzionamento di macchine a-significanti. «Gli indici di borsa, le statistiche dell’assicurazione contro la disoccupazione, le funzioni e i diagrammi della scienza, i linguaggi informatici non fanno discorsi né racconti (i discorsi e i racconti hanno evidentemente una loro funzione, ma accanto agli asservimenti). Funzionano facendo ruotare e moltiplicando la potenza del concatenamento “produttivo”. Le semiotiche a-significanti sono più o meno dipendenti dalle semiologie significanti ma, a livello del loro intrinseco funzionamento, sfuggono al linguaggio e alle significazioni sociali dominanti […]. I flussi di segni a-significanti agiscono direttamente sui flussi materiali, al di là della separazione tra produzione e riproduzione, e funzionano indipendentemente dal fatto che significhino qualcosa per qualcun altro» [13].
Capitalismo e macchine a-significanti
Il capitalismo per funzionare come istanza di deterritorilizzazione deve, in tal senso, imporre il suo controllo su questi dispositivi che sono capaci di produrre semiotiche a-significanti. I segni, prodotti a questo livello, generano un effetto di diagrammatizzazione. Ecco qui tocchiamo un punto fondamentale della riflessione proposta da Guattari nell’intervista che mi pare essere di straordinaria attualità (pensiamo ad esempio alle funzioni algoritmiche dei dispositivi digitali e ai pervasivi sistemi di valutazione delle performance) [14]: i segni, spiega il filosofo francese, lavorano e producono così ciò che è reale, funzionano allo stesso livello del reale, assumono su di loro la giustificazione stessa del reale. «In altre parole, ciò che è reale e ciò che è segno cortocircuita i sistemi di rappresentazione, i sistemi di mediazione, chiamiamoli sistemi di pensiero referenziale, oppure possiamo chiamarli “immagini”, “icone”, “significati” o “rappresentazioni mentali”, c’è poco differenza» [15]. Nelle concatenazioni prodotte dalle semiotiche a-significanti gli elementi che organizzano i quadri rappresentazionali e di significazione non sono rilevanti e tendono a scomparire. La denotazione tende a sfumare dentro a un processo di diagrammatizzazione che va nella direzione di residuare, abbandonare il terreno della significazione. Dal piano soggettivo ci si muove così verso quella che potremmo chiamare con Guattari un piano di consistenza macchinica: «I punti di soggettivazione perderanno, qui, la loro funzione di localizzazione apparente della produzione dei significati, la loro funzione di sede di un godimento privatizzato ed edipizzato. Ormai non saranno che residui soggettivi, un godimento deterritorializzato, adiacente al processo fondamentale di concatenazione macchinica» [16].
Si tratta dunque, seguendo Guattari di interrogare la trama (l’impalcatura semiotica) sopra la quale la macchina capitalistica produce e attiva i suoi dispositivi di cattura dei flussi desideranti. «Perché il desiderio, questo è chiaro, è legato a un meccanismo di semiotiche a-significanti, nonché a catene di “figure”, e catene di tutto ciò che organizza le tendenze globali dei desideri e della produzione del desiderio, indipendentemente dalle ridondanze semantiche dominanti» [17]. Il Potere (che Guattari nell’intervista scrive con la P maiuscola) da un lato utilizza le semiologie significanti per catturare il desiderio delle masse e mutare la qualità della soggettività, ma contemporaneamente per funzionare secondo l’assiomatica capitalistica utilizza semiotiche a-significanti. «Il fatto che i segni (e le macchine, gli oggetti, i diagrammi ecc.) costituiscano dei focolai di proto-enunciazione e di proto-soggettività significa che, come abbiamo visto, essi suggeriscono, rendono possibile, sollecitano, incitano, incoraggiano, impediscono determinate azioni, pensieri, affetti o ne favoriscono altri» [18]. In altre parole le connessioni tra dispositivi introducono degli effetti e dei modi della semiotizzazione che tendono a funzionare e a concatenarsi a prescindere dagli uomini e dalle loro relazioni sociali. Queste connessioni danno vita a processi di asservimento che si articolano con processi di assoggettamento. Così nella prospettiva tracciata dal funzionamento delle semiotiche a-significanti, il Potere viene finalmente considerato dal punto di vista delle sue reali forze produttive, anche se non smette di rapportarsi e sostenersi, sul piano sociale, a retoriche e codici interpretativi. «Una semiotica a-significante sarà, ad esempio, una macchina di segni matematici che non si proponga di produrre significati, oppure un insieme tecnico-semiotico scientifico, economico, musicale, artistico, oppure ancora una macchina rivoluzionaria analitica. Queste macchine a-significanti continuano a sostenersi sulle semiotiche significanti, ma servendosene solo come uno strumento di deterittorializzazione semiotica che consentirà ai flussi semiotici di stabilire nuove connessioni con i flussi materiali più deterritorializzati» [19].
Leggere Guattari non è affatto semplice. La sua teoria sulla rivoluzione molecolare è tutt’altro che facilmente comprensibile. Sono però persuaso che sia un esercizio fondamentale per allenarci a osservare la realtà nella sua molteplicità, solo così, infatti, sapremo individuare i «punti deboli» su cui portare il conflitto e favorire il cambiamento dei rapporti di forza. Spero di essere riuscito in queste righe, per lo meno, a suggerire una curiosità verso le intriganti e rivoluzionarie provocazioni teoriche di Félix Guattari.
Note [1] L’intervista a Félix Guattari è stata pubblicata in «Diacritics», autunno 1974, 4, 3, pp. 38-41. [2] Mi riferisco ovviamente a L’Anti-Edipo, pubblicato per la prima volta nel 1972, e a Mille piani, uscito otto anni più tardi. [3] F. Guattari, Rivoluzione molecolare. La nuova lotta di classe, PGreco, Milano 2017. [4] M. Lazzarato, Segni e macchine. Il capitalismo e la produzione di soggettività, ombre corte, Verona 2019. [5] Ivi, p. 17. [6]Intervista a Guattari, cit. Traduzione sempre mia. [7] M. Hardt, Gilles Deleuze. Un apprendistato in filosofia, DeriveApprodi, Roma 2016, p. 40. [8] Su questo tema, per chi volesse approfondire, è davvero importante rileggere il testo che Michael Hardt ha dedicato a Deleuze e alla sua opera: Hardt, Gilles Deleuze, cit. [9] Intervista a Guattari, cit., p. 39. [10] La trasduzione, potremmo dire, è in Simondon un’apparizione correlativa di dimensioni e di strutture, il prender-corpo di singolarità. In particolare, le nozioni di relazione trasduttiva e di trasduzione sono esposte da Gilbert Simondon nell’introduzione al suo volume: L’individuation à la lumière des notions de forme et d’information, Million, Grenoble 2005, pp. 29, 32-34. [11] Intervista a Guattari, cit., p. 39. [12] Rispetto a questo aspetto specifico, e in tal senso insieme a Emanuele Leonardi e Stefano Lucarelli, qualche anno fa abbiamo provato a studiare le relazioni tra due diverse logiche dello sfruttamento capitalistico: quella sussuntoria e quella impressoria (cfr. F. Chicchi – E. Leonardi – S. Lucarelli, Logiche dello sfruttamento, ombre corte, Verona 2016). [13] Lazzarato, Segni e macchine, cit., p. 31. Si veda anche Intervista a Guattari, cit., p. 39. [14] Su questo tema si veda anche l’interessante saggio di R. Dubrin – A.E. Gorham, Algorithmic interpellation, «Constellations», 2021, pp. 1–16. [15] Intervista a Guattari, cit., p. 40. [16] Guattari, Rivoluzione molecolare, cit., p. 166. [17] Ibidem. [18] Lazzarato, Segni e macchine, cit., pp. 80-81. [19] Guattari, Rivoluzione molecolare, cit., p. 183.
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