Narrare il calcio oltre le privatizzazioni, l’odio e la xenofobia
La recente comparsa di tifoserie antifasciste in Argentina ci permette di riscoprire un vincolo tra calcio e politica che sembrava essere stato accantonato, lasciando spazio alle ampie cronache di stigmatizzazione di tifoserie, le cosiddette barras bravas, e alla violenza tra opposte identità calcistiche, che portò, nel 2013, a proibire le trasferte dei gruppi organizzati. Sebbene siano recenti gli studi che hanno analizzato il fenomeno delle barras bravas e le connessioni con la politica, o l’esistenza di strategie clientelari tra alcuni ambienti dello stadio e le elezioni locali (Moreira 2011), il calcio delle zone del Rio de la Plata, in realtà, è connesso da sempre con la sfera politica e nelle modalità più disparate. Nei primi anni del XX secolo, in ogni quartiere nascevano i cosiddetti Club Social y Deportivo, circoli sociali e sportivi che in sintesi significavano milonga y fútbol (Bayer 1990). Il calcio sembrava essere un fattore che generava una nuova coscienza sociale, anche nella lotta di classe. Numerose sono le squadre argentine che nascono dall’unione di operai, circoli anarchici e socialisti, oratori di chiesa, biblioteche popolari, spesso in segno di sfida contro «i padroni» che non permettevano loro di giocare nel club aziendale. Da allora, il calcio si è trasformato e con esso anche le forme di partecipazione. Globalizzazione, mercificazione, securizzazione, mediatizzazione e modernizzazione sono le varie trasformazioni che hanno attraversato questo sport, con una mutazione dei caratteri identitari e degli scopi che il calcio ha da sempre incarnato. Infatti, se i racconti di Osvaldo Bayer ricostruiscono le trasformazioni a partire dall’aumento dei posti a sedere nei campi di calcio, l’implementazione di un nuovo terreno di gioco (con il passaggio dalla terra all’erba verde), o l’inizio della divisione tra «club maggiori» e «club minori» avviata dagli anni Venti del secolo scorso, parallelamente, Edoardo Galeano (2015) ci ricorda come Havelange, nel 1993, osservasse la crescita del movimento finanziario del calcio, in relazione al fatturato della General Motors: 225 a 136 miliardi di dollari.
Il calcio diventava così ufficialmente un prodotto commerciale, da vendere nel migliore dei modi. Non è un caso se oggi consideriamo i tifosi come citimer, vale a dire un ibrido tra il cittadino (citizens) e il consumatore (consumers) (Numerato 2016, Numerato e Giulianotti 2017). È in questo processo di mutamento dell’universo calcistico che va inquadrato il fenomeno delle tifoserie antifasciste, sorte in Argentina tra il 2017 e il 2019 per mano di tifosi di vari club di prima e seconda divisione. In un pot pourri di varie definizioni degli stessi tifosi antifascisti, leggiamo che queste tifoserie sono «nate dalla passione per il fútbol, per lo spirito amatoriale e per la libertà» (comunicato dell’Independiente Antifascista, 20 luglio 2018), «come una componente identitaria dei settori popolari», dove si fa appello alla «solidarietà fra coloro che vogliono vivere le proprie vite senza essere segnalati o pestati» (comunicato del Rosario Central Antifascista, 3 dicembre 2017), a sostegno di un calcio «dove odio e xenofobia non avranno mai spazio» (comunicato del Newell’s Antifascista, 26 agosto 2017), invitando a rompere «con l’omofobia, il razzismo, la xenofobia, il maschilismo e qualsiasi condotta che attenta alle libertà individuali dentro e fuori gli spalti» (comunicato del San Lorenzo Antifascista, 23 settembre 2018).
Le trenta tifoserie che a oggi fanno parte della compagine antifascista strutturano la propria presenza tra le reti sociali, gli stadi e gli incontri pubblici. Ciascuna tifoseria vede un nucleo di tifosi/e attivi/e che possono arrivare fino a venti persone, ma che grazie ai network sociali, quindi ai loro account facebook, twitter e instagram, catturano le simpatie e la partecipazione (non solo virtuale) di tifosi e molte altre individualità che non sono assidui frequentatori dello stadio, ma allo stesso tempo partecipano alla costruzione di una narrazione differente del calcio. Una narrazione che mira a decolonizzare la cultura dominante, legata a un senso comune che non permette di vedere cosa si celi dietro alla pratica quotidiana del rituale calcistico.
Se gli studi sociologici dello sport lo considerano come mezzo di integrazione sociale o come pratica utile a conservare le barriere sociali e a generare violenza tra gruppi rivali (Villena Fiengo en Alabarces 2004), il fenomeno delle tifoserie antifasciste attraversa queste due prospettive, creando dei vincoli comunitari come elementi di resistenza, davanti al tentativo di imporre barriere che escluderebbero dalla partecipazione sportiva e sociale la maggior parte dei tifosi.
Il calcio, infatti, in Argentina è un fattore identitario trasversale all’intera società, filtrato da idoli e passione per i vari club e intriso di questioni politiche. In diversi momenti della storia del paese sudamericano, il calcio ha rappresentato uno spazio di resistenza o cooptazione. Se da un lato, durante l’ultima dittatura è stato un mezzo di legittimazione sociale per la giunta militare e per coloro che gravitavano intorno, ciò attraverso l’occupazione di cariche sportive e il condizionamento di avvenimenti calcistici (Gómez 2017), o, continuando, è stato utilizzato per coprire i crimini di lesa umanità o come mezzo di propaganda (Risler 2018), dall’altro lato, il calcio è stato anche uno spazio dove poter esercitare alcuni meccanismi della democrazia, partecipando alla vita sociale ed elettorale del proprio club (Rein, Gruschetsky, Daskal 2018). Non è un caso se il movimento delle tifoserie antifasciste nasca intorno alla questione della partecipazione sociale nella vita dei club e davanti all’avanzata delle politiche neoliberali promosse dal governo argentino di Macri (2015-2019). Tra il 2017 e il 2018 le tifoserie antifasciste, attraverso le loro reti sociali, prendono parte al dibattito sulle «Società anonime sportive», con il fine di divulgare informazioni ed evidenziare i punti salienti del tema, spiegando cosa sono le Società anonime, quali effetti potrebbero generare nei club e il perché ci siano rappresentanti politici e club calcistici a proporre queste trasformazioni.
L’avanzare del capitalismo e di politiche neoliberali che hanno interessato, in ordine, la salute, i servizi pubblici e le istituzioni della società civile, ha investito anche il calcio, con i club trasformati da associazioni senza fini di lucro (modello vigente in Argentina) in Sociedad anónimas deportivas (Sad). Alla base di questo cambiamento, per i promotori c’è la necessità di modernizzare il calcio e garantire maggiore trasparenza nelle varie amministrazioni dei club, introducendo un modello eurocentrico, simile a quello della Premier League inglese o della Serie A italiana. Il dibattito assume una dimensione soprattutto subcontinentale, in quanto il sistema delle Sad è stato adottato già in Cile, Brasile e Perù, portando di fatto la privatizzazione di vari club (Moreira 2018). Le tifoserie antifasciste, che si oppongono a questa logica definita modernizzante, fanno notare come questa scelta andrebbe a discapito degli sport amatoriali (inclusi nell’organigramma dei club), riducendo i servizi che i vari club sportivi prestano attualmente alle comunità, quali scuole, piscine, centri d’attenzione medica, club sociali per anziani e su tutte una serie di strutture che garantiscono una contenzione sociale, mentre aumentano povertà, precarietà e si riduce l’accesso ai servizi pubblici. Inoltre, il passaggio da un sistema a un altro diminuirebbe la partecipazione dei soci nelle decisioni che riguardano i rispettivi club, annullando il meccanismo elettorale ed eliminando la rappresentatività e la partecipazione di vari soci nella struttura politica interna o nella gestione dei servizi comunitari. Il sistema delle Sad porterebbe ad un’eventuale esclusione dei soci e produrrebbe una trasformazione delle caratteristiche socioeconomiche di questa stessa figura, che andrebbe ad assumere ruoli di responsabilità e decisionali nel club. I diversi tentativi di questa trasformazione, sinora sono stati respinti per via delle divisioni dell’Afa (Asociación del fútbol argentino) – che vede, per ora, in vantaggio i sostenitori del sistema associativo senza fini di lucro – e dalle pressioni portate avanti dalle varie tifoserie con l’organizzazione di banderazos – riunioni nello spazio pubblico dove tifosi e soci hanno unito i loro colori sociali – e le campagne informative portate avanti dalle tifoserie antifasciste.
Tuttavia, la trasformazione dei club riguarda anche la questione identitaria, che determina un altro campo d’azione delle tifoserie antifasciste. La spinta verso il modello imprenditoriale delle Sad porta a massimizzare i profitti del calcio, attraverso il marketing, l’aumento degli sponsor, la vendita di prodotti ufficiali, progetti di nuovi stadi, fattori questi che generano identità distorte dei club, le quali differiscono dall’immaginario popolare e migrante che è alla base di diverse squadre (Moreira e Hijós 2013).
È su questo mutamento del fattore identitario che le tifoserie antifasciste avvertono la necessità di intervenire, attraverso la costruzione di un meta-territorio tra calcio e politica, proprio perché la costruzione identitaria e dell’alterità in gioco, rientrano in una costruzione che va oltre il calcio, espressione di un settore egemonico e di una cultura dominante. Pertanto, le tifoserie in questione tentano di generare una cultura in comune (Williams 1977), vale a dire una cultura che vede gli individui come soggetti attivi nell’elaborazione di significati e valori, e nella decisione di quali adottare. Le identità calcistiche argentine, nel tempo, hanno sviluppato un discorso razzista, xenofobo, sessista, omofobico, violento, sintetizzato in ciò che è conosciuto come folklorizzazione del rituale del tifo (Bundio 2020). Infatti, nei cori e negli insulti rivolti alla propria alterità calcistica si rileva una «bianchizzazione» dell’identità, quindi il disprezzo per «lo straniero» latinoamericano, in particolare boliviano e paraguaiano – fattore presente nel senso comune argentino all’interno di un discorso pubblico razzista e classista a cui corrisponde la stigmatizzazione delle classi sociali più povere, dove il «nero» razzializza non solo il colore della pelle, bensì il destino lavorativo e consumistico in termini di subordinazione e sofferenza (Gatto 2019) – così come l’esasperazione della mascolinità attraverso la cultura del aguante, che poggia sulla retorica mascolina della «resistenza». Questa costruzione identitaria si è sedimentata nel tempo. Se negli anni ’50 il calcio si costruisce come spazio di affermazione mascolina dove esibire pratiche violente regolate da un codice d’onore tra tifoserie (Alabarces 2004), a partire dagli anni ’70, con la diffusione dei grandi mezzi di comunicazione, il consolidamento dell’industria culturale argentina e la radicalizzazione di alterità tra rivali, la violenza viene introiettata anche nei cori. Dall’esprimere un sostegno ai propri calciatori e alla squadra, celebrare le vittorie, questi transitano a contenuti violenti, razzisti e omofobi (Bundio 2020). Con il fine di decostruire queste identità, le tifoserie antifasciste ricorrono alle origini e agli idoli dei club: la storia di ogni club è un racconto di migrazione, incontro tra classi popolari, dove l’idolo proviene da un paese limitrofo all’Argentina, pensiamo al paraguaiano Arsenio Erico, massimo goleador nella storia del campionato argentino e simbolo dell’Independiente, o alla storia migrante che caratterizza il mito fondativo del Boca. L’azione collettiva delle tifoserie antifasciste si sviluppa attraverso volantinaggi, incontri pubblici, comunicati e con una presenza nelle proteste sociali o nei centri culturali. Infatti, la dissociazione tra il senso comune e la pratica da stadio che sviluppa contenuti razzisti, omofobi e misogini, porta le tifoserie antifasciste ad agire su tre fonti: i social network, lo stadio e la politica negli spazi sociali e collettivi.
A queste pratiche occorre aggiungere la rete di legami e solidarietà internazionali, in particolare nel contesto latino-americano, che queste tifoserie nate recentemente sono riuscite a tessere. Nello specifico rileviamo gli incontri con le tifoserie antifasciste brasiliane – che vantano una traiettoria più longeva e storica in America Latina – in occasione degli incontri della Copa Libertadores e l’appoggio alla campagna «Ele não» contro Bolsonaro, o la solidarietà con le tifoserie cilene impegnate nelle proteste che hanno caratterizzato il 2019-20, portando al referendum per l’adozione di una nuova costituzione, in luogo di quella pinochetista.
Tracciando delle prime e parziali osservazioni, le tifoserie antifasciste permettono di riscoprire la totalità della società attraverso l’universo del calcio, luogo in cui i cambiamenti al suo interno, anche quando sembrano mostrare una certa autonomia, in realtà rimandano a quei meccanismi di esclusione e identitari, tipici della società esterna, così anche l’espressione di valori e la costruzione di un senso comune vanno ben oltre il rituale dello stadio. Queste trasformazioni innescano meccanismi di creazione e di resistenza nelle tifoserie che, pur continuando a consumare lo spettacolo calcistico ricreando il rituale del dramma (Archetti 2008), che comporta la passione per il calcio, inventano nuove tattiche che ampliano le identità tradizionali e generano una narrazione trasversale e collettiva. Il risultato sembra andare alla ricerca di una totalità culturale e una lotta politica che gioca sulle frontiere di una società comune che incontra connessioni tra il panorama locale e quello sub-continentale.
Bibiliografia
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