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Le mani sul pianeta


L’imperialismo immobiliare di Trump



Mohammed Alhajj, Displacement 1, 2020
Mohammed Alhajj, Displacement 1, 2020

Un ulteriore importante tassello nella comprensione del fenomeno Trump e delle rotture che sta imponendo.

Brenna Bhandar e Alberto Toscano ci parlano qui dell'«ontologia immobiliare» del Presidente degli Stati Uniti. Lo sviluppo immobiliare diviene, infatti, sostituto del diritto internazionale nella gestione dei rapporti internazionali, ben visibile nello scabroso «piano di sviluppo per Gaza». Ideologia immobiliare che si esprime in modo diretto nella geopolitica, plasmando le forme di potere esercitate da Trump e dal suo entourage e che mostra un cambiamento nella pratica e nell'immagine di sé del potere sovrano e imperiale, nonché una crescente volontà di abbandonare le concezioni giuridiche del territorio, dello stato-nazione e delle relazioni internazionali che, pur con ipocrisia o attenuazione, sono state predominanti per un lungo periodo.


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Poco prima della vittoria di Donald Trump alle presidenziali del 2016, il critico culturale Fredric Jameson, nel suo American Utopia, osservava che «oggi, tutta la politica ruota attorno al settore immobiliare». Facendo esplicito riferimento alla Palestina, Jameson sosteneva che la politica postmoderna fosse «essenzialmente una questione di accaparramento di terre, tanto a livello locale quanto globale». Se questa affermazione risultava già inquietantemente fondata all’epoca dell’ascesa del cosiddetto slumlord-in-chief, oggi trova una conferma grottesca nella sua più recente proposta: il «piano di sviluppo per Gaza», come lo definisce il «New York Times», nel tentativo di conferire una parvenza di razionalità agli abusi sistematici inflitti al popolo palestinese.

Più volte, e in maniera particolarmente sfacciata durante la visita di Stato del premier israeliano Benjamin Netanyahu – ricercato per crimini di guerra – Trump ha rilanciato l’idea di deportare l’intera popolazione della Striscia di Gaza in altri Paesi, in particolare Giordania ed Egitto. Il progetto? Radere al suolo le macerie di un genocidio e trasformare Gaza nella «riviera del Medio Oriente», una speculazione edilizia condotta sulla distruzione e sulla pulizia etnica. Un'idea che incarna perfettamente la visione di un mondo in cui la politica si riduce a un gigantesco affare immobiliare, dove la terra non è un diritto, ma una merce da conquistare e sfruttare.

 

Il dirigente di Hamas Osama Hamdan ha reagito duramente, affermando che «le dichiarazioni di Trump su Gaza rivelano la mentalità americana e la sua visione dei territori come semplici beni immobili… Le parole di Trump alimentano il caos. Se vuole l’espansione di Israele, dovrebbe concedere spazi nel suo stesso paese».

Anche alcuni alleati della NATO hanno preso le distanze dalle dichiarazioni. Il presidente francese Emmanuel Macron ha sottolineato che «la risposta giusta non è un’operazione immobiliare», mentre il premier spagnolo Pedro Sánchez ha dichiarato che «nessuna transazione immobiliare può nascondere il male, la vergogna e i crimini contro l’umanità che Gaza ha subito in questi anni».

Anche per chi da tempo è assuefatto alle insensatezze e alle oscenità che sgorgano incessantemente dalla bocca del Presidente degli Stati Uniti, l’idea di costruire un resort sulle fosse comuni resta un abominio che lascia sgomenti. Dopo decenni di ostacoli sistematici al diritto palestinese all’autodeterminazione e alle norme internazionali contro l’apartheid, l’annessione territoriale, il trasferimento forzato della popolazione e la pulizia etnica, la complicità degli Stati Uniti nel genocidio israeliano sotto l’amministrazione Biden-Harris si è ormai trasformata in un totale abbandono non solo dell’ormai residuale ordine internazionale liberale, ma persino dell’idea stessa di sovranità come principio fondante dei rapporti tra Stati, territori e popoli.

Sovranità e proprietà sono concetti indissolubilmente legati nel pensiero politico moderno fin dal XVI secolo. Il rapporto tra imperium (potere esecutivo supremo) e dominium (proprietà assoluta), e il grado in cui un sovrano può interferire con i diritti di proprietà dei suoi sudditi, ha rappresentato uno degli snodi fondamentali delle principali teorie dello Stato. L’analogia tra il potere sovrano assoluto e quello del proprietario terriero ha forgiato l’immaginario politico europeo da Hobbes a Locke e ha costituito la base dell’ordine coloniale moderno, che si è manifestato tanto nei conquistadores spagnoli quanto nell’imperialismo britannico. In questo schema, la sovranità, concepita come imperium, è stata la giustificazione principale per l’acquisizione dei territori indigeni da parte delle potenze coloniali, trasformando la terra in dominium – proprietà – in un processo che continua a ripetersi, con inquietante continuità, nei progetti di espropriazione e reinsediamento forzato dei palestinesi.

La proprietà, nella sua forma finanziarizzata di mercato immobiliare, è diventata il fulcro delle economie neoliberiste. Oggi l’ideologia immobiliare si esprime in modo diretto nella geopolitica, plasmando le forme di potere esercitate da Trump e dal suo entourage. Se gli Stati Uniti, sin dalle loro origini come colonia di insediamento, hanno incarnato ciò che lo storico Allan Greer definisce una «monopsonio immobiliare» – portando alle estreme conseguenze la tendenza dell’impero britannico ad agire come «padrone di casa educatore» (nelle parole di Ranajit Guha) – l’approccio di Trump al dominio senza egemonia è ancora più brutale e semplificato. La sua visione rispecchia la mentalità elementare di un costruttore edile: acquisire proprietà, o meglio un «sito» (sradicato dalla sua storia), svilupparlo e poi affittarlo, venderlo o sfruttarlo, con l’unico scopo di ottenere profitto.

Storicamente, il furto di terre indigene è stato agevolato da un intero arsenale di strumenti giuridici  –  quello che potremmo definire lawfare  –  che include rilievi topografici, mappature, registrazioni catastali, trattati (spesso firmati con la tipica malafede coloniale) e contratti di vendita. Tutto questo veniva giustificato come parte di una missione civilizzatrice e di progresso. Tuttavia, l’ideologia dell’impero immobiliare  –  sia esso personale o nazionale  –  oggi non necessita più di queste narrazioni legittimanti. Al contrario, essa impone il profitto puro e semplice come alibi esplicito per le violenze degli sgomberi, il declino pianificato, la gentrificazione e la finanziarizzazione.

Sebbene la «guerra urbana» – come ha analizzato l’architetta e urbanista brasiliana Raquel Rolnik – sia ormai un fenomeno globale, il modo in cui sta sostituendo i tradizionali principi della politica estera, della diplomazia e del diritto internazionale segna un ulteriore declino delle ambizioni neo-imperiali americane. Questo processo ha già trovato la sua prova generale nel saccheggio e nella frammentazione dell’Iraq. Tuttavia, mentre l’Autorità Provvisoria di Coalizione guidata da Paul Bremer imponeva la dottrina dello shock neoliberista con un processo di privatizzazione costituzionalizzata, oggi il saccheggio appare più diretto e brutale: un'appropriazione pura e semplice, senza la necessità di mediazioni o giustificazioni.

Sei anni fa, Jared Kushner, genero di Donald Trump, presentava il suo piano «Peace to Prosperity» per la Palestina. Inizialmente liquidato dai commentatori come una mera brochure immobiliare, il progetto un anno dopo veniva inglobato nel cosiddetto Piano di Pace di Trump, meglio conosciuto come «Deal of the Century», il cui vero obiettivo era consolidare la maggior parte delle acquisizioni coloniali israeliane in Cisgiordania, relegando i palestinesi in un'enclave frammentata, subordinata e «demilitarizzata» – un'odierna versione dei Bantustan sudafricani.  Di fatto, il piano congelava il processo di Oslo nel suo momento più basso, neutralizzando ogni possibilità per i palestinesi di autodeterminarsi o difendersi.

Nel febbraio dello scorso anno, mentre l’esercito israeliano colpiva e uccideva quotidianamente civili palestinesi, Jared Kushner, parlando alla School of Government di Harvard, rilanciava l’idea di trasferire temporaneamente i residenti di Gaza per permettere a Israele di «ripulire» la Striscia preparandola per uno sviluppo immobiliare sulla sua «preziosa» fascia costiera. L’assurdità della proposta – una deportazione mascherata da progetto urbanistico – non si fermava qui: Kushner suggerì persino di trasferire i palestinesi di Gaza nel deserto del Negev, un’idea che, ironicamente, non ottenne nemmeno il favore dei coloni teocratici e ultranazionalisti nel governo di Netanyahu.

Le recenti dichiarazioni di Trump rispecchiano quelle del genero, ma segnano anche un ulteriore passo verso un terreno in cui anche il minimo riferimento alla legalità diventa superfluo. Il presidente degli Stati Uniti sta invitando tutti ad abbracciare pienamente la sua visione dello sviluppo immobiliare come sostituto del diritto internazionale, quella che potremmo definire la sua «ontologia immobiliare». Parlando con i giornalisti a bordo dell'Air Force One (dove ha anche svelato la sua mappa del «Golfo d’America»), Trump ha descritto Gaza come «un grande sito immobiliare. Gli Stati Uniti lo possiederanno e lo svilupperanno lentamente, molto lentamente – non abbiamo fretta – portando stabilità al Medio Oriente».

Parlando alternativamente di «prendere», «possedere» e «comprare» – senza mai specificare chi detenga effettivamente la proprietà – Trump ha suggerito che la ricostruzione potrebbe comportare una qualche forma di locazione: «Potremmo darlo ad altri Stati del Medio Oriente per costruirne delle sezioni». In un'intervista successiva con Bret Baier di Fox News, dove ha confermato che l’acquisizione di Gaza avrebbe annullato qualsiasi diritto al ritorno per gli abitanti palestinesi della Striscia, Trump sembra aver trasferito il titolo del territorio dal governo degli Stati Uniti a sé stesso: «Costruiremo comunità sicure, in luoghi più lontano da dove sono posizionate attualmente, da tutta questa zona di pericolo. Nel frattempo, io possederei questo. Pensate a questo come a uno sviluppo immobiliare per il futuro. Sarebbe un bellissimo pezzo di terra. Nessun grande investimento economico».

L'incertezza sul fatto che Trump possieda personalmente Gaza – come una sorta di lurida reincarnazione di re Leopoldo II – mette in evidenza una frattura radicale con l'idea che chi detiene la carica presidenziale non debba arricchirsi personalmente durante il suo mandato. Le preoccupazioni per i «conflitti di interesse» che hanno caratterizzato il suo primo mandato sembrano, a confronto, quasi ingenui. Questa versione di conquista imperiale del XXI secolo appare priva di qualsiasi riflessione politica su governance, stato di diritto, autorità o sulla «questione dei nativi», come sarebbe stata formulata nell’epoca dell’impero. I palestinesi sono destinati a scomparire come i residenti di un edificio che è stato rinnovato come parte di un processo di declino gestito.

In effetti, mentre il governo israeliano è estremamente entusiasta di questa deportazione della popolazione, approvata dagli Stati Uniti e in linea con le antiche fantasie sioniste, è evidente che nella mente di Trump si tratti semplicemente di uno sgombero su scala maggiore. Non è tanto la conquista attraverso il lawfare ad essere portata alle estreme conseguenze, ma una forma di «renoviction»[1] genocida, presentata come se gli Stati Uniti non fossero pienamente complici delle decine di migliaia di morti e dell'annientamento della maggior parte dell'ambiente costruito di Gaza così come delle sue infrastrutture vitali, dagli ospedali ai sistemi di depurazione delle acque. Mentre Israele ha da tempo usato leggi urbanistiche e operazioni militari per spostare i palestinesi dalle loro terre, il piano di Trump segna una vera e propria svolta, passando dall'acquisizione territoriale motivata dalla sovranità statale a un semplice e spoglio «land grabbing» a fini di profitto.

Ciò non significa negare che il colonialismo sia sempre stato un processo di accumulazione, estrazione e sfruttamento, né che abbia visto ripetutamente l'intervento di attori privati e aziendali. Tuttavia, è fondamentale notare un cambiamento nella pratica e nell'immagine di sé del potere sovrano e imperiale, nonché una crescente volontà di abbandonare le concezioni giuridiche del territorio, dello stato-nazione e delle relazioni internazionali che, pur con ipocrisia o attenuazione, sono state predominanti per troppo tempo.

Parlando al fianco del re giordano Abdullah alla Casa Bianca, Trump ha alzato ulteriormente la posta, suggerendo che questo sviluppo non richida più nemmeno un acquisto o una transazione preliminare: «Non dovremo comprare, avremo Gaza. Non dobbiamo comprare. Non c'è nulla da comprare». Trasformare la Striscia di Gaza in una terra nullius – un dispositivo legale cruciale nell’arsenale del colonizzatore – sembra aver superato persino gli antecedenti storici, grazie all'uso delle moderne tecnologie militari. Israele ha inflitto una distruzione talmente violenta alla terra e ai suoi substrati – quello che l'agenzia Forensic Architecture definisce «terraforming» – che non è solo il paesaggio a essere stato alterato, ma anche i secoli di storia umana e ambientale che giacciono sotto di esso. La devastazione è stata progettata per rendere la Striscia di Gaza inabitabile. Ma ciò va oltre i consueti precedenti storici coloniali, in cui la terra veniva trasformata in «rifiuto» attraverso la distruzione della vita indigena, al fine di renderla appropriabile dai coloni (sebbene questo ricordi da vicino ciò che John Llewallen ha definito l'«ecologia della devastazione» durante la guerra del Vietnam).

A prescindere dalle retoriche bibliche di vendetta, anche l’esercito israeliano ha fatto ricorso alla logica della produzione dello spazio come proprietà immobiliare, utilizzando mappe create originariamente negli anni ‘70 per suddividere il territorio di Gaza in lotti destinati agli insediamenti ebraici. Questa mappa è stata poi riproposta con un nuovo scopo: istruire i palestinesi su come raggiungere presunte «zone sicure» – che in realtà erano veri e propri luoghi di morte, come rivelato nel rapporto Humanitarian Violence: Israel’s Abuse of Preventative Measures di Forensic Architecture.

Nel dicembre del 2023, una compagnia immobiliare israeliana ha lanciato un manifesto che sovrapponeva i diagrammi delle moderne case unifamiliari a una fotografia della Gaza bombardata, accompagnata dallo slogan: «Svegliati, una casa sulla spiaggia non è un sogno. Ora in prevendita». Nel gennaio del 2024, l'organizzazione coloniale israeliana Nachala, guidata da Daniella Weiss, ha organizzato una conferenza dal titolo «Il Settling porta sicurezza», promuovendo esplicitamente il «trasferimento» della popolazione palestinese di Gaza e il reinsediamento ebraico. Alla conferenza, alla quale ha partecipato quasi un terzo del governo di Netanyahu, sono state presentate mappe che invitavano i partecipanti a «Vieni a costruire la tua casa a Gaza», suddividendo la Striscia in nuovi insediamenti e quartieri, con nomi in ebraico. Ad esempio, il quartiere di Shuja'iyya, da cui proveniva il poeta assassinato Refaat Alareer, sarebbe stato rinominato in onore dei soldati dell'IDF che combatterono a Gaza. Nel frattempo, le fiere immobiliari che vendono proprietà nei territori occupati, organizzate tra gli Stati Uniti e il Canada, sono diventate un importante punto di rottura per il movimento di solidarietà con la Palestina.

L'ontologia immobiliare di Trump non è, quindi, del tutto unica. Potrebbe anzi rappresentare l'estremo di un continuum che riguarda la pulizia etnica della Palestina e la frammentazione delle terre palestinesi, un processo iniziato nel 1948 e intensificato drasticamente dopo la firma degli Accordi di Oslo. Il dismembramento della Cisgiordania in Aree A, B e C – apparentemente sottolivelli crescenti di controllo israeliano da A a C, ma de facto sotto controllo israeliano totale – ha privato l'Autorità Palestinese di ogni sovranità su terre non contigue, con Israele che amministra direttamente il 61% della Cisgiordania. Nonostante ciò, la politica economica neoliberale, e in particolare lo sviluppo immobiliare nell'Area A, ha continuato a prosperare, come dettagliato nel lavoro di Kareem Rabie, Palestine is Throwing a Party and the Whole World is Invited.

Nelle colonie illegali, troviamo israeliani che non corrispondono necessariamente all'immagine stereotipata dei fanatici religiosi (i «giovani della collina»). Ci sono, infatti, spesso giovani famiglie che non possono permettersi il mercato immobiliare di Tel Aviv – l'accessibilità economica ha fatto sì che la cosiddetta «Gaza Envelope» sia tornata ad essere una delle aree con il maggior numero di acquisti di case in Israele, solo pochi mesi dopo il 7 ottobre. Nei Territori Palestinesi Occupati, vediamo prosperare un particolare tipo di sviluppo immobiliare in un contesto privo di integrità territoriale e autorità politica sovrana. Questo fenomeno si basa non solo sulla continua violenza di appropriazione, dislocazione e demolizione delle proprietà, ma anche sull'espropriazione delle risorse palestinesi, in particolare delle falde acquifere. Come molti commentatori hanno sottolineato, il genocidio e l'ecocidio a Gaza non possono essere separati dai piani relativi ai giacimenti di gas al largo della costa di Gaza – un obiettivo che alcuni analisti vedono anche come parte degli interessi di Trump e degli Stati Uniti.

Tra alcuni dei sostenitori di Trump, il «piano di sviluppo di Gaza» è stato accolto con entusiasmo. Curtis Yarvin, blogger di estrema destra e figura influente per personaggi come Peter Thiel, Steve Bannon e J.D. Vance, ha fatto eco alla proposta di Trump, adattandola all'immaginario «libertario» anti-democratico della tecnologia che Quinn Slobodian ha definito come «crack-up capitalism». La distopia di Yarvin per «Gaza Spa» combina le visioni di Trump sullo sviluppo immobiliare con una concezione interamente corporativa e privatizzata della sovranità, che si sottrae ai parametri stessi del diritto internazionale e della politica democratica. Un modello simile a quello di Próspera, la «charter city» in Honduras, finanziata da venture capitalist come Thiel, Balaji Srinivasan e Marc Andreessen.

Per Yarvin, una condizione preliminare per trasformare Gaza nella «prima sovrana corporation a unirsi all'ONU» non è solo deportare la sua popolazione, ma obliterare i loro diritti di proprietà sulla terra. Il blogger afferma:

«Gaza senza i suoi abitanti – e ancora più importante, senza il loro complesso labirinto di titoli fondiari risalenti all'epoca ottomana – vale molto di più di Gaza con i suoi abitanti, cosa che vale persino per gli stessi abitanti. Questi sono 140 miglia quadrate di proprietà mediterranee libere da rivendicazioni, da demolire e sminare al costo di forse dieci miliardi di dollari. Questa terra diventa la prima “charter city” supportata dalla legittimità degli Stati Uniti: Gaza Spa. Simbolo azionario: GAZA».

Rimanendo fedele alla sua persona di provocatore che sfida i «liberali», Yarvin alimenta ulteriormente la polemica suggerendo che la «roadshow» per questa IPO dovrebbe essere gestita da Adam Neumann, il miliardario israelo-americano cofondatore di WeWork. Secondo Yarvin, la sua visione e quella di Trump condividono il merito di abbracciare la realtà che «la storia umana normale» si sta riaffermando al crepuscolo di un ordine liberale. Al centro della sua proposta c'è l'idea che «tutti i titoli immobiliari hanno la guerra come blocco genesi[2]».

L’acquisto di Gaza da parte di Trump si inserisce perfettamente nei suoi tentativi di forzare la mano dei danesi per «vendere» la Groenlandia o dei panamensi per «restituire» il Canale, mettendo in evidenza una figura ancora più cruda e apertamente transazionale della primazia internazionale americana. Questa logica è la stessa che regge le rivendicazioni degli Stati Uniti sui ricavi derivanti dalle terre rare ucraine e sul «diritto di prelazione per l’acquisto di minerali esportabili», come indicato in un contratto prospettico redatto da avvocati privati. La proiezione del potere militare statunitense è sempre stata accompagnata da saccheggi e racket di protezione, ma è interessante notare che ora gli Stati Uniti sembrano non sentire più la necessità di rendere omaggio alle regole internazionali. Sempre più orientato dal dominium, questo imperium non sa più come gestire le basi segrete del potere. Preferisce uno stato aggressivamente superficiale, non «profondo». Fino a che punto la proiezione globale del potere americano – su cui le fortune economiche del paese dipendono profondamente – possa sopravvivere a questa svolta senza egemonia, è uno dei tanti enigmi che ci troviamo ad affrontare. Ciò che è chiaro è che lamentarsi della politica vista come sviluppo immobiliare e, al tempo stesso, struggersi per l'ordine internazionale liberale – il riflesso delle stesse élite internazionali centriste che hanno preparato il mondo per Trump e i suoi simili – è un esercizio di futilità.

 

 

Note

[1] Quello sfratto eseguito con la scusa di dover rinnovare i locali.

[2] Un blocco genesi è il primo blocco in una blockchain, il registro distribuito che sta alla base delle criptovalute


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Brenna Bhandar è autrice di Colonial Lives of Property: Law, Land and Racial Regimes of Ownership (DUP, 2018) e di (con Rafeef Ziadah) Revolutionary Feminisms: Conversations on Collective Action and Radical Thought (Verso, 2020).


Alberto Toscano insegna alla Simon Fraser University. È autore di vari articoli e libri sull’operaismo, sulla filosofia francese e sulla critica al capitalismo razziale, di cui è uno dei punti di riferimento nel dibattito internazionale. Per DeriveApprodi ha pubblicato: Tardo fascismo. Le radici razziste delle destre al potere (2024).

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