Riforme universitarie e movimento studentesco
Cominciamo i lavori di questa sezione con alcuni testi provenienti dalla più recente inchiesta di «Sudcomune», della quale Machina ha già pubblicato un paio di Note (www.machina-deriveapprodi.com/post/l-università-indigesta-note-da-un-inchiesta; www.machina-deriveapprodi.com/post/l-università-indigesta-2). Più precisamente, per i prossimi tre mesi, a cadenza quindicinale, affronteremo il tema dell’avvento dell’università neoliberale in Italia dal punto di vista dei movimenti studenteschi che l’hanno combattuta e delle riforme legislative che l’hanno imposta. Ripercorrere storicamente tale questione riteniamo sia ancora oggi utile, perché se è vero che solo gli studenti, in potenza, possono cambiare le sorti aziendali dell’università, è altrettanto vero che rivolgendosi alle generazioni precedenti possono scoprire e, soprattutto, attualizzare i motivi autentici per rimettersi in movimento.
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Il primo aprile del 1998 il Professor Berlinguer su «la Repubblica» rispondeva così alle contestazioni degli studenti che accusavano la sua riforma di “aziendalismo”:
«si tratta di un piccolo gruppo di studenti che ha ideologizzato il problema della riforma universitaria (…) ma la riforma è fatta per loro, per renderli competitivi in Europa».
Da quel momento in poi, anno dopo anno, gli studenti italiani sono stati costretti a far propria questa nuova qualità. Sono diventati competitivi, volenti o dolenti, perché i Corsi di studio che hanno frequentato sono stati fortemente sbilanciati sul momento valutativo e di certificazione delle attività. I crediti formativi da acquisire, pertanto, in base ai quali sono stati gerarchizzati gli insegnamenti (i più «convenienti» e i meno convenienti), sono diventati la mission principale degli studenti, ciò che li orienta nel percorso di studio in un senso piuttosto che in un altro. Nel nuovo stato di cose, rispetto ai decenni precedenti, gli studenti sono chiamati a verificare e certificare il loro operato con molta più frequenza: se prima del 3+2, in un anno accademico, bisognava sostenere mediamente 5 esami, oggi, con i semestri, sono almeno il doppio. Corsi/Esami da sostenere in una offerta formativa, sempre più aggiornata, moderna e innovativa, almeno secondo le pubblicità che le università commissionano ad ogni inizio di anno accademico . Alla duplicazione del Titolo (laurea di «base» e laurea «specialistica») ha corrisposto la moltiplicazione dei Corsi di Laurea, degli Insegnamenti e dei rispettivi esami; nonché la creazione di tutta una serie di attività collaterali, tra cui centinaia di ore di tirocinio presso imprese (a volte vero e proprio lavoro gratuito camuffato) o dentro le mura accademiche in versione di training professionale. Bisogna inoltre aggiungere che, in alcuni gruppi disciplinari, quelli che un tempo sensatamente erano considerati «argomenti» di una disciplina, sono stati a volte promossi, addirittura, al rango di disciplina d’insegnamento, senza alcun controllo epistemologico, incrementando di fatto la frammentazione dei saperi e indebolendo lo stesso carattere scientifico delle materia di riferimento, a vantaggio di un approccio strumentale, ad uso e consumo dell’impresa e del privato [1]. Per fare un solo esempio delle moltiplicazioni di Corsi, strutture, eccetera avvenuti con la Riforma che stiamo discutendo (esempio che può facilmente essere esteso ad altri Corsi universitari) consideriamo il Corso di Laurea in Sociologia della Sapienza di Roma, che al principio degli anni ’90 era organizzato in quattro annualità e prevedeva il superamento di 20 esami. Gli insegnamenti, annuali, erano divisi in 12 «fondamentali» + 8 di «indirizzo», oppure a «scelta» dello studente. Chi privilegiava quest’ultima possibilità optava per il «piano di studio individuale» e poteva scegliere gli 8 insegnamenti su una rosa di circa 30 insegnamenti «interni». Più precisamente, due di questi otto, potevano essere scelti a proprio piacimento anche presso altre Facoltà universitarie. Contrariamente a ciò, nell’anno accademico 2003 - 2004, con l’entrata in vigore del 3+2, non esiste più il piano di studi individuale, i Corsi di laurea della Facoltà di Sociologia sono diventati 7 (3 base + 4 specialistici) e gli Insegnamenti, organizzati in moduli e semestrali, sono oltre 100, sono cioè più che triplicati. Gli studenti in questo lasso di tempo sono divenuti competitivi, mentre intorno nessuna cosa universitaria restava al suo posto, con le ministre berlusconiane Moratti e Gelmini che sono riuscite a piegare in termini prettamente aziendalisti la riforma dei due cicli di Berlinguer. Anche in questo caso, come per la Riforma Ruberti, sono stati tre i momenti cruciali che hanno condotto alla cesura tra un prima e un dopo dell’università italiana, contrassegnati da rispettivi interventi legislativi:
• Il primo, nel 1999, traccia la strada per quelli che seguiranno. Si tratta del D.L. 509, meglio nota come «Riforma Berlinguer», che modifica la struttura di fondo dell’università con lo schema del 3+2 adottato dal Processo di Bologna. Le lauree italiane, come per incanto, vengono raddoppiate con l’introduzione di due cicli distinti e propedeutici, uno triennale, di base, e uno biennale specialistico, altrimenti detto «avanzato» (o «magistrale»). Ognuno dei due cicli termina con il conseguimento di un titolo. La riforma introduce «obbligatoriamente» il meccanismo dei «crediti» in tutti i corsi di studio ad esclusione dei corsi di dottorato di ricerca.
• A cinque anni di distanza sarà il Decreto n. 270/2004 (Riforma Moratti) che, lasciando invariata l’architettura del «3+2», introdurrà il limite di 180 crediti per la laurea triennale e di 120 crediti per quella magistrale. Così facendo vengono fissati i parametri quantitativi dei corsi di laurea e incardinati gli insegnamenti a un criterio e sistema di misurazione e valutazione.
• Il terzo atto viene compiuto tra il 2008 e il 2010 dalla Ministra Gelmini, che, dapprima, consentirà la trasformazione delle Università in Fondazioni (L. 133/2008) e successivamente, con le «Disposizioni urgenti per il diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca» (D.L. n. 180/2008) e le «Norme in materia di organizzazione delle università» (L. 240/2010), stravolgerà l’assetto allora vigente dando forma compiuta all’attuale università neoliberale.
Le «Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l'efficienza del sistema universitario» (L. 240/2010) disegnano la nuova università: vengono istituzionalizzate le procedure di valutazione del personale, in base ai principi di merito e performance (art. 2); si introducono meccanismi premiali nella distribuzione delle risorse pubbliche in base a criteri di efficienza della didattica e della ricerca (art. 5); si prevedono incentivi correlati a risultati; si introduce il principio del costo standard unitario di formazione per studente in corso, in base al quale attribuire le percentuali del fondo di finanziamento ordinario, eccetera.
Le «Disposizioni urgenti» (D.L. n. 180/2008) invece riordinarono le strutture universitarie, cioè ne ridisegnarono la gerarchia dal momento che, a decorrere dall’anno successivo, le quote di «fondo di finanziamento ordinario (Ffo)» furono ripartite in base:
«alla qualità dell'offerta formativa e dei risultati dei processi formativi, alla qualità della ricerca scientifica, alla qualità, l'efficacia e l'efficienza delle sedi didattiche».
Qualità, qualità, qualità. Per capire cosa è diventata l’università italiana, è stato notato, si può partire dal cambiamento delle sue parole chiave, da quelle che si sono aggiunte al proprio vocabolario e da quelle che hanno mutato significato. Qualità, che è un concetto cardine dell’attuale sistema universitario, è una parola poli semantica, che vuol dire molte cose differenti: qualità, in relazione agli scopi da raggiungere; qualità, come conformità alle procedure; qualità, in relazione alla soddisfazione dei clienti; qualità, come eccellenza in relazione al merito, eccetera. In generale, la qualità diviene la garanzia del raggiungimento degli obiettivi, che vengono declinati secondo i criteri economici di «efficienza» ed «efficacia». Le nuove «parole dell’università» sono indicative di un discorso che, mentre da un lato giustifica, sanziona o premia le condotte prescritte, da un altro lato tende ad orientarle, discriminarle e favorirle rispetto ad altre condotte di segno differente ed alle condotte precedentemente consuetudinarie. Le nuove «parole dell’università», non solo qualità ma anche valutazione, merito, eccellenza, credito, eccetera, opportunamente incastonate in un discorso retorico incentrato su dicotomie tutte da dimostrare (nuovo/vecchio, tradizionale/moderno, baronale/democratico e cosi via) sono riuscite a contrabbandare la riforma come la chiave di volta contro il nepotismo accademico, mentre in realtà non ha scalfito minimamente questa durevole caratteristica italica [2]. Per ironia della sorte un obiettivo storico del movimento studentesco degli anni ‘70, la lotta contro le baronie e i privilegi universitari, è stato agitato dalla destra al governo del paese che è riuscita a svuotarne il significato originario imputando proprio al ’68 le cause dell’attuale degenerazione [3].
Note [1] Sensate a proposito le riflessioni secondo cui il problema delle classi dirigenti italiane, dalla Riforma Gui alla Gelmini è quello di fare un uso privato delle università, non di privatizzarle. Vedi in proposito G. Calella, Università-fabbrica e studenti-merce, in L’onda anomala. Alla ricerca dell’autopolitica, Ed. Alegre, Roma 2008. [2] Cfr. Universitly. La cultura in scatola. Intervista con Federico Bertoni, in Sudcomune. Biopolitica Inchiesta Soggettivazioni, n.1/2, DeriveApprodi, Roma 2016. [3] Alla fine degli anni ’60 si diedero le premesse dell’università di massa, il «sistema» perse il suo equilibrio e le conseguenze negative (intasamento degli atenei, scadimento della preparazione di professori e studenti, eccetera) furono evidenti dal decennio successivo. Questo, in estrema sintesi, è stato uno dei refrain politico giornalistico veicolato senza misura nel dibattito sulla riforma Gelmini. Ciò che colpisce è che questo approccio demografico venga proposto ancora oggi senza alcuna problematizzazione sociologica o politica, divenendo di fatto un ragionamento idraulico «sul sostanziale miglioramento della performance formativa del sistema che prende corpo con la riforma del 3+2». Vedi, tra gli altri, M. Burgalassi, La performance della formazione universitaria, Franco Angeli, Milano 2019. Cit. pag. 33.
Immagine: Laurence Gartel, Adelaide, particolare, 1985. L’editore resta a disposizione per eventuali aventi diritti.
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