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Le due imprese di Pigafetta



Prima di sbarcare finalmente in Spagna, al termine del lungo viaggio durato 3 anni intorno al mondo, la nave Victoria, unica superstite della spedizione di Magellano, si ferma nelle portoghesi isole di Capo Verde. Tra gli uomini dell'equipaggio vi è il vicentino Antonio Pigafetta, il quale chiede ai portoghesi che giorno sia e resta molto meravigliato nello scoprire che è giovedì 10 luglio e non mercoledì 9 luglio, come previsto dal computo del tempo da lui tenuto nei suoi diari. Lo stesso errore si ripresenta una volta approdati finalmente a San Lucar il giorno 6 settembre, che al navigatore vicentino risulta, invece, essere il 5 settembre. Franco Piperno racconta in questo testo l'impresa compiuta da Pigafetta per sciogliere l'«enigma del giorno perduto» .


* * *


La prima impresa

La mattina del mercoledì 9 luglio del 1522 la Victoria gettò l’ancora nella piccola baia della costa orientale di Sao Miguel, la più meridionale delle isole degli Avvoltoi, possedimento portoghese certo ma pur sempre cristiano. Subito i marinai sbarcarono presso il villaggio accoccolato sul promontorio a Sud dell’insenatura. Scesero a terra in dodici, i due terzi dell’equipaggio; giacché sulla Victoria si trovavano in tutto diciotto uomini, compresi il tenente, il vicentino Antonio Pigafetta, e il capitano, lo spagnolo El Cano.

Erano i sopravvissuti della spedizione di Magellano, del giro del mondo iniziato ben tre anni prima da San Lucar, con cinque navi e duecentosessantacinque uomini di equipaggio. Quella mattina, nella piccola baia delle Azzorre, i diciotto membri dell’equipaggio ripresero contatto con la civiltà europea dopo oltre tre anni di navigazione verso Occidente.

Se erano sbarcati in dodici – sei portoghesi e sei italiani e con due scialuppe – non fu certo soltanto per assicurare i rifornimenti d’acqua e di viveri, ma piuttosto a causa della furibonda nostalgia che, ormai da mesi, si era impadronita dell’equipaggio. I quattro uomini di mare rimasti a bordo erano tutti spagnoli; il capitano aveva loro proibito di lasciare la nave per non suscitare il sospetto delle autorità portoghesi del villaggio.

Verso mezzogiorno Pigafetta, osservando le scialuppe cariche aprirsi un varco verso la nave al ritmo ben cadenzato dei remi tra le onde lunghe e alte dell’oceano Atlantico, non riuscì a trattenere una smisurata boria nazionale riflettendo sulla circostanza che gli spagnoli, centosettanta alla partenza da San Lucar, s’erano ridotti a quattro, i portoghesi da sessanta a un decimo, mentre gli italiani s’erano appena dimezzati.

Così rifletteva pigramente Pigafetta lasciandosi cullare dal rollio della nave, quasi volesse già abbandonarsi al meritato riposo che aspetta sempre colui che ha compiuto una grande impresa.

Poi il rumore delle onde fu squarciato da un grido d’uomo, un grido che, nonostante la distanza di circa mezzo miglio, Pigafetta aveva subito riconosciuto. Era il nostromo calabrese Greco Antonio da Amantea, e urlava a squarciagola in italiano: «Tenente, tenente, oggi non è mercoledì, è giovedì».

Una volta saliti a bordo, gli uomini avevano spiegato che, secondo i portoghesi dell’isola, quel giorno era giovedì dieci luglio e non mercoledì nove, come risultava dal giornale di bordo della Victoria.


Il dubbio

Grande fu la sorpresa per tutti, in particolare per Pigafetta che redigeva il giornale da oltre un anno, da quando aveva lasciato la nave ammiraglia ed era trasbordato sulla Victoria.

Questo era accaduto il giorno dopo la battaglia di Mactan durante la quale, proprio ancora sulla battigia, morì affogato in qualche metro d’acqua Magellano, appesantito dall’armatura e dal compito generoso di proteggere i suoi uomini che fuggivano disordinatamente gli sciami di nere frecce lanciate dai filippini.

Poi la spedizione, persa la guida, si era divisa: la Trinidad, centodieci tonnellate di stazza, la nave ammiraglia al cui comando era subentrato Gomez de Espinosa, con l’alberatura semidistrutta, aveva salpato le ancore verso l’Isola dei Ladroni per i lavori di riparazione; mentre la Victoria, di appena ottanta tonnellate, affidata al comando di El Cano, aveva proseguito verso Occidente secondo il piano di Magellano. Da allora, andava riflettendo Pigafetta, aveva curato lui stesso il giornale di bordo annotandovi scrupolosamente ogni alba e ogni tramonto del Sole.

Il tenente s’era subito precipitato a controllare gli altri due giornali, custoditi sotto chiave a bordo: quello della Santiago che lui stesso aveva salvato su incarico dell’ammiraglio quando, quasi all’inizio del viaggio intorno al mondo, la nave – la più leggera della spedizione con le sue settantacinque tonnellate – era stata abbandonata, per decisione di Magellano, sui ghiacci aguzzi della Terra del Fuoco dopo una grave avaria del timone; e quello della Conception, novanta tonnellate, che s’era autoaffondata, su ordine del suo comandante El Cano, per sfuggire alla cattura dei filippini durante la battaglia di Mactan.

L’ufficiale vicentino si mise a comparare minuziosamente, giorno per giorno, i tre diari alla ricerca di un errore di datazione inserito nel diario della Victoria dall’ufficiale che l’aveva preceduto nell’incombenza. Non trovò nessuna discordanza; sicché, alla fine, persuase se stesso, il capitano e l’equipaggio che l’errore c’era ma lo avevano commesso, per qualche oscura ragione, gli abitanti delle Isole degli Avvoltoi.


L’enigma del giorno perduto

La Victoria riprese il mare verso la Spagna; e il viaggio richiese altri due mesi, a causa delle intemperie e dell’ostilità dei portoghesi; nel frattempo l’equipaggio s’era scordato di quel singolare evento, di quel giorno perduto.

Ma una volta in terra di Spagna, il 5 settembre 1522 secondo il diario di bordo, in quel medesimo porto di San Lucar dal quale erano partiti il 20 settembre 1519, dovettero constatare che secondo il calendario cristiano era il 6 settembre. In accordo con la data fornita dai portoghesi delle Azzorre, mancava nuovamente un giorno rispetto al computo effettuato a bordo.

Sulle prime, al momento dell’arrivo, quando ancora l’equipaggio era intento all’ormeggio, Pigafetta si attribuì l’errore anche se non riuscì a ricordare quando e come potesse averlo commesso. Ma poi tutto precipitò in un’altra direzione, imprevista. Accadde che il tenente vicentino riconobbe nel porto gli stendardi della San Antonio, la più grande delle cinque navi della spedizione, ben oltre le centodieci tonnellate. Due anni prima, il 21 ottobre del 1520, si era rifiutata di proseguire il viaggio verso occidente su istigazione del capitano Antonio de Merquisa, che aveva persuaso l’equipaggio dell’impossibilità di trovare il varco verso le Indie; e, ribellandosi a Magellano presso il Capo de las Virgines, all’inizio dello stretto che dall’Atlantico conduce a quel nuovo grande mare denominato improvvisamente Pacifico proprio da Magellano, aveva invertito la rotta puntando la prua a Oriente.

Quella mattina stessa Pigafetta era salito a bordo della San Antonio, tornata in Spagna da oltre un anno; e, malgrado le difficoltà frapposte dal disertore Merquisa, ormai votato, come rapidamente costatò, alla calunnia di Magellano, riuscì a controllare sul diario della nave la data corrispondente all’ammutinamento di Capo de las Virgines. Ancora una volta le date coincidevano. E, d’altro canto, il diario della San Antonio non presentava alcun giorno perduto rispetto al calendario cristiano.

Dacché Pigafetta aveva appurato che tanto i naviganti quanto coloro che erano rimasti a terra avevano computato il tempo senza errore, la questione del giorno perduto divenne un’ossessione. Non ne andava solo del suo onore di ufficiale, bensì della comprensione di una proprietà del tempo che sembrava rivelarsi solo nei lunghi viaggi di andata e ritorno, senza inversione di direzione; proprietà nella quale non ci si era imbattuti prima soltanto perché non si era mai compiuta la circumnavigazione del globo. In altri termini, così ragionava Pigafetta, il computo del tempo effettuato da un marinaio che fa il periplo della Terra verso Occidente, da San Lucar a San Lucar, differisce dal computo della moglie del marinaio che, nel frattempo, è rimasta ad attenderlo a San Lucar.

Pigafetta era talmente catturato dall’enigma che, ottenuta una speciale autorizzazione da Carlo V messo discretamente a parte del fenomeno, si sottrasse ai festeggiamenti per rinchiudersi nella grande biblioteca di Cordoba, fondata dai Mori: qui, tra l’odore di inchiostri e le ragnatele, portò a termine quella che possiamo considerare la seconda e maggiore sua impresa.


La seconda e maggiore impresa di Pigafetta

Antonio si diede un piano di lavoro lungo due direttrici. Da una parte redigere, su richiesta di Carlo V, a partire dai quattro diari di bordo nonché dalle sue note, un resoconto completo e dettagliato della spedizione. Si trattava non solo di aderire alla richiesta del sovrano ma anche di salvare la gloria del portoghese Magellano a fronte di una sorta di usurpazione che tentava lo spagnolo EI Cano o delle calunnie che propalava l’ammutinato Merquista.

Il vicentino sentiva questo come un suo preciso dovere, dal momento che era stato proprio Carlo V, su raccomandazione del nunzio apostolico in Spagna il cardinale F. Chierici, vicentino anche lui, a designare Pigafetta tra gli ufficiali dell’equipaggio di Magellano; dopodichè s’era accattivata la simpatia dell’ammiraglio e ne era divenuto il segretario nonché il consigliere più ascoltato.

Non era tanto riconoscenza che Pigafetta sentiva per Magellano, quanto ammirazione, nel senso stretto della parola, per l’opera sua che il vicentino giudicava meravigliosa, ancor più di quella che Dante attribuisce a Ulisse.

L’altra direttrice di lavoro, lo sforzo di capire quell’anomalia del tempo, era più complessa e sfuggente; malgrado ciò, essa era addirittura più urgente perché, sempre su richiesta di Carlo V, doveva produrre un risultato in capo a qualche settimana, in occasione del grande simposio in onore della spedizione che l’imperatore aveva indetto nel palazzo di Valladoid per l’8 dicembre, il giorno di Maria, alla presenza dei grandi e dei sapienti di Spagna. Carlo V desiderava che fosse il tenente Pigafetta a illustrare l’enigma del giorno perduto; e a scioglierlo agli occhi del mondo cristiano.

Antonio aveva 32 anni; da dieci era entrato nell’ordine dei Cavalieri di Rodi; e il lavoro con il libro, il sestante o la spada certo non lo spaventava. Tuttavia si smarriva davanti al compito di risolvere quel rompicapo che, aveva motivo di credere, non riguardava il computo ma ciò che veniva computato, ossia il tempo in quanto tempo perduto.

Angosciato dalla sensazione di essersi cacciato da solo in una trappola, smise, dopo qualche giorno, di occuparsi del rendiconto del viaggio di Magellano intorno al mondo per dedicarsi interamente alla questione del tempo perduto.


La natura del tempo

Sprofondò nei libri stampati e subito dopo nei manoscritti ingombranti e polverosi. Cominciò con un’edizione completa della Summa di Tommaso d’Aquino sembrandogli quella la lettura più agevole, per via della familiarità che aveva acquisito con l’autore grazie ai vari breviari della Summa dei quali s’era occupato nel corso dei suoi studi giovanili.

Dopo due settimane di lettura commentata, era più o meno al punto di partenza dal momento che l’intimo legame che l’Aquinate istituiva tra Dio e il tempo comportava che ogni anomalia di quest’ultimo si risolvesse in un difetto di Dio; e questo, il vicentino lo sapeva bene, non era solo eresia, era addirittura blasfemia.

Antonio si risolse allora a ricorrere all’altra grande tradizione teologica, a quella che aveva dominato l’Europa cristiana prima dell’arrivo dei Mori, tradizione che si collegava alla cultura greca antica tramite gli insegnamenti del filosofo pagano Plotino. II compito era qui facilitato dall’esistenza di numerose traduzioni latine dei dialoghi platonici, traduzioni che avevano dato luogo a libri stampati in numerose città italiane, segnatamente Firenze, dov’era in corso una rinascita della civiltà greca classica, grazie a migliaia di profughi, spesso eruditi come Gemisto; profughi che, fuggendo l’invasione ottomana, avevano trovato rifugio nella penisola.

Pigafetta studiò e ristudiò le Enneadi di Plotino. In particolare trascrisse e commentò la Terza Enneade, dove la questione del tempo si apre con una critica della posizione aristotelica che identifica il tempo con la sua misura e si conclude con una definizione del tempo come movimento dell’anima.

Gli sembrò che negli scritti di Plotino risuonasse la parola smagliante di Platone. Si mise a leggere gli scritti del filosofo ateniese, tutti d’un fiato, per una decina di giorni. Aveva rapidamente percepito come gli unici dialoghi, pertinenti il suo problema, fossero il Timeo, il Teeteto e il Parmenide. Quest’ultimo non fu di grande aiuto perché, dopo aver introdotta la questione, la lasciava irrisolta; quanto ai primi due che collegavano strettamente il tempo all’universo ponevano Pigafetta dinanzi allo stesso tipo di immane ostacolo concettuale in cui s’era imbattuto nella lettura della Summa.

Scoraggiato, il vicentino smise di frequentare la biblioteca e si recò a Siviglia dal nunzio apostolico in Spagna, suo concittadino e amico, per un consiglio. L’uomo di Chiesa lo sollecitò a perseverare nell’impresa in modo da non deludere limperatore; gli suggerì di leggere Agostino, anzi, lo rimproverò per aver dato una sorta di preferenza alla filosofia pagana; infine gli propose di incontrare l’astronomo Ruy Faleiro che risiedeva proprio a Cordoba ed era certo in grado di aiutarlo. Per la verità il nunzio non omise di mettere in guardia il tenente sulle opinioni e la personalità dell’astronomo che, secondo le affermazioni della diplomazia pontificia, si nascondeva sotto falso nome: si trattava di un certo Gian Battista Amici, italiano da Cosenza, che aveva studiato astronomia a Padova e diritto canonico a Ferrara; e avendo ucciso in un duello un marito, potente quanto distratto, per amore della giovane moglie, si era rifugiato ormai da più di dieci anni in Andalusia per fuggire all’accusa di adulterio e omicidio.

Quel che sembrava preoccupare di più il nunzio, suddito della serenissima per nascita e uomo di mondo, non era quel celarsi sotto le vesti di Faleiro o la condotta opinabile del cosentino, bensì il fatto che quest’ultimo fosse l’autore di un libro di astronomia stampato a Venezia nel 1518 dal titolo De Motibus Corporum iuxta Principia Peripatetica, testo che il nunzio aveva letto e che anzi aveva proprio lì, alla nunziatura, sottomano, ma sul quale pendeva da alcuni mesi un procedimento del Santo Uffizio per eresia. A ogni buon conto il nunzio aveva prestato a Pigafetta il libro di Amici raccomandandosi di non permettere la lettura a nessun altro, secondo le disposizioni in uso nel caso di scritti sottoposti a procedimento; ma insistette altresì perché il vicentino lo studiasse prima di incontrare l’astronomo, in modo da essere preparato a riconoscere le fallacie di eventuali ragionamenti ereticali.

Il giorno stesso dell’incontro con il nunzio, Pigafetta riuscì a trovare un’edizione italiana delle Confessioni di Agostino, presso una piccola e lurida tipografia, gestita da un genovese che si trovava nella medesima piazza dove, solenne e mostruosa, si ergeva la Casa de la Contrataciòn, emblema dell’Impero spagnolo sulle lontane Americhe.

Lesse tutta la notte, prima Agostino d’Ippona e poi Gian Battista Amici da Cosenza; la mattina successiva, sulla carrozza che lo riportava a Cordoba, concluse che in Agostino c’erano due concetti di tempo: uno di origine platonica, che lega il tempo all’universo e quindi al Demiurgo o, se si vuole, a Dio; l’altro, più intrigante e sfuggente, che lo fa risalire ai moti di coscienza, cioè all’introspezione o, se si vuole, all’anima. E tuttavia né l’uno né l’altro facevano al caso suo, il primo per le considerazioni esposte, il secondo perché il tempo che era in questione per Pigafetta non era quello soggettivo dell’introspezione individuale, ma quello obiettivo stabilito dalla misura.

Quanto ad Amici trovò che la sua teoria delle orbite celesti somigliava in più punti a quella illustrata da Fracastoro da Verona nel libro Homocentrica, stampato a Venezia nel 1518, libro che Pigafetta conosceva bene. Entrambi gli astronomi gettavano alle ortiche gli eccentrici e gli epicicli di Tolomeo, per tornare alle sfere concentriche di Eudosso e Aristotele. Ma la descrizione di Amici non sempre risultava più semplice di quella di Fracastoro, che, a vero dire, semplice proprio non era.

La differenza più significativa fra il cielo di Fracastoro e quello di Amici gli sembrò consistere nel minor numero di sfere adoperate dal cosentino rispetto al veronese e, soprattutto, in quel movimento lento dell’ottava sfera che Amici chiamava delicatamente titubatio e che invece Fracastoro ignorava del tutto. Alla fine gli parve che il libro del cosentino fosse sì un po’ pedante, ma di certo per nulla fallace e meno che mai eretico. Una volta tornato a Cordoba il vicentino cercò un abboccamento con Faleiro alias Amici; in capo a due giorni ottenne l’incontro.


L’astronomo

La casa sorgeva ben fuori città, sulla prima grande collina lungo la strada che porta a Toledo. Era una specie di torre militare rialzata, che, di tutta evidenza, serviva all’astronomo come osservatorio. Da lassù Cordoba doveva apparire alta e sola, perduta tra le rupi.

L’astronomo non viveva certo da eremita. Dopo l’abbaiare rauco di un cane, ad aprire la porta era venuta una giovane donna dall’incarnato d’avorio, esile, i capelli neri e setolosi, due grandi occhi scuri resi più maliziosi da un leggero strabismo. Ricordava, parve ad Antonio, la mandragola, la pianta eurasiatica dai fiori purpurei e dalla radice ramificata che somiglia al corpo umano; e dalla quale si ricava un narcotico.

Indossava un severo completo nero di lana a pesanti ricami, come una monaca voluttuosa. Una mantiglia di velluto beige conferiva dignità al capo e sottolineava per contrasto le pupille color viola, di quel viola vellutato e denso che dona anche una sensazione di profumo. Dalle orecchie pendevano due buccole di corallo nero, il corallo che si trova solo ai Caraibi.

Un sorriso in sincronia con l’intero volto, emanava un calore, tenero e accogliente come la madre terra.

Una sua distratta carezza aveva subito acquietato il cane, un possente pastore dei Pirenei ancora cucciolo, mantello fulvo, occhi marroni come castagne, che ora le gironzolava docile attorno.

La giovane, preceduta dall’ingombrante cucciolo, l’aveva accompagnato lungo un corridoio stretto e buio; nell’aria un penetrante odore di grasso, l’aroma di un buon sapone che lavava bene i vestiti, i piatti, i capelli e il corpo. Poi, in fondo al corridoio, l’animale e la giovane s’erano inerpicati lungo una scala di legno stretta e ripida, veloci al punto che Antonio ebbe difficoltà a tener loro dietro.

Lei sembrava danzare più che salire, e il vicentino si sorprese a indovinare le forme di quel corpo giovane ed elastico; i lunghi mesi d’astinenza e di mare gli alimentavano una sensualità febbrile, e si svuotavano gli angoli della memoria dove si annidava il tafano della solitudine.

In cima alle scale s’apriva subito una larga stanza, fredda e quadrata, le quattro finestre spalancate sulle pareti scoscese della collina, secondo i quattro punti cardinali. Nel centro della stanza, dietro un tavolo dalle lunghe gambe, sedeva, un po’ abbarbicato, l’astronomo.

Era un vecchio minuto, completamente calvo, dal viso olivastro, i denti interi e bianchi, gli occhi verdi e tondi, come folli; se ne stava avvolto dalla testa ai piedi in un pastrano di velluto rosso senza colletto, che lasciava comunque intravedere il petto villoso e bianco; si intuiva che, un tempo, era stato bello.

La donna si era subito ritirata con il suo cane, e Antonio, dopo i convenevoli d’uso, prese a parlare dell’argomento che gli stava a cuore.


Le parole oscure

L’astronomo ascoltò in silenzio il racconto dei fatti e le osservazioni del marinaio, senza interromperlo, per oltre un’ora. Solo di tanto in tanto tradiva la sua emozione scoppiando in brevi risate irrefrenabili, che gli contraevano l’intero volto.

Dapprincipio la cosa aveva non poco imbarazzato il vicentino, giacché le risate si innescavano senza alcuna connessione col racconto; poi si era tranquillizzato, ricordando la descrizione che Teofrasto aveva dato del carattere isterico, dove la propensione ad accompagnare con un segno di piacere l’atto del comprendere nel suo farsi provoca la coazione a ridere d’ogni risultato conseguito dall’intelligenza.

Dopo che Pigafetta ebbe terminato di esporre i suoi ragionamenti, i due uomini rimasero in silenzio, a lungo, nella grande sala della torre, come a riflettere su quell’evento immane e leggero al tempo stesso, un evento che in qualche maniera li legava tra di loro e con l’universo. Da fuori si sentiva netto lo zirlio dei grilli, e, lontanando a poco a poco, il passaggio delle carrozze sull’acciottolato.

Poi l’astronomo, in un castigliano ricco di inflessioni italiane, affermò che l’unico testo che potesse essere utile, per il compito che Pigafetta s’era assunto, era il IV Libro della Fisica di Aristotele, posseduto dalla grande biblioteca di Cordoba, sia pure nella forma di manoscritto arabo. Avvertì quindi che in quanto stava per dire non c’era lo scioglimento dell’enigma proposto ma semmai una sua duplicazione; egli intuiva tuttavia, senza riuscire ad argomentare, come il secondo enigma fosse in grado di illuminare il primo.

Dopo tale premessa l’astronomo dichiarò che, a suo parere, se la spedizione di Magellano fosse stata armata da Manuel re di Portogallo anziché da Carlo re di Spagna, il giro del mondo si sarebbe svolto con la prua verso Oriente: al ritorno in Europa i sopravvissuti avrebbero constatato non già di aver perso un giorno, bensì di averlo guadagnato.

Così disse l’astronomo e su questa questione si tacque per il resto dell’incontro, malgrado il tentativo del vicentino, al quale quelle parole erano risultate piuttosto oscure, di avere chiarimenti. A un certo punto, quando il vecchio cominciava a scernere una fredda collera per l’insistenza dell’ospite, entrò nella stanza la giovane donna con il cane.

Roxana, così si chiamava, scambiò un sguardo con l’astronomo e si capì che il colloquio era finito. Roxana, pensò il vicentino, è parola caldea che vuol dire «Piccola Stella»; di sicuro la giovane era ebrea; e l’occhiata tra i due indicava quell’intimità che dona solo la nudità della carne.


Lo scioglimento dell’enigma

Nei giorni successivi Pigafetta, che pur parlava e scriveva in arabo, iniziò la lettura della Fisica facendosi aiutare da un traduttore inviato da Siviglia a stretto giro di carrozza, ancora una volta grazie alla generosità del nunzio. Il traduttore era un ebreo convertito, originario del Marocco, che conosceva perfettamente l’arabo classico e lo aveva insegnato ai gesuiti della Casa di Salamanca; ma poi, sospettato dai suoi stessi allievi di essere un marrano, aveva perso il posto ed era a malapena riuscito a sottrarsi, almeno per il momento, alla Santa Inquisizione unicamente in virtù della protezione di cui godeva presso la nunziatura in Spagna.

La prosa di Aristotele, lungi dall’essere sciatta, non aveva tuttavia le armonie di quella platonica; possedeva piuttosto lo stile che viene dalla sobrietà, dall’abitudine a scrivere note essenziali, ossia redatte col numero minimo di parole, brevi e complete, come appunti da sviluppare poi nella conversazione orale.

Pigafetta riassumeva su un foglio, in una sua personalissima lingua veneta intrisa di francesismi, quanto l’ebreo veniva leggendo ad alta voce, ora in spagnolo ora direttamente in arabo, secondo richiesta. Gli riusciva difficile concentrarsi sul testo per molte ore. Mancava ormai solo una settimana all’appuntamento con l’imperatore nel palazzo di Valladolid e non v’era alcun progresso né nella redazione del resoconto del viaggio né, e questo era più grave, nella soluzione dell’enigma. Aveva studiato per tre volte, proposizione per proposizione, il quarto Libro e si accingeva ora a chiederne all’ebreo la rilettura integrale.

Ripensava spesso, non badando più alla voce del traduttore, alle affermazioni sibilline di Faleiro.

La prima parte del discorso dell’astronomo, quella che immagina verso Oriente un viaggio intorno al mondo organizzato da Manuel I re del Portogallo, stava solo a ricordare l’esistenza di un trattato fra Spagna e Portogallo, il trattato di Tordesillas del 1494, che assegnava – sulla scorta di una Bolla Pontificia emanata nel 1493 da papa Alessandro VI il Borgia – alla Spagna tutte le nuove terre non cristiane a partire da duecentosettanta miglia a ovest del meridiano dell’arcipelago delle Azzorre e al Portogallo tutte quelle a est. Di certo, pensava Antonio, se i portoghesi decidessero di circumnavigare il globo andrebbero contro Sole; ma perché avrebbero dovuto al ritorno, computando le albe e i tramonti da bordo, ritrovarsi con due giorni in più rispetto agli spagnoli che avevano navigato nella direzione del Sole, questo, ecco, non solo non era chiaro ma gli sembrava più che mai oscuro.

L’ebreo aveva ripreso per la quarta volta a tradurre ad alta voce il quarto libro della Fisica. Le frasi asciutte e turgide di significati riempivano la stanzetta, fredda e disadorna, messa a disposizione di Pigafetta dal sovraintendente la Grande Biblioteca di Cordoba. «Noi percepiamo il tempo e il movimento insieme: perché anche quando siamo nel buio, se il nostro corpo è in quiete, se un movimento, un pensiero ha luogo nella nostra testa noi riteniamo che sia trascorso del tempo; non solo questo, ma viceversa quando pensiamo che sia trascorso del tempo, vuol dire che abbiamo percepito qualche movimento. Così il tempo deve essere o il movimento o qualcosa che appartiene al movimento... Noi apprendiamo il tempo solo quando percepiamo il movimento, e lo marchiamo col “prima” e col “dopo”; e solo quando percepiamo il “prima” e il “dopo” nel movimento diciamo che è trascorso del tempo».

«Perché il tempo è proprio questo: la misura del movimento secondo il “prima” e il “dopo”». Pigafetta aveva appena finito di trascrivere, per la quarta volta, questa definizione aristotelica che d’improvviso la frase oscura di Faleiro divenne solare.

Pensò dapprima a una caravella spagnola che potesse viaggiare per terra e per mare muovendo lungo un parallelo da San Lucar a San Lucar verso Occidente, insieme al Sole e alla sua stessa velocità: i marinai a bordo osservando il Sole sempre alla medesima altezza sull’orizzonte dovrebbero concludere che il tempo non scorre, visto che il Sole è fermo.

Poi, stupito lui stesso dalla tagliente evidenza della considerazione, si figurò una caravella portoghese che compia il periplo navigando verso Oriente lungo un parallelo da Oporto a Oporto e immaginò altresì che la velocità della caravella fosse sempre uguale ma di direzione contraria a quella del Sole: I marinai avrebbero constatato al ritorno che per due volte il Sole era passato, culminando a mezzodì, sopra le loro teste.

Una grande calma lo prese, come se avesse poggiato i piedi sopra una verità cosmica; o, forse, come se d’improvviso si fosse liberato in una sola volta da mille e un pregiudizio.

Congedato e ringraziato l’ebreo si mise a preparare l’incontro con l’imperatore e i sapienti di Spagna. La traccia del discorso che avrebbe tenuto si delineava netta. Il tempo come misura del movimento permetteva di sciogliere l’enigma del giorno perduto senza dover scomodare Dio o l’universo. I sopravvissuti della spedizione di Magellano avevano contato i giorni rispetto al loro movimento di circumnavigazione; poiché avevano compiuto un giro del mondo nella stessa direzione del Sole, quest’ultimo era passato sulle loro teste una volta in meno rispetto a coloro che erano rimasti in Spagna, senza muoversi. In fondo, a ben vedere, il giorno perduto non era una misteriosa proprietà del tempo, ma una qualità dello spazio terrestre, un evidente segno della simmetria sferica della Terra e della rotazione del Sole attorno alla Terra.

Quest’ultima considerazione suggerì a Pigafetta un modo geometrico, e particolarmente intuitivo, di ricostruire il fenomeno del giorno perduto per i convitati di Carlo V. In effetti, pensò il vicentino, si tratta di comporre due rotazioni, quella del Sole e quella della caravella, facendo la differenza fra le due nel caso della circumnavigazione a Occidente e la somma per quella a Oriente. Il fenomeno può quindi essere rappresentato da un uomo che ruoti su se stesso, in senso orario per esempio, e al contempo percorra il bordo di un grande tavolo circolare, una volta in senso orario, l’altra in senso antiorario.

Nel palazzo reale di Valladoid, la sera dell’8 dicembre 1522, giorno di Maria, v’era nella sala da pranzo, addobbata con arazzi sfarzosi, un grande tavolo circolare d’ebano, con il bordo di argento brunito, il tavolo del convito. Quella sera Pigafetta per due volte ruotò su se stesso mentre girava intorno al tavolo, una volta in modo levogiro, l’altra destrogiro.

Così Pigafetta portò a termine la sua seconda e più grande impresa, con grande soddisfazione di re Carlo V e molta frustrazione dei sapienti di Spagna.



* * *


Franco Piperno è stato Assessore alla comunicazione presso il comune di Cosenza, dove si è impegnato nell’ideazione e creazione del nuovo planetario. È professore di Struttura del materia e insegna Astronomia visiva all’Università della Calabria. Ha insegnato Fisica presso numerose università italiane e alcune delle più prestigiose università del mondo. È altresì noto per la sua partecipazione alle vicende politiche degli anni Settanta in Italia.


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