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Le radici materiali dell'ineguaglianza femminile


Le «Grandi dimissioni» e la questione femminista



femminist

La «questione femminile» torna ad imporsi all’ordine del giorno del grande pubblico. Anche per questo, la straordinaria manifestazione di Non una di meno dello scorso 25 novembre segna un salto di qualità, saldando – almeno per un momento, almeno in potenza – le tre grandi dimensioni della sopraffazione capitalistica: la violenza di genere, il lavoro povero, la guerra di sterminio in Palestina. Un libro di Chiara Davoli e Valeria Tarditi ci consente di pensare insieme la questione femminile e la questione di classe, in una prospettiva di emancipazione al tempo stesso di genere e universale. (A.B. e L.A.)


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All’indomani della grande manifestazione de 25 novembre, che ha visto scendere in piazza a Roma 500mila persone contro le diverse forme di violenza di genere, e in vista del prossimo sciopero dell’8 marzo, analisi come quella di Chiara Davoli e Valeria Tarditi in Lavoro diseguale. Voci, esperienze e immaginari delle donne (Castelvecchi 2023) risultano quanto mai attuali e necessarie, dando voce all’esperienza diretta delle donne che, come soggetto politico eterogeneo, stanno riprendendo un nuovo spazio di azione a livello sociale e politico. La potenza di questo rinnovato protagonismo si manifesta non solo in occasione di giornate importanti come il 25 novembre, quando centinaia di migliaia di persone si sono riappropriate delle strade della città politicizzando l’attraversamento dello spazio urbano in senso femminista, ma anche nella quotidianità. Nel libro le autrici contribuiscono a fare luce su uno degli aspetti principali della violenza strutturale esperita dalle donne e dalle soggettività femminilizzate, ovvero quello della disuguaglianza nel mondo del lavoro. Il libro analizza, infatti, le condizioni di lavoro delle donne in Italia, adottando una prospettiva di genere all’analisi del mondo del lavoro. Ciò significa, allo stesso tempo, applicare la chiave di lettura del lavoro all’analisi della disuguaglianza di genere, nella misura in cui l’identità di lavoratrici è parte della più ampia identità sociale di donne, e queste due componenti non possono essere disconnesse e analizzate separatamente. Proprio per questo motivo, nonostante gli studi sul tema siano parte integrante dell’analisi femminista fin dalle sue origini, analizzare il lavoro inteso come rapporto sociale ci dice tanto sull’effettiva condizione delle donne e sulle forme intersezionali di discriminazione e sfruttamento che, in evoluzione costante, attraversano la nostra società.

Il primo merito di questo libro è la sua dimensione concretamente femminista, che si dà non solo nei contenuti, ma anche nell’approccio metodologico e nello svolgimento dello studio tramite gli strumenti della con-ricerca. Il libro nasce, infatti, dalla necessità della Casa Internazionale delle Donne di Roma di analizzare le condizioni reali di vita delle donne a seguito degli anni di pandemia che hanno portato a una trasformazione reale e rapidissima del mondo del lavoro, ponendo nuovi temi e risignificandone altri già esistenti. Il contesto di analisi è, quindi, quello della città di Roma, che ci permette, da un lato, di inquadrare le esperienze narrate a partire dalla loro dimensione territoriale e, dall’altro, di analizzare le trasformazioni sociali del territorio di riferimento. Questo libro nasce quindi come strumento di auto-inchiesta per capire a che punto siamo e come possiamo organizzarci in futuro. È un libro situato e di parte che, in linea con la tradizione femminista, parte dall’esperienza vissuta delle donne per cogliere una complessità che va oltre l’astrazione della teoria e la fredda sintesi della statistica, rimettendo al centro i corpi e le esperienze vissute. Nel farlo, però, evita anche di cadere nella trappola della donna come soggetto universale e adotta un approccio intersezionale che tiene conto dell’eterogeneità dell’esperienza lavorativa delle donne nel nostro paese, includendo prospettive migranti e di generazioni diverse, ponendo al centro l’analisi dell’identità sociale ad ampio raggio e della sua messa a valore nel capitalismo contemporaneo, riconoscendo tutta l’utilità e il valore delle metodologie femministe nella ricerca sociale.

Se l’analisi del mondo del lavoro in chiave di genere si rivela sempre utile per individuare la trasformazione costante del lavoro in rapporto all’evoluzione della società stessa, le autrici riescono ad estendere i confini della nozione di lavoro e della sua rilevanza nell’attuale organizzazione del lavoro. In tal senso, non si può parlare di lavoro senza considerare anche l’evoluzione in senso neoliberista dell’organizzazione del welfare, dell’organizzazione sociale della cura e dei più ampi processi di discriminazione intersezionale che si danno anche sui posti di lavoro. Il lavoro è oggi più che mai femminilizzato e razzializzato e lo sguardo intersezionale appare quindi assolutamente necessario. Gli stessi dati statistici, che nel libro vengono presentati come macro-cornice dell’analisi qualitativa che parte dal corpo delle donne intervistate, testimoniano che la disuguaglianza di genere si dà su più piani, tra cui quello lavorativo, che risultano essere tutti intersecati tra loro. Eppure, una simile analisi non è utile soltanto in chiave femminista: la femminilizzazione qualitativa del lavoro, intesa come normalizzazione di lavoro povero, precario, poco tutelato e atipico, infatti, va ormai oltre il genere e diventa modello di riferimento per tuttə. In tal senso, le analisi di genere come quelle di questo libro risultano essere strumenti essenziali per comprendere le trasformazioni più recenti e trasversali del mondo del lavoro e le possibili nuove forme di organizzazione e azione collettiva.

Come emerge chiaramente dalle interviste, si può stabilire un parallelismo tra violenza di genere e violenza di un mondo del lavoro che moltiplica i luoghi di sfruttamento e mette a valore la totalità della nostra esistenza. Ciò che viene richiesto, in entrambi i casi, è un sacrificio per amore: si tratta di una narrazione tossica che va decostruita per esplicitare quanto essa risulti funzionale a sdoganare forme di lavoro gratuito e sfruttamento non solo nell’ambito del lavoro domestico e riproduttivo non riconosciuto, ma anche nel lavoro produttivo sempre meno tutelato, meno pagato e più precario. Non è un caso che le donne intervistate si rappresentino come «equilibriste solitarie» in questo difficile tentativo di articolare tempi di vita e di lavoro e che si lamentino del fatto che spesso il lavoro «ruba la vita».

Altro merito delle autrici è quello di andare oltre l’analisi oggettiva delle condizioni di lavoro per relazionarla alla dimensione soggettiva dell’identità e della percezione che le donne hanno di sé stesse come lavoratrici. Una delle evoluzioni più chiare del mondo del lavoro post-pandemia è proprio il cambiamento dell’immaginario di riferimento, che emerge specialmente dalle parole delle più giovani e che si colloca in linea col dibattito emergente su fenomeni come quello delle Grandi Dimissioni. Le intervistate hanno un rapporto ambivalente col lavoro: se tutte ne riconoscono la necessità come forma di indipendenza all’interno di un sistema capitalistico, molte non hanno più intenzione di sacrificare tutta la loro vita a lavorare, tanto in casa che fuori. Anche in questo caso lo sguardo intersezionale restituisce la giusta complessità dell’analisi: da un lato le donne migranti sono quelle che più spesso identificano l’avere accesso al mercato del lavoro come un fattore indispensabile di indipendenza, anche alla luce del nesso esistente tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro; mentre le lavoratrici più giovani sono quelle che più si interrogano sulla possibilità di vivere in un mondo liberato dal lavoro. Le autrici sono particolarmente abili nel far dialogare quello che emerge dall’esperienza vissuta delle intervistate con le rivendicazioni della nuova ondata femminista, come il reddito di autodeterminazione proposto da Non Una Di Meno come strumento di emancipazione tanto dalla violenza fisica ed economica di mariti e compagni violenti, quanto dal ricatto di un mondo del lavoro che garantisce sempre meno le donne e le soggettività femminilizzate. In tal modo, queste rivendicazioni vengono riconosciute come necessarie a partire dal dato di realtà dell’esperienza lavorativa delle donne oggi.

Infine, merito del libro è quello di collegare l’analisi del lavoro col tema del potere e della rappresentanza. Se le intervistate manifestano una generale sfiducia verso gli attori politici e sindacali, anche le possibilità di azione collettiva dal basso vengono interrogate criticamente, soprattutto rispetto ai risultati da raggiungere. La necessità diffusa di un cambiamento si declina spesso solo a livello individuale, mentre le forme organizzate di azione vengono percepite spesso come distanti. Chiaramente, un modello di leadership femminile non basta, nella misura in cui femminile non coincide con femminista e spesso non punta a cambiare le dinamiche di potere esistenti, ma anzi le riproduce. Il passaggio necessario è quello da una rappresentanza formale a una rappresentanza sostanziale di tutte le donne, che metta radicalmente in discussione un modello sociale ed economico che è sessista tanto quanto razzista e classista. Il tema del potere e della resinificazione dello stesso al di là degli angusti spazi della sua declinazione al maschile appare come cruciale: come si può risignificare il potere in senso femminista? Come scardinare forme di potere basate su discriminazione, oppressione e sfruttamento per definire nuove forme di potere – o di potenza? – collettivo, orizzontale e inclusivo? Le parole delle intervistate ci portano, quindi, ad interrogarci su come uscire dalla condizione di isolamento e marginalità che spesso ci troviamo a vivere attraverso forme di organizzazione intersezionali e femministe che segnino il passaggio da un modello di leadership settato sul maschile e un modello nuovo e radialmente diverso di organizzazione e rappresentanza sostanziale. In tal senso, un altro merito indiscutibile di questo libro è di ricollegare l’analisi del mondo del lavoro alla necessità di un cambiamento politico e di nuove forme di organizzazione collettiva - anche a livello sindacale – senza le quali il cambiamento non può avvenire. Nelle parole delle autrici: «è necessario procedere con l’articolazione di proposte di cambiamento e strumenti politici in grado di raccogliere l’insoddisfazione e dare espressione a quella consapevolezza che, anche tra chi è debolmente coinvolta in processi partecipativi, risulta essere presente». Anche – e forse soprattutto – per questo il libro si conferma come strumento politico che, in prospettiva onestamente parziale e situata non si limita all’analisi, ma la articola per interrogare su come agire concretamente nell’ottica di un cambiamento sentito sempre più come necessario e urgente.


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Lucia Amorosi è assegnista di ricerca in scienze politico-sociali presso la Scuola Normale Superiore. Si occupa di lavoro e sindacati in chiave di genere e intersezionale sia nella ricerca che nell'attività politica femminista.

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