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Lo sgambetto


Lo sgambetto

Pubblichiamo un racconto di Francesco Forlani.


* * *


Dedicato alla signora Titti



Non esistono mari uguali. Da costa a costa ogni cosa non si somiglia e non sono solo i colori a cambiare; il contesto, una scogliera, palazzoni a ridosso delle risacche, possono determinarne il tono fino a renderle nell’arco di una stessa giornata irriconoscibili. C’è qualcosa che a volte cambia radicalmente e non soltanto nel passaggio da oceano a oceano com’è vero che il mare di Bretagna non ha nulla della costa normanna, o da Oceano a Mediterraneo. Tale distinzione che si affida all’evidenza dello sguardo può cogliersi perfino da spiaggia a spiaggia lungo la stessa costa, o da un lido all’altro di una località balneare che per comodità chiameremo Scauri. Se in certe parti, come quelle vicine a Monte d’oro, il mare sembra per una strana staticità conferire a quella striscia di sabbia il valore di un approdo, quell’altra parte, invece, si allunga selvaggia verso il monte opposto e pare alla deriva in cerca di un orizzonte troppo mobile.

Non esistono felicità che valgano per tutti allo stesso modo ma, se è per questo, nemmeno le infelicità anche se abbracciando con un colpo d’occhio le file di ombrelloni, gambe e braccia distese al sole su lettini strappati alla notte una domanda sorge spontanea: il grado di tristezza e gioia corrisponde alla gerarchia delle file, poste alla destra o alla sinistra della passerella che scende dagli scalini del lido fino al bagnasciuga? Le famiglie di bagnanti delle prime file di quel teatro insieme silenzioso ed eloquente si rappresentano del resto proprio come esempi di riuscita e successo sociale. Ma è così nella realtà? Al livello economico delle professioni esercitate corrisponde per davvero una maggiore felicità rispetto ai meno fortunati delle ultime file a ridosso delle cabine? Eppure, il suono argentino delle grasse risate per lo più proviene dal fondo della classe dove larghe porzioni di parmigiana e pasta al forno saturano l’aria intrisa di creme solari e abbronzanti.

Al settimo ombrellone della prima fila che si stende sulla destra della riva dando le spalle al mare ci sono un uomo e una donna che per comodità chiameremo Luca ed Erika. Lei, una donna dai tratti eleganti e dal corpo slanciato di giovane donna, madre di tre ragazzi, e lui di estrema gentilezza e dolcezza che sembrano fare a pugni - e se la cosa accadesse l’anima le prenderebbe di santa ragione - con un corpo in grado di sostenere la vela del windsurf e dominare il vento che prepotente all’ora di pranzo si leva spazzando via ogni cosa al suo passaggio con la stessa solerzia di un croupier che raccoglie le fiches dei giocatori e increspa con onde di denti affilati quel mare che fino a qualche ora prima era una tavola senza riflessi.

Lei è bulgara - gli aveva sussurrato la donna sua vicina d’ombrellone con cui scambia qualche scampolo di conversazione iniziata poco prima. Un rumore di fondo le parole delle coppie, delle famiglie, tra le file che fanno da tappeto sonoro alla noia ammaestrata in quelle prime ore del mattino. L’amico della donna che chiameremo Rosaria, la Signora Rosaria com’è solita chiamarla la Bulgara, le somiglia molto per cui potremmo pensare che siano fratello e sorella.

Del resto, quel tratto di spiaggia ospita da decenni gli stessi nuclei familiari con anziani genitori che trasmettono in via ereditaria ai figli e ai nipoti la posizione a meno che vicende personali non ne stravolgano la successione. Poiché accade e non di rado che famiglie un tempo benestanti e da sempre alle prime file centrali si ritrovino per sfortunate congiunture o improvvisi lutti retrocesse alla seconda o terza fila, mai alla quarta probabilmente per vergogna o più semplicemente perché alla deriva verso altri lidi.

Ora, qualsiasi cosa possa intervenire a stravolgere la scacchiera delle posizioni, un dato è immutabile, la sempre maggiore somiglianza fisica tra figli e genitori che crea un gioco di specchi illusorio e feroce. Illusorio perché nel ritrovare nei propri coetanei la faccia dei loro genitori frequentati un tempo, ci si sente ancora figli ai propri occhi perfino ragazzi benché cinquantenni. Sul lido ci sono i tavolini e personale educato. Alla cassa Davide e Giacomo, i proprietari, accolgono gli ospiti del lido assecondandone ogni desiderata, distribuendo incarichi e ruoli a una nutrita squadra di ragazze in uniforme e bagnini prestanti, un gruppo che insieme a quello dei bagnanti fa un corpo solo, un Leviatano spiaggiato e respirante, sin dalle prime ore dell’alba e fino al tramonto generalmente rosa che dal Redentore scivola a mare passando per la quasi isola di Gaeta. Ad uno dei tavoli la Signora Rosaria, sempre sorridente ed elegante, è insieme alle sue sorelle, pochi anni separano l’una dall’altra. Signora Titti vestita d’azzurro e Signora Antonella di giallo. Se Titti si riconosce dal piglio con cui smazza le carte, Antonella da come le spariglia sul tavolo. Per il modo di ridere e parlare, punzecchiare gli eccessi e soprattutto l’arroganza delle ragazze affette dalla sindrome della prima fila, le chiamano «apette».

Quando passa una cugina - su questi lidi la figura del cugino è ricorrente - si sofferma al tavolo per commentare la partita.

«La cosa che amo di più del Burraco è che viene data sempre una seconda chance, per cui si può senz’altro dire che nessuno vince o perde per sempre».

Voltandosi bruscamente verso il fratello delle tre signore gli dice due cose fondamentali: la prima è che a detta sua e delle sue sorelle il nostro è proprio la copia fotocopiata dello zio Roberto, del papà. La seconda è che la mattina presto ha parlato con la vicina d’ombrellone, la signora ungherese, che ha chiesto quando sarebbero scesi in spiaggia. Poco dopo la partenza della cugina, anticipando l’osservazione che gli avrebbe fatto il fratello sull’imprecisione del dato, la signora Rosaria aveva lasciato le carte coperte che aveva in mano sul tavolo e con gli occhi ben fissi su quelle scoperte sul tavolo al centro dice:

«Bulgara, ungherese, cosa vuoi che cambi?»

Di tutta risposta lui le recita una poesia di Georgi Gospodinov che s’intitola Primo incontro col mare.


Mio padre mi ha portato al mare

Meno male che mi teneva per mano

Ero piccola e il mare così grande

Che mi sarei dissolta come una goccia.


Tutto coincideva in quel piccolo disegno lirico con l’unica anomalia della confusione tra due paesi di certo più lontani di quanto non si possa immaginare. Bulgaria e Ungheria condividevano, è vero, l’appartenenza a un impero andato in fumo nel Novecento e come un Titanic rovinato sul fondo della Storia lasciando paesi orfani delle frontiere.

Che la bulgara fosse desiderabile lo si capiva da come uno per uno i surfers le rivolgevano la parola. La soggezione che si poteva toccare con mano non dipendeva dalla presenza del marito al suo fianco perché nulla in lui, nessuno dei suoi muscoli o centimetro di pelle definiva il maschio geloso che sa di possedere un tesoro e vuole mostrarlo al mondo alla sola condizione che nessuno si avvicini più del dovuto a quel forziere dell’anima. In lui traspare invece una timida malinconia probabilmente figlia di storie familiari o di esperienze del cuore che si traducevano in una camminata che pareva un volo perché quasi sfiorava la sabbia, tipica di chi incurante della vanagloria e indifferente al senso supremo da dare al passaggio su terra non lascia nessun’orma dietro di sé nessuna traccia, impronta, marchio di fabbrica di sé o peggio dell’amore per una donna.

Alla desiderabilità di lei bisognava poi aggiungere che l’amabilità della voce, in un italiano insieme preciso e imperfetto, si rivestiva di formule di cortesia inattuali e desuete come quell’abitudine di far precedere al nome l’appellativo di signora, come per la Signora Rosaria.

Eppure, una nota inquietante stonava nell’armonia di quel quadro familiare corale e discreto, appesantendo l’immagine della bagnante straniera in un lido che per completezza d’informazione chiameremo dei Delfini. Forse la somiglianza con un’antica fiamma incontrata ed amata a Parigi tra le pareti di una minuscola chambre de bonne molti decenni prima, la petite Marie anche lei ungherese, precisamente di Buda, l’antica città che si allunga ad ovest del Danubio sulle colline? Non proprio visto che Marie era assai minuta e con gli occhi orientali, quasi asiatici. Poteva allora essere la gestione quasi militare dell’ombrellone e dei tre ragazzi disciplinati come fanti napoletani al soldo di una potenza straniera?

Erika partecipava alle conversazioni rimanendo sempre un passo indietro rispetto al marito che quasi le prestava la voce di un sentimento per natura fragile e riservato. Se le parole di Luca erano il vento, i pensieri di Erika la velatura solida dell’imbarcazione che non teme le onde né le desidera.

Molti ricorderanno la vita del Sottotenente Drogo, la fortezza Bastiani, il Deserto dei Tartari, il tempo scandito dai camminamenti e garitte, parole d’ordine e posizioni fortificate per reggere l’onda d’urto dell’Orda d’Oro, invincibili guerrieri ungheresi pronti ad espugnare la roccaforte.

Ora, era come se i ruoli si fossero invertiti, e i tratti dell’ufficiale trasformati in quelli di una giovane donna dal corpo slanciato e disegnato da tatuaggi filiformi e leggeri.

Quale assedio accerchiava il suo mondo? Cosa temeva? Forse la fine della felicità? Perché il tema ricorrente nelle conversazioni di ognuno di quegli ombrelloni, delle prime o delle ultime file, che si trovassero a sinistra o destra della passerella, nella rete di sedie a sdraio e lettini, era proprio quello della felicità su terra, cosa che spingeva tutti a rimanere per delle ore a osservare il mare per potervi scorgere una risposta in quella massa d’acqua leggera e trasparente, a volte.

La memoria, si sa, può giocare brutti scherzi o al contrario farti cogliere all’improvviso attraverso nessi e dettagli un disegno invisibile, un fatto inspiegabile fino a poco prima.

Fino a quando trovandole in rete si mette a rivedere le immagini filmate di quel fatto di cronaca e politica che pochi anni prima lo aveva particolarmente segnato: 9 settembre del 2015, al confine con la Serbia la reporter ungherese Petra con telecamera in spalla sta filmando la fuga di centinaia di migranti siriani inseguiti dalla Polizia. A un certo punto si vedono apparire dal fondo e poi in primo piano un padre con in braccio un bambino. Si è appena liberato dalla morsa dei gendarmi e mentre nello slancio si fionda verso la libertà, l’operatrice si scosta su un lato e con il piede gli fa uno sgambetto sempre continuando a filmare e con estrema freddezza. Il padre, per la prima volta ritorna sui suoi passi per chiedere perché, supplicarla di spiegare un motivo plausibile in grado di giustificare un gesto così crudele.

Era lei? La dolce e affascinante bulgara? Una donna priva di umanità, senza una minima empatia verso gente così disperata e in fuga dall’inferno?

Potevano convivere in una sola persona certi tratti di naturalezza di chi ama profondamente l’umanità con quelli di chi odia i popoli? La storia ci dice che è possibile tale incongruenza.

Niente di tutto questo. Non poteva essere Petra semplicemente perché non era lei. Al contrario la somiglianza con l’altra giornalista che viene inquadrata per pochi istanti prima che sia lei a riprendere la scena, era schiacciante.

Era stata probabilmente proprio lei Erika ad avere consegnato al mondo intero l’immagine sconcia di uno sgambetto alla libertà senza appello alcuno.

Ma cosa erano diventati a tanti anni di distanza persecutore e vittima? Petra avrebbe vinto un premio importante per un documentario sovranista sulle sorti dell’Ungheria, mentre Osama, così si chiamava il giovane padre, era diventato allenatore in Spagna. Persecutori e vittime esistono solo quando vi sono testimoni. Grazie alla sua testimonianza Erika aveva perso tutto. La fiducia dei suoi colleghi che l’avevano accusata di avere tradito la casta. La stima degli amici che pendevano ormai dalle labbra del presidente più fascista degli ultimi anni in Europa. Il posto di lavoro e il paese che aveva dovuto lasciare.

Nessuna ricompensa, nulla. Se nulla vuol dire la felicità di una famiglia protetta da un gigante che cavalca le onde del mare come fosse vento, la grazia di una madre che si riflette nell’accuratezza con cui tre giovani ragazzi si versano da bere acqua che disseta perfino nei più ampi deserti.


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Francesco Forlani vive e lavora a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali «Paso Doble» e «Sud», collaboratore dell’Atelier du Roman. Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese «Focus-in». Spettacoli teatrali: Do you

remember revolution, PatrioskaCave canemZazà et tuti l’ati sturielletMiss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club. Ha partecipato ai volumi collettanei Era

l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della

Sera). Tra le sue opere: Métromorphoses; Autoreverse; Blu di Prussia; Manifesto del Comunista Dandy; Le Chat Noir; Manhattan Experiment, 1997 Fuga da

New York; Chiunque cerca chiunque; Il peso

del CiaoParigi, senza passare dal via; Il manifesto del comunista dandy; PeliPenultimiPar-delà la forêtL'estate corsa. Ha tradotto dal francese:   L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux.




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