All’inizio del nuovo millennio la questione del comune è stata al centro di diverse pratiche filosofiche, così come dei lessici politici di molti gruppi e movimenti, in opposizione ai dispositivi di governo neoliberale. In questo articolo Pietro Maltese e Danilo Mariscalco – curatori del recente volume «Il senso (del) comune. La radicalità del presente e il suo concetto» (Palermo University Press, 2021) – scavano nella sua genealogia, ripercorrendo e analizzando i tratti essenziali in particolare delle riflessioni di Agamben, Esposito, Negri e Hardt, Dardot e Laval. Attraverso questa rassegna critica e ragionata, i due autori individuano i lineamenti del dibattito sul comune e la sua utilizzabilità per il pensiero radicale contemporaneo.
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La questione del comune ha informato in profondità tanto le pratiche filosofiche contemporanee quanto l’agenda politica di non pochi movimenti i quali, muovendo spesso da problemi circostanziati, ne hanno evocato lo spettro opponendolo al dispositivo di governo neoliberale. Non è casuale che Dardot e Laval scorgano nelle «pratiche di “comunizzazione” del sapere, di mutua assistenza, di lavoro cooperativo» la possibilità, oggi più che mai urgente, di «disegnare le linee di un’altra ragione del mondo […]: la ragione del comune»[1]. È questa, altresì, la scommessa di Negri e Hardt, il cui Commonwealth ha avuto effetti immediatamente politici, contribuendo al fatto che una generazione di attivisti parlasse il linguaggio del comune. Non meno epocali le tonalità del ragionamento di Esposito il quale, attraverso una metaforica che si presta a una feconda verifica nell’attuale fase di gestione della pandemia di Covid-19, già agli inizi del nuovo millennio aveva scorto nella categoria di immunizzazione la «chiave esplicativa dell’intero paradigma moderno»[2] e individuato nel comune la «forma […] di resistenza all’eccesso di immunizzazione»[3] e alla moltiplicazione di istanze securitarie figlie d’una flessione negativa della biopolitica. Per non tacere delle archeologie agambeniane che delineano in fogge messianico-catastrofiste comunità a venire abitate da forme-di-vita-in-comune, oppure rimemorano esempi di vita in comune (il cenobio francescano retto dall’uso di beni dei quali non si può rivendicare la proprietà) in cui quest’ultima non è «l’oggetto che la regola deve costituire e governare», essendo la regola a generarsi «dalla forma di vita comune»[4]. L’ordine argomentativo che qui si propone muove proprio dall’ontologia agambeniana.
1. Non è peregrino rilevare nella macchina di pensiero agambeniana la persistenza d’una dialettica tra proprio e improprio che mai si risolve, ma rimane in tensione e sbocca nell’ontologia modale dell’ultimo volume della serie Homo sacer. Stiamo parlando di un’ontologia della comunità in cui l’inappropriabile ha un ruolo centrale e non viene assegnata un’essenza da realizzare o riportare in luce – cosa che qualificherebbe la comunità come operosa. Al contrario è l’inoperosità a rappresentare la peculiarità della agambeniana comunità a venire, la quale definisce uno spazio che accoglie ogni «specie», un luogo «incircoscrivibile» coincidente con la «possibilità della indeterminata determinazione dell’esperienza»[5]. Si pensi a quanto sostenuto ne La comunità che viene, in cui è evocata una comunità che potrebbe essere abitata da singolarità qualunque le quali, non essendo in possesso di specifiche proprietà, avrebbero la «possibilità di un’appropriazione dell’improprietà»[6] capace di disinnescare le «opposizioni binarie tra proprio e improprio»[7]. Questa singolarità «si congeda dall’individuo proprietario, si espropria e si svuota, […] è pura istanza di desoggettivazione»[8], non ha identità e tale mancanza costituisce il nocciolo di un «convenire che non concerne […] un’essenza»[9] ma pertiene a una possibilità che potrebbe o non potrebbe avere seguito. Tra le due eventualità non v’è speculare simmetria, giacché decisiva sarebbe la «potenza di non essere». Ecco perché «propriamente qualunque» sarebbe «l’essere che […] può la propria impotenza». Nella «potenza di essere», spiega Agamben, «la potenza ha per oggetto un certo atto, […] la potenza di non essere, invece, […] ha per oggetto la stessa potenza»[10]. È a partire da questa cornice che Agamben pensa una comunità che non avrebbe il compito destinale di realizzare qualcosa, e al limite il compito del partecipante alla comunità a venire consisterebbe nel riconoscimento dell’«esistenza come possibilità o potenza»[11]. Agamben giunge, infine, a una domanda-chiave: «quale può essere la politica della singolarità qualunque […] la cui comunità […] è mediata […] dall’appartenenza stessa?». Gli eventi di piazza Tienanmen sembrano offrire qualche risposta, rappresentando una «politica che viene» non più orientata alla «conquista […] dello Stato», una «lotta fra lo Stato e il non-Stato (l’umanità), disgiunzione incolmabile delle singolarità qualunque e dell’organizzazione statale». Dunque esodo delle moltitudini singolari e qualunque? Non proprio, piuttosto loro impotenza, sottrazione dall’identità che ha il potere di destituire e di porre in essere una deposizione che permette un uso diverso di quel che è stato reso inoperante. La disgiunzione indeterminata delle singolarità qualunque dallo Stato non va però confusa con la «rivendicazione del sociale contro lo Stato», poiché le singolarità che si dissociano non dispongono di «alcuna identità da far valere», né rappresentano una societas concorrente e per definizione migliore. È proprio questo a sancire la pericolosità della loro comunanza. Fare «comunità senza rivendicare un’identità, che degli uomini co-appartengano senza una rappresentabile condizione di appartenenza», ecco lo scandalo più intollerabile. Tant’è che ovunque, conclude Agamben, queste singolarità «manifesteranno il loro essere comune, vi sarà una Tienanmen»[12].
Anche ne L’uso dei corpi ritroviamo la dialettica proprio-improprio, approcciata proponendo un modello di «ripartizione dei beni» che non tiene conto di «un diritto di proprietà della persona, ma [di] un diritto-al-bene del bene». Una simile etica dell’inappropriabile non è, inoltre, fondata «su una decisione» soggettiva; corrisponde, invece, «a uno “stato del mondo”», mentre l’uso si fa «relazione a un inappropriabile»[13] – dispositivo per ragionare di una comunità di singolarità in cui vita e forma non risultino più distinguibili e sia stata destituita la macchina ontologico-politica occidentale. Per Agamben, è noto, sarebbe rintracciabile un’antica scissione tra la vita come zoè e come bios caratterizzata da una esclusione inclusiva, il cui operatore principale è la legge. L’umano, nella prospettiva agambeniana, lungi dall’essere definibile una volta per tutte, è luogo di una decisione storicamente aggiornata, disposta dalla macchina antropologica, che fissa in ogni occasione il confine che separa l’uomo dall’animale: soglia rintracciata nella nuda vita, un’astrazione che separa nell’uomo la vita biologica dalla socialità ma che si fa carne in figure storiche che, nella genealogia agambeniana, vanno dallo schiavo antico al «contagiato» nell’attuale fase pandemica, passando per l’enfant sauvage dell’Illuminismo e l’ebreo nei lager nazisti[14]. Tornando a L’uso dei corpi, se la macchina ontologico-politica si fonda su questa divisione tra zoè e bios, la sua disattivazione passa per la concettualizzazione d’una «politica della forma-di-vita, della vita indivisibile dalla sua forma», capace di ricomporre le due istanze[15]. Ma qual è il nesso costitutivo della forma-di-vita? Agamben risponde: il pensiero, da intendersi come un’esperienza avente «per oggetto il carattere potenziale della vita» – in quanto pensare vuol dire «far esperienza […] di una potenza e di un uso comune». Qui «comunità e potenza si identificano», giacché «l’inerire di un principio comunitario in ogni potenza è funzione del carattere […] potenziale d’ogni comunità». Non vi sarebbe, al contrario, comunità o vera comunicazione «fra esseri […] sempre in atto, che fossero già sempre questa o quella cosa»[16]. D’altronde, la forma-di-vita non preesisterebbe al vivere, ma si genererebbe vivendo, senza che ciò implichi una sua definizione in «relazione […] a un’opera», quanto a una potenza e qualora il vivente volesse «definirsi […] attraverso la propria operazione», si condannerebbe a «scambiare […] la propria vita con la propria operazione e viceversa». Diversamente, la forma-di-vita «si dà […] solo là dove si dà contemplazione di una potenza». Per questo, è «innanzitutto l’articolazione di una zona di irresponsabilità» inoperosa «in cui le identità e le imputazioni del diritto sono sospese»[17]. Ma vi sono altri sbocchi per la politica della forma-di-vita fondata sull’inappropriabile che aprano alla riconciliazione con il diritto senza che si rinunci alla destituzione della macchina ontologico-politica? Cercarli significherebbe andare oltre Agamben.
2. Nel 1998 Esposito, pubblicando Communitas, mostra come parte del discorso filosofico-politico individui nella comunità una «soggettività più vasta», come accade nel caso di quelle filosofie dell’intersoggettività impegnate «a cercare l’alterità in un alter ego simile […] all’ipse che vorrebbero contestare e che invece riproducono», postulando che la comunità sia una «proprietà dei soggetti che accomuna» la quale «si aggiunge alla loro natura» soggettiva senza modificarla. Sennonché così non si coglie, secondo Esposito, lo specifico della comunità e la si reifica facendone un pieno, un valore, un’essenza, intrappolandola nella «semantica del proprium». Andrebbe, in sintesi, registrato il dato dell’identificazione del comune «con il suo […] contrario»[18]. Per uscire dal paradosso, Esposito ricorre all’etimologia del termine communitas soffermandosi sul munus e sul suo significato di dovere e, al contempo, di dono, che esclude la semantica della proprietà. Donde la problematizzazione dell’antinomia pubblico/privato, risultando il munus che abbiamo in comune non nostro né pubblico ed essendo la communitas «l’insieme di persone unite […] da un dovere […]. Non da un “più”» (un pieno) «ma da un “meno”»; è proprio il fatto che la comunità si fondi su una mancanza e non possa essere raffigurata come somma di singolarità a renderne i membri «non interamente padroni di se stessi». La comunità, cioè, quale congegno di «depropriazione che investe e decentra il soggetto proprietario»[19]. A fronte delle minacce agite dalla communitas verso l’individualità, entrerebbe, però, in gioco un principio immunizzante che toglierebbe il pericolo del cum, dissociando il «legame comunitario»[20] e sacrificando la socievolezza degli uomini al fine di garantirne la sopravvivenza. Una socialità totalmente comunitaria tenderebbe, invero, all’autodistruzione. Di qui la necessità di meccanismi immunizzanti.
Il punto è sin dove spingersi e il quesito mostra tutta la sua urgenza nel presente pandemico, caratterizzato dalla moltiplicazione di dispositivi funzionali a soddisfare una crescente esigenza di protezione della vita[21]. La questione concerne la possibilità di una filosofia dell’immunità non distruttiva della communitas, prologo e presupposto di una politica «della» vita e non «sulla» vita, di una biopolitica affermativa articolata in modo da non risolversi in tanatopolitica[22] e da abbandonare il «lessico allofobico»[23] evocante guerre con nemici esterni da scacciare. Si tratterebbe di non identificare l’immunità con la «strenua difesa del sé rispetto a qualsiasi invasore esogeno», cercando di assimilarla a un «sistema di allarme»[24]. Pensare, quindi, alla co-implicazione di communitas e immunitas e comunque, vista l’egemonia del polo negativo di tale relazione, lavorare per «rovesciare i rapporti di forza», per tentare una riconversione del «paradigma immunitario» sì da riconfigurarlo quale «filtro mobile tra interno ed esterno». La proposta di Esposito mirerebbe, dunque, alla progressiva «disattivazione degli apparati di immunizzazione negativa» e all’«attivazione di nuovi spazi comuni». In tal senso, il filosofo chiama in causa un «concetto di “bene comune”» rinvenibile «nelle pieghe del diritto romano, irriducibile alla distinzione […] tra diritto privato e […] pubblico», ragiona su una battaglia per istituire «i luoghi comuni sfruttando quegli […] strumenti del diritto che» avrebbero «a lungo lavorato in direzione opposta» e ammonisce dal non «commettere l’errore […] di abbandonare lo spazio pubblico prima di aver creato quello comune»[25].
3. Se in area radicale si danno, pure prima dell’apparizione di Commonwealth, testi che affrontano la questione del comune e se Ostrom aveva già attivato il dibattito da una posizione, sì, non anticapitalistica e cionondimeno critica rispetto ad alcune assunzioni dell’economia politica mainstream, va riconosciuto a Negri e Hardt il merito di avere partecipato in modo determinante all’affermazione di un discorso intorno al comune. Nello specifico, in Commonwealth essi invitano a intendere con il comune non solo i commons naturali, ma anche «tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale» ed «è necessario per l’interazione sociale» nonché «per la prosecuzione della produzione, come le conoscenze, i linguaggi, i codici, l’informazione, gli affetti»[26]. Tutto sarebbe comune, sintetizzando, questa categoria, «la totalità delle specificità del modo di produzione biopolitico»[27] già all’insegna d’una cooperazione autonoma da parte della moltitudine cognitiva, i cui risultati in termini di valore sarebbero risucchiati in modo parassitario da un capitale che non dirigerebbe e organizzerebbe più alcunché e si approprierebbe dei frutti del lavoro vivo ricorrendo non allo sfruttamento astraente, ma all’estrazione del comune e alla cattura dei suoi risultati. Il che dovrebbe condurre a capovolgere le raffigurazioni in base alle quali quello del comune sarebbe un mercato mancato e/o fallito e a riconfigurare sia l’economia politica sia la critica dell’economia politica. Ad esempio, un’eventuale riscrittura delle categorie marxiane dovrebbe vedere il lavoro necessario come produttore del comune e presentare il movimento di espropriazione del plusvalore quale estrazione del «prodotto di una potenza» da non imbrigliare eccessivamente, pena l’interruzione del processo di valorizzazione. Di fronte a questa difficoltà, l’unica strada capitalisticamente percorribile sembrerebbe la finanziarizzazione, restando la finanza «all’esterno dei processi produttivi», garantendo «alla produzione biopolitica la sua autonomia» e gestendo «l’estrazione del valore […] a distanza»[28]. Negri e Hardt giungono infine alla conclusione secondo cui il conflitto sociale assumerebbe la forma di un esodo istituente, d’una sottrazione del lavoro biopolitico comune dalle maglie del dispositivo proprietario e dagli ostacoli imposti a una produzione relativa a «beni biopolitici» per «realizzare il […] valore» dei quali bisogna garantirne la libera circolazione[29]. Sintetizzando: 1) la produzione bio-cognitiva non necessiterebbe né della mediazione capitalistica, né di quella statale, essendo già potenzialmente oltre il privato e oltre il pubblico; 2) il comune costituirebbe lo «sfondo ontologico della realtà sociale»[30].
Ciò detto, preme soffermarsi sulla struttura profonda dell’argomentazione di Negri e Hardt e il concetto su cui concentrarsi è quello di autonomia, già presente nel Tronti degli anni Sessanta, il quale scorge nella classe operaia il «motore mobile del capitale»[31]. Nel Negri dei Settanta, l’«esteriorità proletaria allo sviluppo capitalistico»[32] si traduce nelle tesi dell’operaio sociale e dell’autovalorizzazione: le lotte avrebbero costretto il capitale a sbarazzarsi dell’operaio massa, sostituito da una nuova figura capace di autovalorizzarsi. Il concetto di autovalorizzazione, preciserà Negri, sintetizzerebbe peraltro gli elementi del lavoro postfordista, indicando un movimento di separazione costituente dal capitale. E non è difficile notare le affinità tra autovalorizzazione ed esodo, essendo la prima quel movimento che, ostacolando la svalutazione capitalistica della forza-lavoro, mette in crisi la legge del valore muovendo dal settario autoriconoscimento operaio di una «propria indipendenza collettiva»[33]. Né è inutile sottolineare l’importanza della nozione di autovalorizzazione per comprendere il percorso che ha condotto Negri a privilegiare l’ontologico (in chiave spinozista e affermativa) e a riformare lo schema operaista, sino a Empire, Multitude e Commonwealth. Sennonché, moltitudine, impero e comune sono categorie che si tengono insieme in modo stretto. E se, ha rilevato Esposito, il paradigma imperiale è andato sgretolandosi, come è possibile sostenere la tenuta delle altre due nozioni? C’è, poi, nel ragionamento negriano, un ulteriore problema relativo all’autonomia del lavoro vivo e all’emergenza di «forme di soggettivazione»[34] già alternative al governo neoliberale delle condotte e tali (quasi) da lasciare pensare che basterebbe agire politicamente in modo gioiosamente efficace per interrompere il flusso estrattivo del capitale, anche nel caso, recente, di quei «fenomeni molto interessanti» di «comunicazione altra», ovvero «di trasformazione della comunicazione interindividuale in comunicazione collettiva» che si sono imposti nella rete nella fase di lockdown (le videochiamate di gruppo), che insegnerebbero cosa significhi «far passare sentimenti, affezioni, gioia di vivere, necessità di produrre da un livello individuale a un livello collettivo», materializzando così «l’astrazione marxiana della comunità»[35].
È evidente che una sintesi tanto semplificata del complesso discorso negriano rischi di caricaturizzarlo. Bisogna però considerare che quelle presentate in Commonwealth non sono ipotesi accolte pacificamente neppure, talvolta, nella comunità strettamente neo-operaista. Esse saranno al centro della critica di Dardot e Laval.
4. In Commun Dardot e Laval propongono una fondazione del comune in debito nei riguardi di Esposito, elaborano una critica delle teorie mainstream sui beni comuni nonché della prospettiva ostromiana e di quella neo-operaista e tracciano una tabella di marcia per una trasformazione globale all’insegna dell’istituzione giuridica del comune.
Proponendo un’archeologia del comune attraverso un’analisi etimologica, i due francesi sottolineano l’appartenenza del munus al «registro antropologico del dono», il suo riferirsi a uno «scambio tra onori e vantaggi associati alla concessione di cariche» da ricambiare a mezzo «di contro-prestazioni». Il comune designerebbe, cioè, «il principio politico di una co-obbligazione», la quale non avrebbe a «fondamento […] un’appartenenza data»[36] e inerirebbe a un uso di taluni beni e potenzialmente di tutti i beni, così evitando impostazioni reificanti aduse a concentrarsi solo su alcune risorse in virtù delle loro caratteristiche naturali e tali da bloccare la pensabilità di un percorso di affermazione di un diritto del comune che non aspiri solo a porlo accanto a quello pubblico e a quello privato, bensì a rendere questi ultimi residuali.
Quanto a Ostrom, bisognerebbe, a parere di Dardot e Laval, riconoscerle il merito di avere sviluppato il tema delle common-pool resources. La qual cosa non la esimerebbe dalla critica di avere coltivato una concezione per cui, secondo consuetudini dell’economia politica tradizionale solita suddividere i beni in base alla loro escludibilità e rivalità, solo per alcune risorse una gestione collettiva sarebbe preferibile a una statale o privata. Pur non essendosi liberata da un certo naturalismo, Ostrom avrebbe comunque compreso l’esigenza di definire i commons «come […] relazioni» tra users intenti a darsi norme di condotta: come «spazi istituzionali»[37]. L’istituzionalismo ostromiano sarebbe, nonostante tutto, preferibile alle narrazioni neoliberali figlie dell’individualismo metodologico – dal quale Ostrom si discosta senza anelare o alludere alla possibilità di fare del comune un «principio generale di riorganizzazione della società» e continuando a pensare a una «pluralità» di forme economiche[38].
Quanto a Negri e Hardt, Dardot e Laval riconoscono loro di essere andati oltre alcuni limiti del paradigma dei commons, insistendo non tanto sulla loro difesa, quanto sulla loro produzione. Al contempo, non risparmiano critiche, evidenziando come in Commonwealth la nozione di comune abbracci significati troppo eterogenei, avanzando l’accusa di un ritorno a un’architettonica naturalistica (ad esempio per quel che concerne il bene-conoscenza) e arrivando a considerare Negri e Hardt inconsapevolmente proudhoniani. Da Proudhon, Negri e Hardt riprenderebbero: 1) la figura della forza collettiva spontaneamente tesa all’agire-in-comune e irriducibile alla «somma delle forze individuali» che la compongono[39]; 2) il tema del furto di quel che è prodotto in comune; 3) la soluzione dell’«auto-regolazione dei rapporti sociali» per cui la giustizia sarebbe «immanente all’attività economica e sociale». Stando a Dardot e Laval, per Proudhon bisognerebbe, infatti, pensare a un «diritto economico della democrazia industriale, della federazione comune»[40], e non diversamente funzionerebbe il congegno teorico di Hardt e Negri, i quali, più che a Marx, si rifarebbero al teorico del mutualismo e ne immergerebbero le posizioni in uno «spinozismo comunizzato» nel quale l’essere sarebbe «affermazione e sviluppo autonomo di una potenza: la natura, la vita sociale, il lavoro immateriale e le lotte […] manifestazioni e mezzi di affermazione di questa potenza»[41]. Siffatto impianto argomentativo, in cui potenza e produzione si identificano in ragione dell’ipotesi di un lavoro biopolitico già autonomo e solo ex post predato dal capitale, non comprende, però, secondo Dardot e Laval, le inedite ed efficacissime forme di controllo e sfruttamento contemporanee, agenti prima, durante e dopo la produzione, esonerando dallo sforzo di pensare all’istituzione del comune. Diversamente, per Dardot e Laval bisognerebbe impegnarsi a elaborare i modi di essa e a tal fine i due autori si rivolgono a Proudhon, mostrandosi proudhoniani consapevoli. Proudhon, scrivono, è «colui che […] in modo molto più sistematico di Marx, riflette sull[e] alternative istituzionali […] alla proprietà privata e statale: […] uno dei primi teorici dell’istituzione del comune». Risulterebbe, in tal senso, illuminante, a dire di Dardot e Laval, il ragionamento di Proudhon sul diritto, la sua evocazione del prevalere di quello sociale su quello statale[42], cioè di un «diritto comune formalizzato dei co-produttori dell’intera società»[43], di un diritto all’uso che servirebbe a prassi istituenti capaci di fare del «diritto d’uso, e non del principio di proprietà»[44], la «matrice […] della regola giuridica». Al proposito, Dardot e Laval stilano un’agenda movimentista tale da superare l’antinomia (o alternativa) riforma-rivoluzione e incentrata su categorie quali federalismo, cooperazione, autogoverno. Il problema è quale sia il soggetto che dovrebbe farsene carico. Rifiutando l’idea che esso vada rintracciato nell’universo della produzione, i francesi non riescono a spiegare chi (e perché) dovrebbe impegnarsi per una strategia emancipativa all’insegna del comune. D’altro canto, da un punto di vista giuridico, il comune dei due studiosi dovrebbe indentificarsi con un «processo reale» del quale, però, «si stenta a cogliere tanto» l’attore, «rimpiazzato dall’evocazione di una forza sociale primigenia» dai «contorni […] indefiniti, quanto l’oggetto, almeno fino a quando la prassi istituente non si appropri, assoggettandolo alla regola di inappropriabilità, di un bene […] su cui riversare la sua vis performativa»[45]. Interrogati, più recentemente, sulla «crisi sanitaria, economica e sociale globale ad un livello extra-ordinario» costituita dalla pandemia, ovvero da questa «distopia […] diventata […] realtà […] che […] lascia intravedere ciò che, con il cambiamento climatico, attende l’umanità tra qualche decennio se la struttura economico-politica del mondo non dovesse cambiare rapidamente e in maniera radicale», Dardot e Laval non sembrano sciogliere tali nodi problematici, rintracciando nella trasformazione dei servizi pubblici «in istituzioni del comune capaci di mettere in opera la solidarietà vitale tra esseri umani» e nell’istituzione di «beni comuni globali» i bisogni politici più urgenti «dell’umanità», che devono essere imposti «agli stati e al capitale» attraverso «le insurrezioni, le rivolte» e le pratiche di non meglio precisate «coalizioni internazionali di cittadini»[46].
5. All’indomani della pubblicazione in francese di Commun, appare su «il manifesto» un’aspra recensione di Negri, nella quale Dardot e Laval sono ritenuti responsabili d’una «“de-materializzazione” del concetto di socialismo», nonché di un’incondivisibile «liquidazione» della «critica marxista dell’economia politica». Nell’ottica negriana, la negazione dell’autonomia del lavoro biopolitico e la sottolineatura della cogenza delle procedure neoliberali di soggettivazione assoggettante rappresenterebbero una «rassegnata constatazione che la produzione di soggettività da parte capitalista sia materialmente implacabile e storicamente irresistibile». Né Negri poteva evitare di contro-rispondere agli strali a egli rivolti in Commun:
«La critica che Dardot-Laval fanno [delle] analisi neo-marxiste che hanno intravisto nel modello […] dell’“accumulazione originaria” analogie con quanto sta avvenendo ora a livello globale – […] “sfruttamento estrattivo” – è equivoca perché nega il problema, nel mentre ne critica la soluzione. E lo è tanto più perché ignora […] la funzione del capitale finanziario […] quando accusa altri autori marxisti – attenti alla ricomposizione della rendita come strumento di sfruttamento e nuova figura del profitto – di aver ridotto […] il profitto a “furto” di un comune sostanzializzato» [47].
Al di là dei toni, Negri coglie alcuni dei punti di debolezza del ragionamento di Dardot e Laval, la cui maggiore problematicità risiede nel rifiuto di saldare il comune alla produzione, ancorando, così, la sua politica a una prospettiva meramente etica. Cosa segnalata da autori dell’area neo-operaista, che ora hanno bacchettato Dardot e Laval in specifiche occasioni (si veda la recensione di Bascetta in concomitanza della traduzione italiana di Commun), ora lo hanno fatto all’interno di una riflessione più ampia – si veda il volume di Vercellone, Brancaccio, Giuliani e Vattimo, pubblicato quasi in contemporanea con un altro importante testo ascrivibile al marxismo autonomo: Economia politica del comune di Fumagalli.
Ora, argomenta Bascetta, Dardot e Laval negherebbero sia l’idea di una «potenza sociale autonoma» della quale il capitale si approprierebbe, sia l’ipotesi marxiana d’una «potenza che il capitale» nutrirebbe «nel suo seno fino a» generare «una contraddizione esplosiva con il processo di accumulazione, le sue regole e le sue forme […]. Non si darebbe, insomma, nessuna generazione “spontanea” del Comune». Ma, continua Bascetta, avanzando l’ipotesi di una ultrasoggettivazione neoliberale fondata sulla necessità capitalistica di adoperare «strumenti extraeconomici» per sfruttare il comune, essi confermerebbero «la natura […] parassitaria» ed «“estrattiva” del capitalismo contemporaneo». Probabilmente, ipotizza poi Bascetta, il desiderio di non incappare nell’economicismo avrebbe condotto i due intellettuali d’oltralpe a un’idea di comune come «principio morale della ragion pratica»[48].
Non meno decisa la critica di Vercellone, Brancaccio, Giuliani, Vattimo, i quali presentano una concezione del comune «materialista e positiva», vedendovi un «modo di produzione in via di emersione che trova le sue radici nelle trasformazioni della cooperazione del lavoro e della […] natura dei prodotti»[49]. Ci si trova, qui, alle latitudini di un neo-operaismo che non ha abbandonato Marx, che prende le distanze da certo benecomunismo – aduso a limitare il comune a una «cerchia […] di beni […] in funzione delle loro caratteristiche»[50] – e che cerca di subordinare «la nozione di beni comuni […] al primato dell’attività dei commoners», ritenendoli un prodotto di «processi di commoning»[51] generativi di corrispondenti architetture giuridiche. In definitiva, il comune sarebbe «sempre una costruzione sociale e politica»[52], un «rapporto sociale di produzione che […] trova il suo fondamento ontologico storicamente determinato nell’autonomia potenziale del lavoro cognitivo». Quanto a Dardot e Laval, Vercellone, Brancaccio, Giuliani e Vattimo considerano la loro idea di comune «un’utopie sans sujet» in quanto «sconness[a] da ogni analisi della soggettività del lavoro capace di incarnarla»: per rompere con il «presunto determinismo […] di chi identifica le precondizioni del Comune nelle contraddizioni materiali del rapporto capitale-lavoro», Dardot e Laval proporrebbero una «concezione […] normativa» del comune. Non riconoscendo autonomia al lavoro contemporaneo – anzi considerando le modalità sussuntive attuali «più totalizzanti di quelle […] fordist[e]» – non afferrerebbero, inoltre, le «condizioni materiali» di emergenza del comune. Non è casuale che i due studiosi insistano sull’«idea di comune», come se esso fosse «una “qualité d’agir”» assimilabile a un «imperativo categorico sconnesso dalle condizioni […] attraverso cui gli uomini producono e riproducono […] il loro essere sociale»[53].
Queste, nella prospettiva di chi scrive, sono le dominanti (Agamben, Esposito, Dardot e Laval, Negri e i neo-operaisti) rintracciate nel dibattito filosofico-politico costituenti una genealogia, certo indocile e parziale, capace di definire i lineamenti fondamentali che configurano il tema del comune nel pensiero radicale contemporaneo e di aprire, al contempo, un varco nei discorsi e nei contro-discorsi alimentati, oggi, da infeconde coppie oppositive («negazionisti-affermativisti», «aperturisti-chiusuristi», «no vax-sì vax»). Affinché la critica, a partire dalla pratica teorica del comune, continui a funzionare.
Note [1] P. Dardot – C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013, p. 492. [2] R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 2006, p. XX. [3] R. Esposito, Da fuori. Una filosofia per l’Europa, Einaudi, Torino 2016, p. 18. [4] C. Salzani, Formae vitae e abdicatio juris. L’ontologia francescana di Giorgio Agamben, «Frate Francesco. Rivista di Cultura Francescana», 1, 2017, p. 55. [5] T. Tuppini, Ontologia della comunità. Nancy & Agamben, parte II, «Giornale di Filosofia», 21 gennaio 2010, p. 34. [6] G. Agamben, La comunità che viene, Einaudi, Torino 1990, p. 11 [7] C. Salzani, Il proprio e l’inappropriabile. Dialettica dell’uso, in A. Lucci – L. Viglialoro, a cura di, Giorgio Agamben. La vita delle forme, Il Melangolo, Genova 2016, p. p. 41. [8] S. Marchesoni, Parrhesia e forma-di-vita. Soggettivazione e desoggettivazione in Michel Foucault e Giorgio Agamben, «Nóema», 1, 2013, p. 80 [9] G. Agamben, La comunità che viene, cit., p 14. [10] Ivi, pp. 25-26. [11] Ivi, pp. 30-31. [12] Ivi, pp. 58-60. [13] G. Agamben, L’uso dei corpi. Homo sacer, IV, 2, Neri Pozza, Vicenza 2014, pp. 115-116. [14] È nota ormai anche all’audience generalista, soprattutto dopo la pubblicazione della lettera contro il green pass firmata insieme a Massimo Cacciari (www.iisf.it/index.php/progetti/diario-della-crisi/massimo-cacciari-giorgio-agamben-a-proposito-del-decreto-sul-green-pass.html), la battaglia di Agamben contro le vigenti norme di gestione della pandemia di Covid-19, condotta attraverso periodici interventi sulla rubrica «Una voce di Giorgio Agamben» di Quodlibet: «Qual è la figura della nuda vita che è oggi in questione nella gestione della pandemia? Non è tanto il malato, che pure viene isolato e trattato come mai un paziente è stato trattato nella storia della medicina; è, piuttosto, il contagiato o – come viene definito con una formula contraddittoria – il malato asintomatico, cioè qualcosa che ciascun uomo è virtualmente, anche senza saperlo. In questione non è tanto la salute, quanto piuttosto una vita né sana né malata, che, come tale, in quanto potenzialmente patogena, può essere privata delle sue libertà e assoggettata a divieti e controlli di ogni specie» (G. Agamben, La nuda vita e il vaccino, www.quodlibet.it/giorgio-agamben-la-nuda-vita-e-il-vaccino). [15] G. Agamben, L’uso dei corpi, cit., pp. 263-265. [16] Ivi, pp. 268-269. [17] Ivi, pp. 313-314. [18] Esposito, Communitas, cit., pp. VIII-IX. [19] Ivi, pp. XIII-XIV. Cfr. pure R. Esposito, Politica e negazione. Per una filosofia affermativa, Einaudi, Torino 2018, p. 84. [20] Esposito, Communitas, cit., p. XXII. [21] In un’intervista rilasciata a «HuffPost Italia» il 22 marzo 2020, dove si dichiarava egli stesso stupito della «coincidenza delle cose descritte negli anni scorsi con quelle che sta[vano] avvenendo in que[lle] ore», interrogato sulla adeguatezza delle «difese immunitarie italiane» rispetto alla pandemia di Covid-19, Esposito avvertiva: «Il problema comincia quando i nostri sistemi protettivi oltrepassano una certa soglia. In quel momento, accade nelle società ciò che accade ai corpi umani nelle malattie auto-immuni: la reazione troppo violenta del sistema immunitario danneggia la funzione vitale di altri organi, rischiando di portare l’organismo alla morte. È questa l’ambivalenza del paradigma immunitario» (Il coronavirus rafforzerà i sovranisti, «HuffPost Italia», 22/03/2020 www.huffingtonpost.it/entry/il-coronavirus-rafforzera-i-sovranisti_it_5e774fccc5b6f5b7c545fa2f). [22] Esposito, Immunitas, cit., p. 199. [23] Ivi, p. 186. [24] Ivi, p. 199. [25] Esposito, Da fuori, cit., pp. 183-184. [26] M. Hardt – A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010, p. 8. [27] I. Viparelli, Tra operaismo e biopolitica. Genesi e sviluppo del concetto negriano di produzione, «Etica & Politica», 1, 2018, p. 73. [28] Hardt – Negri, Comune, cit., pp. 288-290. [29] Ivi, p. 299. [30] Negri, Il comune come modo di produzione, cit. [31] M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966, p. 200. [32] I. Viparelli, Antonio Negri. La necessità della svolta ontologica, «Cahiers du GRM», 10, 2016, p. 4. [33] A. Negri, Il dominio e il sabotaggio, in Id., I libri del rogo, DeriveApprodi, 2006, p. 252. [34] R. Esposito, In dialogo con Toni Negri, in E. Lisciani-Petrini – G. Strummiello, a cura di, Effetto Italian Thought, Quodlibet, 2017, pp. 27-28. [35] Coronavirus. La fase attuale ed il futuro, intervista di Radio Onda d’Urto a Toni Negri del 21 marzo 2020. [36] P. Dardot – C. Laval, Del Comune, o della rivoluzione nel XXI secolo, DeriveApprodi, Roma 2015, pp. 22-23. [37] Ivi, p. 119. [38] Ivi, pp. 124-126. [39] Ivi, p. 162. [40] Ivi, pp. 167-169. [41] Ivi, pp. 154-155. [42] Ivi, pp. 293-294. [43] Ivi, p. 298. [44] Ivi, p. 363. [45] M. Fioravanti – E.I. Mineo – L. Nivarra, Dai beni comuni al comune. Diritto, Stato e storia, «Storia del Pensiero Politico», 1, 2016, pp. 113-114. [46] P. Dardot – C. Laval, La sfida politica della pandemia, «OperaViva», 21 marzo 2020 (https://operavivamagazine.org/la-sfida-politica-della-pandemia). [47] A. Negri, La metafisica del comune, «il manifesto», 06 maggio 2014. [48] M. Bascetta, Il principio etico della buona vita, «il manifesto», 06 settembre 2015. [49] C. Vercellone – F. Brancaccio – A. Giuliani – P. Vattimo, Il comune come modo di produzione. Per una critica dell’economia politica dei beni comuni, ombre corte, Verona 2017, p. 20. [50] Ivi, p. 25. [51] Ivi, p. 105. [52] Ivi, p. 30. [53] Ivi, pp. 53-56.
Immagine: Mogens Otto Nielsen, 1986.
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